Reati contro la P.A., patteggiamento e sanzioni accessorie
28 Luglio 2022
Massima
In tema di reati contro la Pubblica Amministrazione, laddove il procedimento venga definito con un patteggiamento che implichi il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p., il Giudice, ai sensi dell'art. 445, comma 1-ter c.p.p., ha la facoltà di applicare una pena accessoria, salvo l'obbligo di contenerla nel limite compreso tra uno e cinque anni previsto dall'art. 317-bis, comma 2 c.p. Il caso
Il Giudice di primo grado, nel pronunciare sentenza di patteggiamento nei confronti di un soggetto imputato per plurimi reati contro la Pubblica Amministrazione (tra cui anche la corruzione), pur riconoscendo la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p. (che prevede una diminuzione di pena per le ipotesi di collaborazione cd. “processuale”), ha disposto l'applicazione della pena della reclusione pari a cinque anni e della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Il difensore dell'imputato ha presentato ricorso per cassazione, con il quale ha richiesto l'annullamento della sentenza impugnata per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 317-bis, comma 2 c.p.
La difensa dell'imputato, in particolare, riteneva che il Giudice a quo avesse errato nell'applicazione della sanzione interdittiva in misura perpetua, dal momento che l'articolo 317-bis c.p., rubricato “Sanzioni accessorie”, al secondo comma prevede che nel caso di condanna per i reati, tra gli altri, di corruzione, la sanzione accessoria debba essere disposta per una durata ricompresa tra uno e cinque anni, se ricorre la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p. La questione
La questione involge il tema dei poteri del Giudice nell'applicazione delle sanzioni accessorie nel caso in cui si proceda per un reato contro la Pubblica Amministrazione e le parti abbiano richiesto l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
In questi casi, l'applicazione della misura interdittiva dai pubblici uffici è obbligatoria o è rimessa alla discrezionalità del Giudice?
Inoltre, qualora sia riconosciuta la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p., il Giudice può disporre l'interdizione dai pubblici uffici in misure perpetua?
Ulteriori questioni connesse al tema principale riguardano la possibilità per l'imputato di impugnare la sentenza di patteggiamento in punto di applicazione delle pene accessorie e l'applicabilità del disposto di cui all'art. 445, comma 1-ter c.p.p. anche al patteggiamento allargato. Le soluzioni giuridiche
Per risolvere la questione posta dal ricorrente, la Cassazione ha innanzitutto ricordato le modifiche apportate dalla Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (cd. Spazzacorrotti, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) rilevanti per la risoluzione del caso di specie.
Il Legislatore, infatti, ha modificato l'art. 317-bis c.p., ampliando il novero dei reati contro la Pubblica Amministrazione interessati dalla disposizione e determinando altresì la durata delle sanzioni accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione nel caso di condanna per tali delitti.
Prima della modifica del 2019, la condanna per le (sole) fattispecie di peculato, concussione, corruzione propria e corruzione in atti giudiziari comportava l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e l'applicazione della pena accessoria in via temporanea era limitata ai casi in cui, per effetto di una circostanza attenuante, fosse disposta la reclusione inferiore a tre anni.
A seguito dell'entrata in vigore della legge n. 3/2019, invece, la “temporaneità” dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrattare con la PA è stata ulteriormente specificata dal legislatore.
Salvo l'applicazione ordinaria in via perpetua per i delitti puniti in concreto con la pena superiore a due anni di reclusione, ad oggi, la durata delle sanzioni accessorie sarà (i) “non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni”, nel caso in cui venga inflitta la pena della reclusione non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 1 c.p. per i fatti di particolare tenuità, e (ii) “non inferiore a un anno né superiore a cinque anni” se viene riconosciuta l'attenuante di cui al secondo comma dell'art. 323-bis c.p.
Inoltre, nell'art. 445 c.p.p. (“effetti dell'applicazione della pena su richiesta”) è stato introdotto il nuovo comma 1 ter, che prevede, rispetto ai medesimi reati, la possibilità per il Giudice di applicare le sanzioni accessorie di cui all'art. 317-bis c.p.
Per effetto della novella, pertanto, le pene accessorie per i reati contro la Pubblica Amministrazione non hanno più un'applicazione automatica e indefettibile, ma sono rimesse alla discrezionalità del giudice nel caso di patteggiamento.
Il giudice può decidere se disporre o meno la misura interdittiva o inabilitativa, ma se decide di applicarla è obbligato a disporla per la durata prevista nell'art. 317-bis c.p.
