Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, sentenza 27 settembre 2018 n. 51063 (depositata il 9 novembre 2018), hanno deciso le questioni controverse sopra descritte enunciando i seguenti principi di diritto:
«La diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto»;
«L'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, così come riformulato dal decreto legge 20 marzo 2014 (convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79), prevede un'unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l'oggetto».
«La detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro».
L'articolata motivazione delle Sezioni unite muove da una ricostruzione storica delle vicende normative che hanno interessato l'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, rappresentando la stessa la base per capire la ratio della disposizione e il suo concreto atteggiarsi sul piano pratico.
Ebbene, dal punto di vista storico, inizialmente la fattispecie del comma 5 è stata considerata da dottrina e giurisprudenza come un'ipotesi autonoma di reato, tuttavia successivamente la giurisprudenza ha mutato orientamento e ha iniziato a “catalogare” il comma 5 come circostanza attenuante.
Ciò anche sulla scorta della modifica al testo della lett. h) dell'art. 380 c.p.p., operata dalla legge 5 ottobre 1991, n. 314, in cui – ai fini dell'esclusione dell'arresto obbligatorio in flagranza – si qualificava espressamente il comma 5 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come circostanza attenuante.
Il d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 ha subito, poi, una profonda modifica a opera della legge 21 febbraio 2006, n. 49 che ha apportato significativi mutamenti della disciplina penale degli stupefacenti e anche della fattispecie attenuata prevista dall'art. 73, comma 5.
Tale modifica ha comportato l'eliminazione della tradizionale distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”, con equiparazione del loro trattamento sanzionatorio e inserimento di tutte le sostanze non farmacologiche in un'unica tabella. Coerentemente, l'unificazione del trattamento sanzionatorio tra droghe leggere e droghe pesanti è stata trasposta anche nel comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, senza – occorre precisare – in alcun modo modificare le condizioni di configurabilità della fattispecie attenuata rispetto alla iniziale previsione del 1990.
Tuttavia, nel 2014, la Corte costituzionale con la storica sentenza n. 32 del 2014 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge 49 del 2006 per violazione dell'art. 77 Costituzione.
Diretta conseguenza di tale pronuncia del giudice delle leggi è stata la reviviscenza del testo dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 nella versione antecedente alle modifiche apportate nel 2006 e, quindi, la reintroduzione della distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”.
L'intervento demolitorio del giudice delle leggi non ha interessato, come chiarito sia nella stessa sentenza n. 32 del 2014 sia nella successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 2017, il comma 5 d.P.R. del 9 ottobre 1990, n. 309, in quanto detta norma era stata nuovamente modificata dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n.10) modificando il trattamento sanzionatorio mediante la previsione della pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.
Attraverso tale modifica la dichiarata intenzione del Legislatore è stata quella di trasformare – ancora una volta – la stessa fattispecie da mera circostanza attenuante a figura autonoma di reato, al fine di sottrarla al giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti ed ottenere, seppur indirettamente, una riduzione controllata della popolazione carceraria.
Le intenzioni del Legislatore sono state confermate dalla contestuale modifica, operata dalla ricordata legge di conversione del predetto decreto legge, della già menzionata lettera h) dell'art. 380 c.p.p., norma che è stata, appunto, modificata sostituendo il riferimento alla “circostanza” prevista dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 con quello ai “delitti” contemplati dalla stessa disposizione.
Hanno, poi, evidenziato le Sezioni unite che, mentre il decreto legge è stato adottato prima della più volte citata pronuncia n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, la legge di conversione è stata approvata in via definitiva successivamente alla decisione della Consulta (sia pure di pochi giorni e nell'imminente scadenza del termine per disporre la conversione stessa) ma non al deposito della relativa motivazione con la conseguenza che il Legislatore non ne ha potuto tenere conto.
