La sovrapponibilità delle condotte di mobbing al reato di atti persecutori
04 Agosto 2022
Massima
Integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro - che ben possono essere rappresentati dall'abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi - tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p. Il caso
Il presidente di una società di servizi controllata da un comune, nell'ambito della sua attività di gestione, determinava nei dipendenti addetti alla funzione di ausiliari del traffico un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura al punto di costringerli ad alterare le loro abitudini di vita. L'evento veniva realizzato rivolgendo ripetutamente minacce e denigrando moralmente i lavoratori, anche con l'invio di numerose e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare. Le condotte oggetto di contestazione si sostanziavano, in particolare, in minacce di "cementare" le persone in un pilastro, in inviti a confrontarsi fisicamente in caso di dissidio con le scelte del gestore, nella sottoposizione a rimproveri mortificanti e ad una serie di provvedimenti disciplinari culminati anche in un licenziamento al fine di creare un clima di timore tra i dipendenti iscritti ad una associazione sindacale. In primo grado il Tribunale affermava la responsabilità penale dell'imputato per il delitto di atti persecutori aggravato ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 11, (capo a), ritenendo assorbite in tale titolo le condotte di minaccia contestate ai capi d), e) e g), e per il delitto di lesione personale.
L'imputato proponeva appello e, in tale sede, veniva parzialmente riformato l'esito del primo grado: infatti, il soggetto veniva assolto dall'imputazione di lesioni personali riconoscendo l'insussistenza del fatto e riducendo la pena inflitta, confermando nel resto la sentenza precedente.
Avverso la sentenza di secondo grado l'imputato proponeva ricorso in Cassazione, articolandolo in tre punti: in primo luogo, si adduceva l'avvenuto travisamento degli atti per omissione di una prova decisiva utile ad escludere il dolo specifico dal caso concreto, segnatamente, una lettera firmata dal sindaco nella quale si affermava che tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori erano stati condivisi ed esaminati dal consiglio di amministrazione della società e che le iniziative del presidente tendevano esclusivamente al miglioramento della produttività della stessa; in secondo luogo, il soggetto lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva sopravvenuta, costituita dalla deposizione del sindaco stesso sulle circostanze menzionate nella suddetta missiva. Da ultimo, si censurava la motivazione della sentenza di secondo grado affermando la sua contraddittorietà e manifesta illogicità dovuta ad un'indebita selezione delle prove.
I tre motivi oggetto del ricorso sono stati giudicati infondati.
In relazione al primo motivo, la Corte afferma, infatti, che, in armonia con la rilevanza del principio dell'oralità nel processo penale, «è inammissibile la prova quando con il documento si vuole accertare il fatto attestato nella dichiarazione, perché ciò può avvenire soltanto introducendola nel processo come testimonianza». In questo caso è da considerare preminente l'assunzione della dichiarazione orale e non della sua trasposizione scritta in un atto successivo firmato dal deponente.
In stretto collegamento all'oggetto della prima doglianza si pone anche il secondo motivo del ricorso, giudicato parimenti infondato. L'affermazione che la mancata assunzione di una deposizione tendente a confermare il contenuto della missiva sia stata motivata con “formule generiche ed apodittiche” non attiene al diritto, ma al merito; di conseguenza la Corte non è tenuta a pronunciarsi sul punto.
Il terzo motivo del ricorso, dichiarato anch'esso infondato, ha dato modo alla Corte di chiarire diversi aspetti sulla sovrapponibilità del reato di atti persecutori alle condotte di mobbing, mostrando di aderire alla prospettiva adottata dai giudici di secondo grado: in tale sede infatti si era confermata la necessità che la reiterazione delle condotte vessatorie scaturisse da un “disegno preordinato alla prevaricazione”, costituendo questo un elemento fondante della fattispecie. In aggiunta, la Cassazione ribadisce che «il mobbing, inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori, laddove esso produca nella vittima uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti con uno dei tre eventi previsti dall'art. 612-bis c.p.». L'acquisizione è il frutto di un orientamento recentemente inaugurato dalla Corte (Cass. pen., sez. V, n. 31273/2020 F., Rv. 279752) che viene richiamato anche nella sentenza in commento: secondo tale visione è ammissibile sovrapporre le due fattispecie in presenza di «una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro - che ben possono essere rappresentati dall'abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi - tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p.».
Nell'ambito dell'elemento psicologico, si è confermata la sola rilevanza del dolo generico, infatti, «è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma». A nulla sono valse, quindi, le motivazioni portate dall'imputato relative all'intenzione di aumentare la produttività dei lavoratori e alla circostanza che il ricorso ai metodi di cui sopra fosse condiviso e approvato dal consiglio di amministrazione della società e dal Sindaco. In merito a tali giustificazioni i giudici della Cassazione hanno dichiarato che «atteso che l'efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l'umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici, e che la condivisione da parte degli altri componenti del consiglio di amministrazione […] della scelta di compiere atti persecutori caratterizzati anche da gravi minacce ai danni dei dipendenti potrebbe semmai comportare una condivisione da parte di tali soggetti della penale responsabilità a tali condotte». La questione
La questione in esame è la seguente: considerato che nell'ordinamento italiano al momento non esiste il reato di mobbing, è possibile dare rilevanza penale a tale condotta se si traduce nella sottoposizione ad uno stato di ansia e di paura del lavoratore vessato ripetutamente? Le soluzioni giuridiche
Il mobbing consiste «in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica» (Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509).