In altre parole, l'applicazione delle pene accessorie nel caso di patteggiamento per reati contro la Pubblica Amministrazione è discrezionale rispetto all'an e vincolata nel quantum.
Per questi motivi, la Corte di cassazione, nel caso di specie, accogliendo il ricorso dell'imputato ha concluso che «allorché sia stata riconosciuta l'attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 323-bis, comma 2, cod. pen., laddove il giudice ritenga di applicare l'interdizione dai pubblici uffici (e l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione), la durata della sanzione accessoria dovrà essere compresa tra uno e cinque anni».
Di conseguenza, la sentenza impugnata è stata annullata con riferimento alla statuizione relativa alla sanzione accessoria, con rinvio al giudice a quo «per un nuovo esame della questione concernente la durata della sanzione accessoria che, ove ritenuta applicabile, va quantificata tra uno e cinque anni tenendo conto del disvalore dei reati e della personalità del responsabile, ai sensi degli artt. 133 ss c.p.».
Come anticipato, inoltre, nella sentenza in oggetto la Cassazione ha affrontato anche altre due questioni giuridiche.
La prima è di tipo pregiudiziale e riguarda la possibilità di ricorrere per cassazione rispetto ad una sentenza di patteggiamento in cui il Giudice dispone una sanzione accessoria che non è stata oggetto di accordo tra le parti.
La Cassazione, richiamando il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 21368 del 26 settembre 2019 (ric. Melzani), ha ritenuto che il ricorso fosse ammissibile, in quanto presentato ai sensi dell'art. 606 c.p.p., e che non trovasse applicazione, nel caso di specie, la disciplina speciale di cui all'art. 448, comma 2-bis c.p.p.
Secondo le Sezioni Unite Melzani, infatti, l'ambito di operatività dell'art. 448, comma 2-bis c.p.p. (introdotto dalla Riforma Orlando, l. n. 103/2017) deve essere circoscritto alle statuizioni che riflettono il contenuto dell'accordo.
Rispetto alle disposizioni estranee al predetto accordo delle parti, invece, continua a coesistere il regime di impugnazione “ordinario” di cui all'art. 606 c.p.p.
La limitazione delle ipotesi di impugnazione delle sentenze di patteggiamento prevista dall'art. 448, comma 2-bis c.p.p., infatti, è costituzionalmente legittima, in quanto bilanciata dai vantaggi conseguibili dal rito e dai limitati poteri discrezionali di cui è dotato il giudice, al quale non è richiesto un vero e proprio giudizio, ma un controllo sul progetto di decisione, derivante dall'accertamento compiuto dal Pubblico Ministero e dall'imputato e che trova la sintesi nell'accordo delle stesse parti.
Tale privazione, invece, non è giustificata nei casi in cui, come quello in esame, il Giudice disponga una sanzione accessoria «non recettiva di una non sussistente pattuizione e applicata [...] senza la interlocuzione dell'interessato». Rispetto a tali ipotesi, le Sezioni Unite hanno ritenuto comunque esigibile un controllo di legittimità, considerato che «il principio del diritto al ricorso di legittimità, oltre che nel contenuto essenziale imposto dall'art. 111 Cost., comma 7, trova ampia tutela nell'art. 568 c.p.p., comma 2, in combinato disposto con l'art. 111 Cost., comma 6, e nella regula iuris della ricorribilità delle sentenze inappellabili (art. 444 c.p.p., comma 2), per i motivi di cui al comma 1, fissato dall'art. 606 c.p.p., comma 2».
La seconda questione, invece, riguarda la possibilità di riconoscere il potere discrezionale del Giudice nell'applicazione delle pene accessorie anche con riferimento al patteggiamento allargato, in cui l'accordo delle parti si riferisce a pene detentive superiori a due anni.
Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 232 del 2 dicembre 2021, il tema è stato oggetto di divergenti interpretazioni.
L'analisi dei lavori preparatori della legge n. 3/2019 induce a propendere per una soluzione negativa, dal momento che nella relazione illustrativa al disegno di legge AC n. 1189 si fa riferimento all'intenzione di rimettere alla «valutazione discrezionale del giudice l'applicazione delle sanzioni accessorie, nel caso di irrogazione di una pena che non superi i due anni di reclusione».