Quanto da ultimo descritto ha comportato la necessità di un nuovo intervento legislativo «teso soprattutto a ridisegnare i cataloghi delle sostanze stupefacenti, giacché quelli fatti rivivere dal giudice delle leggi – e cioè quelli antecedenti alla riforma del 2006 – non comprendevano, inevitabilmente, le integrazioni sopravvenute negli anni successivi».
Detto intervento è stato effettuato mediante l'adozione del decreto legge 20 marzo 2014, n. 36, la cui legge di conversione (16 maggio 2014, n. 79) ha nuovamente sostituito il comma 5 del d.P.R. 309/1990 ed ha rimodulato, in senso favorevole, il relativo trattamento sanzionatorio entro la forbice edittale della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 13.329 (e cioè la stessa pena prevista nel 1990 per l'attenuante del caso di lieve entità avente a oggetto droghe “leggere”) in modo indifferenziato a prescindere dal tipo di sostanza oggetto delle condotte incriminate.
Alla luce delle suindicate vicende normative deve ritenersi oggi consolidato l'orientamento delle Sezioni semplici della Cassazione in merito alla intervenuta trasformazione della fattispecie prevista dall'art. 73 comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 da circostanza attenuante a figura autonoma di reato (cfr. Cass. Sez. III, del 25.02.2014, dep. 7.03.2014, n.11110, Kiogwu; Cass. Sez. VI, del 28.01.2014, dep. 28.02.2014, n. 9892, Bassetti; Cass. Sez. IV del 06.07.2017, dep. 21.07.2017, n. 36078, Dubini) con la previsione di una indifferenziata risposta sanzionatoria, a prescindere dal tipo di sostanza oggetto delle condotte incriminate.
Effettuato questo doveroso excursus storico, le Sezioni unite della Cassazione sono entrate nel merito delle questioni ad esse prospettate.
Venendo alla prima questione proposta dell'ordinanza di rimessione, le Sezioni unite hanno rilevato l'effettiva sussistenza di un contrasto in giurisprudenza tra i due orientamenti sopra analizzati e hanno ritenuto di condividere il secondo degli stessi che appare maggiormente aderente alla lettera e alla ratio dell'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Appare, invero, evidente la necessità di operare un'interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali di offensività e di proporzionalità.
Occorre, infatti, considerare come la fattispecie di lieve entità costituisca “strumento” di riequilibro e “riproporzionamento” del sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti in relazione a casi concreti, nei quali, per la complessiva non gravità della condotta, il principio di offensività verrebbe sostanzialmente “tradito” applicando le più severe pene previste per le ipotesi diverse da quelle del comma 5 dello stesso art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
Al riguardo hanno, innanzitutto, precisato le Sezioni unite come negli anni non sia mai mutata nel testo dell'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 la descrizione dell'elemento specializzante e in particolare quella dei parametri funzionali per l'individuazione dei fatti di lieve entità.
Invero, la lieve entità del fatto può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato quantitativo e qualitativo sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione quali mezzi, modalità e circostanze dell'azione.
Le Sezioni unite hanno scelto di adottare una soluzione aperta, in cui il giudizio deve essere frutto di una valutazione complessiva degli elementi fattuali selezionati dalla norma.
Si è, dunque, “sposata” una valutazione globale del caso concreto, perché essa risulta essere la più aderente al dato normativo, il quale elenca in maniera indistinta una serie di indicatori, astenendosi dallo stabilire un ordine gerarchico tra gli stessi o anche solo dall'attribuire ad alcuni di essi un valore sintomatico.
Ciò comporta anche la possibilità che tra gli stessi si instaurino rapporti di compensazione e neutralizzazione in grado di consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto.
Inoltre, si è aggiunto in motivazione, all'esito della valutazione globale di tutti gli indici che determinano il profilo tipico del fatto di lieve entità, potrebbe accadere che uno di essi assuma in concreto un valore assorbente, ovvero che sia tale da non poter essere compensato da quelli di segno eventualmente opposto.