Accostando le acquisizioni di cui sopra alla figura degli atti persecutori emergono alcune similitudini: l'aspetto della reiterazione nel corso di un arco temporale significativo e la realizzazione nella persona offesa di uno stato di disagio psicofisico (oggetto di un disegno univoco nella mente dell'agente), il quale viene a materializzarsi nella consapevolezza della idoneità delle condotte perseguitanti alla produzione di tale effetto (richiedendo quindi il solo atteggiamento psicologico del dolo generico).
Ciò che invece distingue le due fattispecie è l'ambito nel quale è previsto il loro realizzarsi: in particolare, il mobbing può trovare applicazione nella sola sfera del rapporto lavorativo e ha ad oggetto delle condotte sia lecite che illecite (quali il demansionamento, il controllo oppressivo ed intimidatorio e l'esclusione dalla possibilità di svolgere ore di lavoro straordinario, per esempio) orientate allo svilimento del ruolo del lavoratore in seno al luogo di lavoro e alla sua vessazione anche psicologica; mentre il c.d. “stalking” raccoglie un ventaglio di condotte più ampio, infatti si propone di proteggere il bene della salute psicofisica quando posta in pericolo non solo da minacce e intimidazioni ma da qualsiasi comportamento (anche socialmente accettato, come l'invio di sms, ad esempio) che si caratterizza per l'insistenza ed invadenza nel tempo, al punto da generare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva oppure uno stato che induce ad alterare le proprie abitudini di vita.
In ambito giurisprudenziale le due figure sono già state accostate pervenendo ad un positivo riconoscimento del reato di stalking in presenza di comportamenti svilenti attuati da un amministratore delegato nei confronti di un suo dipendente, è il caso della già citata sentenza n. 31273 del 2020, tale importante acquisizione ha posto dunque le basi per il completamento della tutela penale del lavoratore, accanto allo strumento civilistico del risarcimento del danno.
A valle delle osservazioni proposte e delle affermazioni contenute nella sentenza dalla quale il discorso ha preso le mosse, ci si chiede se il tipo di tutela offerta sia sufficiente oppure se l'ordinamento italiano necessiti di una fattispecie penale ad hoc per la sanzione delle condotte di mobbing: la questione è stata solo parzialmente risolta nel 2019 con la presentazione in Senato di un disegno di legge, il DDL S. 1339, il quale si propone di apportare delle modifiche al d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (“Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”), introducendo le definizioni di mobbing e straining (situazione di stress forzato sul luogo di lavoro) e prevendendo la possibilità per il giudice civile in sede di azione per il risarcimento del danno di aggiungere all'ammontare determinato un'ulteriore somma a titolo di sanzione (art. 2-bis): la proposta legislativa non ha ancora esaurito i passaggi parlamentari necessari; inoltre, dalla lettura della stessa non emergono riferimenti a conseguenze di tipo penale. Osservazioni
L'eventuale approvazione del disegno di legge potrebbe fornire un'utile base alla discussione sul fenomeno, il quale proprio per la silenziosità del suo realizzarsi e per il campo nel quale viene ad esistenza è destinato altrimenti a rimanere ingiustamente sottovalutato. L'occupazione lavorativa, infatti, in tempi di crisi economica viene ad essere sempre più precaria e la sua eventuale perdita rappresenta un momento di stallo dal quale è difficile riprendersi, stanti le difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro italiano: per questo si presenta come il settore più adatto al fiorire di condotte ricattatorie e irrispettose anche di un valore centrale come la salute psicofisica del lavoratore stesso.
A parere di chi scrive, però, non appare necessaria la creazione di un'ulteriore fattispecie penale. La sentenza sopra commentata, in unione con il precedente del 2020, rappresenta un chiaro esempio di possibile applicazione della figura di cui all'art. 612-bis c.p. anche ai casi di condotte vessatorie sul luogo di lavoro poiché le caratteristiche del delitto di stalking (costituite dall'estensibilità del numero di possibili comportamenti vessatori, la necessaria reiterazione di questi in conformità ad un disegno predeterminato e la creazione degli stati disagianti di cui si è detto) ben consentono di accogliere nel novero delle condotte rilevanti anche i comportamenti tenuti da dirigenti, direttori, colleghi e sottoposti che tendano, con una serie di minacce, intimidazioni fisiche o psicologiche o con l'arbitraria esclusione da mansioni, dagli straordinari ed eventualmente culminanti nel licenziamento, a svilire il ruolo del lavoratore e a procurargli uno stato di disagio psicofisico.
Si ritiene, tuttavia, che la specificità del settore di emersione del fenomeno richieda comunque l'introduzione in un comma ulteriore all'art. 612-bis c.p. in modo tale da inserire un chiaro riferimento alla sfera lavorativa quale area di attuazione delle condotte vessatorie e un trattamento sanzionatorio parametrato alla retribuzione del lavoratore. Riferimenti
Verga Giovanna, Codice Penale n. 612 bis - Atti persecutori, Codice Penale Commentato, DeJure, Giuffrè Francis Lefebvre. |