In senso opposto si colloca, invece, il tenore letterale degli articoli 444, comma 3-bis e 445, comma 1-ter c.p.p., considerato che tali disposizioni non fanno esplicito riferimento a specifiche soglie di pena detentiva concordata tra le parti.
Sulla scorta del dato letterale appena citato, anche il Consiglio Superiore di Magistratura, nel parere del 19 dicembre 2018 sul disegno di legge AC n. 1189, ha evidenziato come la formulazione dell'art. 444, comma 3-bis c.p.p., «che richiama specificamente e senza limitazioni di pena taluni delitti contro la p.a., rende possibile un'interpretazione che includa nel suo ambito di operatività non solo il caso del patteggiamento a pena contenuta nei due anni [...] ma anche le ipotesi di patteggiamento a pena superiore a due anni di reclusione».
Nella sentenza in esame, i Giudici della Cassazione hanno ritenuto di aderire al secondo orientamento, richiamando la pronuncia della medesima sezione n. 6614 del 12 novembre 2020, che ha riconosciuto il potere discrezionale del giudice anche nel caso di patteggiamento allargato. Osservazioni
Senza verificare l'impatto e soprattutto senza che si sia potuto procedere ad una valutazione empirica degli effetti operati dagli interventi di riforma di cui alle leggi n. 190/2012 e 69/2015, il 18 dicembre 2018 è stato approvato in via definitiva dalle Camere il nuovo disegno di legge in materia di corruzione e delitti contro la p.a.: il cd. “ddl Spazza – Corrotti”.
Il legislatore, così si afferma nella relazione di accompagnamento, ha ritenuto opportuno intervenire nuovamente sull'assetto dei sistemi dei reati dei pubblichi ufficiali contro la pubblica amministrazione «per affrontare… in modo (più) efficace il fenomeno corruttivo e, in generale per assicurare una maggiore incisività all'azione di contrasto» di tali fenomeni delittuosi.
In tale contesto si inseriscono le modifiche introdotte dalla legge n. 3/2019 con riferimento alle pene accessorie, la cui applicazione è stata estesa sia rispetto al novero dei reati interessati, sia rispetto alla durata, venendone stabilita l'operatività anche in caso di sospensione condizionale della pena.
In particolare, per garantire l'effettività delle misure citate la riforma, in deroga alla disciplina ordinaria, ha previsto la possibilità per il Giudice di disporre che la sospensione condizionale della pena non estenda i suoi effetti anche alle misure accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione (art. 166, comma 1 c.p.), potendo inoltre il Giudice, anche nella sentenza di patteggiamento, applicare le sanzioni di cui all'art. 317-bis c.p. (art. 445, comma 1-ter c.p.p.), le quali, dunque, risultano del tutto svincolate dall'effetto premiale del rito riconosciuto ai sensi del comma 1 dell'art. 445 c.p.p.
Il Legislatore ha altresì escluso, in generale in riferimento a tutti i reati, che la riabilitazione possa avere effetto sulle pene accessorie perpetue, ai sensi del nuovo comma 7 dell'art. 179 c.p. Tali sanzioni potranno essere dichiarate estinte solo decorso un termine non inferiore a tre anni dalla riabilitazione e se il condannato avrà dato prova effettiva e costante di buona condotta.
Concretamente quest'ultima previsione comporta, ad esempio, che in caso di condanna alla pena della reclusione per la durata di due anni e un mese, il Tribunale di sorveglianza territorialmente competente potrà dichiarare l'estinzione della misura accessoria perpetua solo dopo che siano trascorsi dodici anni e un mese: deve, infatti, attendersi l'esecuzione della pena principale, l'intervallo di tre anni per poter richiedere la riabilitazione e l'ulteriore termine di sette anni per poter conseguire l'estinzione della pena stessa.
Inoltre, occorre rilevare che, sempre nell'ottica di rafforzare gli effetti delle pene accessorie, a seguito dell'entrata in vigore della Legge Spazzacorrotti, l'esito positivo dell'affidamento in prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue (art. 47, comma 12 l. n. 354/1975).
L'evidente rigidità del sistema delle sanzioni accessorie rispetto ai reati di cui al Titolo II del Secondo Libro del Codice Penale è attenuata solo dalla circostanza ad effetto speciale di cui all'art. 323, comma 2 c.p., che prevede una diminuzione di pena da un terzo a due terzi nei confronti di chi (imputato per i reati di corruzione, induzione indebita, istigazione alla corruzione, nonché per i delitti di cui all'art. 322-bis c.p.), successivamente alla commissione del reato, si sia efficacemente adoperato, alternativamente, (i) per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriore (ii) per assicurare le prove dei reati (iii) per l'individuazione degli altri responsabili (iv) per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.