In questa logica anche la maggiore o minore espressività del dato quantitativo deve essere valutata in concreto in rapporto con le altre circostanze del fatto rilevanti secondo i parametri normativi di riferimento.
Sul piano pratico, dunque, anche la detenzione di quantitativi non minimali potrà essere ritenuta non ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 73, comma 5, e, al contrario, quella di pochi grammi di stupefacente potrebbe, all'esito della valutazione complessiva delle altre circostanze rilevanti, portare a conclusioni opposte.
Di tutto ciò, e in particolare del percorso valutativo seguito, dovrà essere dato adeguato conto nella motivazione della decisione da parte del giudice.
In seguito, le Sezioni unite si sono soffermate a contestare quanto sostenuto da parte della giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza ostativa della detenzione di sostanze eterogenee in un contesto unitario, sull'assunto che la suddetta detenzione sarebbe espressione di un più significativo inserimento dell'agente nell'ambiente criminale dedito al traffico di stupefacenti ed esporrebbe l'interesse tutelato ad un più accentuato pericolo di lesione.
Secondo la Corte ciò viene a costituire soltanto una mera petizione di principio allorché la circostanza viene astratta a pura fattispecie tipologica e non invece valutata nel concreto contesto in cui si manifesta.
All'esito del percorso argomentativo sopra enucleato le Sezioni unite hanno dato risposta alla prima parte del quesito proposto con l'ordinanza di rimessione, formulando, come già ricordato, il seguente principio di diritto: «La diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto».
Nella seconda parte della sentenza le Sezioni Unite hanno affrontato l'ulteriore questione prospettata dall'ordinanza di rimessione in ordine alla configurabilità del concorso di reati nel caso in cui l'oggetto materiale della condotta incriminata sia costituto da sostanze stupefacenti eterogenee.
In proposito il ragionamento della Corte ha preso le mosse dall'ipotesi in cui le sostanze siano catalogate in tabelle diverse, posto che quella di stupefacente è una nozione legale, legata al sistema tabellare previsto dal Legislatore che concorre a definire la tipicità delle diverse disposizioni incriminatrici (cfr. Cass. Sez. unite. del 24 giugno 1998, n. 9973 Kremi; Cass. Sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 29316, De Costanzo).
Pertanto in presenza di una singola condotta avente ad oggetto sostanze iscritte nella medesima tabella, o nel medesimo gruppo di tabelle, saremmo in presenza di un unico fatto di reato.
A seguito della modifiche introdotte dalla legge n. 49 del 2006 che, come visto in precedenza, aveva superato la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”, inserendole tutte nell'ambito di un'unica tabella, in giurisprudenza si era consolidato un orientamento secondo cui la contestuale detenzione di sostanze eterogenee non integrasse una pluralità di reati, bensì un unico reato (cfr. Cass. Sez. VI, del 20 dicembre 2007, n. 1735, Tawali; Cass. Sez. IV, 9 luglio 2008, n. 37993, Isoni; Cass. Sez. VI, 21 aprile 2008, n. 34789, Castioni).
Tuttavia, a seguito del più volte ricordato intervento della Corte costituzionale del 2014, ha fatto seguito la riviviscenza dell'originaria disciplina e, dunque, il conseguente ripristino dell'indirizzo interpretativo formatosi prima della novella del 2006, favorevole alla configurazione di reati autonomi – eventualmente unificabili ai sensi dell'art. 81 c.p. - in presenza di sostanze oggetto di un distinto inquadramento tabellare (cfr. Cass. Sez. VI, 7 ottobre 2015, n. 43432, Rodriguez; Cass. Sez. I, del 4 novembre 2015, n. 885, Codebò; Cass. Sez. IV, 1 luglio 2014, n. 43464, Lombardo; Cass. Sez. IV, del 26 settembre 2014, n. 44808, Madani).
Orbene, nel confermare tale orientamento interpretativo, le Sezioni unite hanno aggiunto alcune importanti puntualizzazioni in merito alla struttura della fattispecie di cui all'art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
Quest'ultima integra quella che la dottrina chiama una norma mista cumulativa, ovvero una disposizione che prevede più norme incriminatrici autonome tra loro a cui corrispondono distinte fattispecie di reato.
Ognuno dei cinque commi della norma contiene, poi, una norma a più fattispecie, in cui vengono descritte modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato.
Ne consegue che in caso di realizzazione da parte del medesimo agente, nello stesso contesto, di più condotte tra quelle descritte nelle singole disposizioni, sarà integrato un unico reato.
Ciò non toglie che vi possano essere rapporti di interferenza tra le varie fattispecie e che i rapporti tra le medesime nella loro formulazione vigente debbano essere ricondotti al fenomeno del concorso di reati.
Fatte queste necessarie precisazioni, occorre stabilire se e quando sia configurabile il concorso tra i reati previsti dai commi 1, 4 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e quello di cui al comma 5 dello stesso articolo.
La particolarità del caso alla base oggetto del giudizio delle Sezioni unite è quella in cui sostanze tabellarmente eterogenee sono oggetto di una condotta che deve essere valutata unitariamente, in relazione alla quale l'ordinanza di rimessione ipotizza invece la possibilità di configurare un concorso formale di reati, uno dei quali eventualmente qualificabile ai sensi dell'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
In altre parole, i giudici rimettenti suggeriscono la possibilità di valutare la lieve entità di una parte del fatto, prescindendo dall'altra ovvero dalla contestualità della condotta.
A sostegno di tale affermazione vi è stata, come ricordato dalle Sezioni unite, anche un recente sentenza (Cass. Sez. IV, 5 giugno 2018, n. 40294, Schiraldi), depositata successivamente all'ordinanza di rimessione, secondo cui, a seguito del ripristino della originaria dicotomia nei commi 1 e 4 dell'art. 73 tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”, la stessa sarebbe riproposta negli stessi termini anche nel comma 5, in virtù del richiamo ai fatti previsti dal presente articolo, con la conseguenza di legittimare una valutazione separata delle singole condotte connotate dal diverso oggetto materiale.
Orbene, le Sezioni unite non hanno condiviso queste affermazioni, specie in considerazione del ragionamento fatto in ordine alla necessaria valutazione complessiva da compiere per la configurabilità del comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Pertanto, non è possibile isolare la condotta relativa ad un tipo di stupefacente senza considerare il contesto in cui la stessa è stata realizzata, poiché, così facendo, si finirebbe per non valutare le circostanze e le modalità dell'azione, contravvenendo all'indicazione normativa.
Ne discende che la simultanea detenzione di altro tipo di stupefacente non può essere priva di rilievo ma deve essere necessariamente valutata ai fini della corretta qualificazione del fatto ribadendo, tuttavia, che essa non rappresenta, di per sé, un elemento ostativo ad una qualificazione giuridica più favorevole.
Sul piano pratico occorrerà valutare il caso concreto e analizzare se tale circostanza assuma valore assorbente rispetto agli altri elementi espressivi della lieve entità oppure se questi siano in grado di compensarne la carica negativa.
In proposito hanno osservato le Sezioni unite che, in concreto e stante il contesto unitario, l'esito più comune della ricordata valutazione sarà quello per cui tutto il fatto, considerato nel suo complesso, sarà ritenuto o meno di lieve entità con la conseguenza che nel secondo caso si configurerà il concorso tra la fattispecie prevista dal primo comma dell'art. 73 del d.P.R. 309/90 e quella contemplata dal quarto comma della stessa norma.
Non è, però, escludibile che, in astratto, la valutazione possa, in alcuni casi, “scindere” la qualificazione del fatto e comportare che una delle violazioni accertate sia ricondotta all'ipotesi del comma quinto dell'art. 73 D.P.R. 309/90 che si porrà in concorso formale od in continuazione con i reati previsti dai commi precedenti della norma.