L'articolo 323-bis, comma 2 c.p., introdotto dalla l. n. 69/2015 come strumento premiale, intende favorire le ipotesi di collaborazione processuale – come si legge nella sentenza oggetto del presente commento – «per consentire l'emersione di un fenomeno criminale che mina la credibilità e la trasparenza della pubblica amministrazione».
Per contrastare l'espansione del fenomeno corruttivo, pertanto, il Legislatore ha adottato una strategia politico-criminale differenziata, in cui, da un lato, sono state inasprite le sanzioni (anche accessorie) e, dall'altro, è previsto un trattamento di favore per chi si dissocia dal sistema corruttivo e si adopera efficacemente per conseguire almeno uno dei risultati previsti dalla norma.
In seguito, tale finalità è stata ulteriormente rafforzata dal Legislatore del 2019, mediante l'introduzione del secondo comma dell'art. 317-bis c.p. che, come già evidenziato, limita la durata delle sanzioni accessorie da uno a cinque anni, nel caso in cui ricorra la circostanza attenuante in parola.
La necessità di temperare l'originaria rigidità sanzionatoria nel caso di ravvedimento operoso post delictum è stata evidenziata anche dalla Sesta Sezione della Cassazione nella sentenza oggetto di commento.
In tale pronuncia, la sanzione accessoria irrogata dal primo giudice è stata censurata nella misura in cui si pone al di fuori dei limiti previsti dall'art. 317-bis, comma 2 c.p. e il rinvio è stato disposto, in primo luogo, per valutare l'applicabilità dell'interdizione (an) e, solo in caso positivo, per determinarla nella misura da uno a cinque anni (quantum).
Nel solco del favor riconosciuto alla collaborazione processuale, quale strumento premiale utile (anche) a mitigare gli effetti repressivi della legge n. 3/2019, si colloca anche la recente ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano in funzione di Giudice dell'esecuzione, datata 13 maggio 2022, con la quale è stata riconosciuta – in maniera innovativa – la possibilità di sospendere l'ordine di esecuzione nei confronti del condannato per il reato (ostativo) di corruzione propria, al quale era stata applicata la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p.
È noto che la Legge Spazzacorrotti, includendo nel novero dei reati di cui all'art. 4 bis della legge sull'ordinamento penitenziario molti delitti contro la Pubblica Amministrazione, ha privato il condannato della possibilità di accedere alle misure alternative, in mancanza di una collaborazione ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit. o 323-bis, comma 2 c.p.
Il Pubblico Ministero, nel caso di specie, aveva emesso l'ordine di esecuzione nei confronti del soggetto condannato, in quanto l'art. 656, comma 9 c.p.p. ne impedisce la contestuale sospensione nel caso dei reati ostativi, e aveva ritenuto che il richiamo all'art. 4-bis ord. penit. fosse da intendersi solo con riferimento alle fattispecie ivi elencate e non anche alla disciplina dell'accesso alle misure alternative (ammesso solo in caso di collaborazione).
Il GIP di Milano, invece, valorizzando evidenti esigenze di economia processuale, ha ritenuto che, diversamente dall'art. 58-ter ord. penit. (che richiede un accertamento della magistratura di sorveglianza in sede esecutiva), la collaborazione di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p. è riconosciuta, qualora ne ricorrano i presupposti, dal Giudice di cognizione con la sentenza di condanna e, pertanto, non è necessario alcun vaglio nella fase esecutiva della pena.
Di conseguenza, nel caso in cui sia stata riconosciuta la circostanza attenuante della collaborazione in sede di cognizione, non dovrà essere svolta alcuna valutazione discrezionale rispetto al condannato al momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione e il Pubblico Ministero, limitandosi a constatare quanto risulta dal titolo esecutivo, potrà disporre la contestuale sospensione dell'ordine di esecuzione.
In conclusione, la tendenza che emerge dall'analisi giurisprudenziale è evidente: rendere effettivo il favore accordato dal Legislatore a chi si dissocia dal sistema corruttivo nel tentativo di potenziare l'emersione della cd. “cifra oscura” che caratterizza la commissione delle fattispecie delittuose dei reati contro la Pubblica Amministrazione. Riferimenti
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