Infine, le Sezioni unite hanno affrontano un'ultima questione, sollevata incidentalmente dall'ordinanza di remissione, e cioè quella della possibilità che la detenzione contestuale di diverse tipologie di stupefacente riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 dia luogo a una pluralità di reati in concorso formale o in continuazione tra loro.
Le Sezioni unite, sul punto, hanno ancora una volta affermato che il vigente comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 prevede un trattamento sanzionatorio unico e indifferenziato in relazione alla tipologia di stupefacente oggetto delle condotte incriminate in maniera autonoma nella suddetta disposizione.
Pertanto, la formulazione della disposizione impedisce di ritenere che essa preveda distinte e differenziate ipotesi di reato in ragione della classificazione tabellare della sostanza oggetto della condotta.
Ne è conferma la considerazione pacifica della norma come fattispecie autonoma e la scelta fatta negli anni di “livellare” il trattamento sanzionatorio, le quali rivelano l'intenzione del Legislatore di considerare il fatto, se di lieve entità, in maniera unitaria, anche quando ha ad oggetto sostanze eterogenee.
Dunque il comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 prevede un'unica fattispecie incriminatrice, cui consegue la configurabilità di un unico reato quando nel medesimo contesto la condotta realizza abbia ad oggetto sostanze tabellarmente differenti.
Alle luce delle osservazioni effettuate nella seconda parte delle sentenza vengono così formulati i seguenti e già ricordati principi di diritto:
«l'art. 73, comma 5, del d.P.R. 309 del 1990, così come riformulato dal decreto-legge 20 marzo 2014 (convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79), prevede un'unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l'oggetto»;
«la detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro».
In conclusione, occorre segnalare che le Sezioni unite hanno dichiarato inammissibile il ricorso ritenendo le doglianze del ricorrente generiche e manifestamente infondate.
È stato, infatti, ritenuto che la Corte territoriale abbia fatto corretta applicazione dei principi sopra enunciati procedendo ad una valutazione complessiva degli aspetti di fatto rilevanti ai sensi dell'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
Invero, i giudici di appello hanno correttamente considerato, con riferimento alla detenzione di cocaina, il contesto complessivo di consumazione della condotta, tenendo anche – ma non solo – conto della detenzione simultanea di quantitativi significativi di altre sostanze, circostanza che da sola non è in grado di escludere automaticamente la lieve entità del fatto.
Inoltre, è stata correttamente presa in considerazione da parte della Corte territoriale la sussistenza di un'organizzazione (seppur rudimentale) di mezzi posto che il condivisibile principio ricavabile dal comma 6 dell'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 – e cioè che detta predisposizione non è di per sé incompatibile con l'affermazione della lieve entità del fatto – non determina l'assoluta irrilevanza della circostanza ai fini della complessiva valutazione del fatto ma soltanto che la stessa non assume un aprioristico valore negativo assorbente.
Pertanto nel caso di specie è stata, in mancanza di indici di segno diverso, ritenuta corretta la qualificazione in concreto del fatto all'interno delle fattispecie base di cui ai commi 1 e 4 dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
La ragione dell'inammissibilità deve, poi, essere ricercata nel fatto che le censure del ricorrente avevano, in definitiva, l'obiettivo di sollecitare il Giudice di legittimità ad un riesame nel merito della decisione senza peraltro evidenziare in alcun modo i limiti logici della motivazione della sentenza impugnata.
Parimenti generica è stata, infine, ritenuta l'obiezione «relativa al difetto di prova autonoma dello svolgimento dell'attività di spaccio nei pressi del bar dove l'imputato è stato sorpreso dagli operanti, circostanza inferita dai giudici di merito in maniera tutt'altro che illogica sulla base degli altri elementi fattuali considerati».