Concorso tra il reato di abuso di ufficio e i delitti di falso in atto pubblico
28 Luglio 2015
Questione controversa
La Sez. II della Corte di cassazione, con sentenza dell'11 dicembre 2013, n. 5546, ha affermato che “Sussiste il concorso materiale e non l'assorbimento tra il reato di falso ideologico in atto pubblico e quello di abuso di ufficio, in quanto offendono beni giuridici distinti; il primo, infatti, mira a garantire la genuinità degli atti pubblici, il secondo tutela l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Pertanto, mentre tra gli stessi ben può sussistere il nesso teleologico (in quanto il falso può essere consumato per commettere il delitto di cui all'art. 323 c.p.), la condotta dell'abuso d'ufficio certamente non si esaurisce in quella del delitto di falso in atto pubblico né coincide con essa”. Si tratta dell'ultima affermazione massimata di un principio controverso in giurisprudenza: se, infatti, è dato registrare diverse pronunce nel senso di quella appena citata, anche più numerose sono le decisioni che enunciano l'opposto principio, secondo cui tra il reato di falso ideologico in atto pubblico e quello di abuso di ufficio sussiste un rapporto di assorbimento del secondo nel primo e non, invece, il concorso materiale. Il problema nasce dalle divergenze in ordine alla portata applicativa della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, che, introdotta per la prima volta nel 1990 nella disposizione incriminatrice relativa all'abuso di ufficio, è stata riprodotta con la legge 16 luglio 1997, n. 234, in occasione della formulazione del testo attualmente vigente dell'art. 323 c.p. Dopo l'entrata in vigore della legge 234/1997, la prima pronuncia edita, Sez. V, 21 ottobre 1998, n. 12226, ha dato inizio all'orientamento secondo cui, quando l'abuso è realizzato con la condotta di falsità in atto pubblico, sussiste un rapporto di assorbimento tra le due fattispecie. La decisione, invero, ha affermato che, “nel limite in cui l'abuso si ritenga commesso con la condotta di falso in atto pubblico […], che integra reato più grave, vi è assorbimento e non concorso formale di reati”. La fattispecie concreta aveva ad oggetto dei falsi ideologici commessi dal sindaco di un Comune al fine di procurare l'ingiusto vantaggio dell'affidamento di un incarico di progettazione ad un professionista e dell'appalto di lavori ad una ditta al di fuori di ogni procedura concorrenziale e in assenza di alcuni requisiti richiesti dalla legge; il problema, quindi, si poneva, propriamente, nei termini della ammissibilità/inammissibilità del concorso tra falso ideologico in atto pubblico e tentativo di abuso di ufficio. Questo principio è stato poi ribadito e precisato da Cass. pen., Sez. VI, 19 maggio 2004, n. 27778. La decisione aveva ad oggetto una vicenda in cui il falso ideologico in atto pubblico e l'abuso di ufficio erano contestati come commessi con la medesima condotta: precisamente, all'imputato, geometra di un Comune, erano addebitati entrambi i reati indicati per aver falsamente attestato, in un verbale di sopralluogo, una situazione diversa da quella esistente. La Corte ha escluso il concorso formale tra i due reati, osservando che “la norma prevede il reato di abuso di ufficio come ipotesi residuale, ed indica quale criterio per l'assorbimento che altra norma punisca più gravemente lo stesso fatto costitutivo di reato, cioè proprio il fatto storico”, con conseguente irrilevanza, a tal proposito, della diversità di bene giuridico tutelato dalla diverse fattispecie formalmente concorrenti: il bene giuridico, infatti, qualificando l'interesse specifico posto a fondamento della disposizione incriminatrice, “concerne … la premessa maggiore o normativa, e non rientra nella nozione di fatto costitutivo di reato”; esso può solo assumere rilievo al fine di ritenere o escludere la “stessa materia” e, quindi, di applicare, o meno il principio di specialità tra norme, ai sensi dell'art. 15 c.p. In conclusione, quindi, “l'art. 323 c.p. prevede identità di materia … esclusivamente in ragione del vincolo della condotta alla violazione di norme di legge o regolamento, dettate per lo svolgimento di funzioni pubbliche” e “rapporta la sussidiarietà del reato di abuso esclusivamente alla maggiore gravità (pena) del reato astrattamente concorrente”. L'indirizzo in esame ha quindi ricevuto ulteriori conferme, tra le altre, da: Cass. pen., Sez. V, 9 novembre 2005, n. 45225; Cass. pen., Sez. VI, 30 marzo 2006, n. 11147; Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2007, n. 11620; Cass. pen., Sez. VI, 6 novembre 2009, n. 42577; Cass. pen., Sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1417. In particolare, merita di essere sottolineato il percorso motivazionale espresso da Cass. pen., Sez. V, 9 novembre 2005, n. 45225 cit., poi puntualmente ripreso da Cass. pen., Sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1417 cit. Le due decisioni evidenziano che la soluzione dell'assorbimento è quella maggiormente conforme sia all'intenzione del legislatore, sia alla lettera dell'art. 323 c.p. Sotto il primo profilo, infatti, si rileva che le progressive modifiche della disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione ha avuto lo scopo “di contenere la proliferazione delle incriminazioni non basate su un consistente tasso di tipicità del fatto”. Sotto l'altro aspetto, si rappresenta che la tesi opposta porterebbe ad una “interpretazione parzialmente abrogatrice” della clausola di riserva, sia perché la stessa “è espressiva … del criterio di sussidiarietà o consunzione e cioè della volontà del legislatore di ritenere assorbita l'una previsione normativa in quella più grave di volta in volta ravvisabile, sul presupposto della mancanza di interesse ad una duplice punizione per la omogeneità dei principali scopi perseguiti dai due precetti”, sia perché affermare che detta clausola “opera soltanto in presenza di precetti che tutelano il medesimo bene giuridico significa attribuire al criterio di sussidiarietà un limite che è stato ritenuto proprio, semmai, del diverso principio di specialità […] criterio normativo generale di risoluzione del concorso apparente di norme, basato su parametri del tutto differenti e assai più rigorosi, tra i quali, appunto, la identità delle situazioni di fatto regolate”: “il criterio di sussidiarietà, di elaborazione giurisprudenziale, non poggia necessariamente sul detto presupposto ed è ancorato, a monte, ad una valutazione del legislatore riguardante la singola ipotesi normativa, valutazione che è sottratta al sindacato dell'interprete se non nella prospettiva di un ipotetico contrasto con precetti di rango superiore”. L'opposto orientamento, che afferma il concorso tra i reati di abuso di ufficio e di falso ideologico, risulta inaugurato da Cass. pen., Sez. V, 5 maggio 1999, n. 7581. Questa pronuncia, in realtà, aveva ad oggetto una fattispecie in cui l'imputato, tecnico comunale, aveva compiuto una falsa attestazione (di una situazione di emergenza) quale presupposto per l'assegnazione di lavori pubblici in regime di somma urgenza: la decisione, infatti, evidenzia che la condotta “non si è esaurita … nella redazione dell'atto falso”, ma “è consistita anche nella assegnazione dei lavori con una anomala procedura, adottata in violazione della legge, e nella predisposizione della delibera di ratifica”, la cui redazione, a norma della disciplina all'epoca vigente, spettava invece ad altri funzionari del comune. In relazione a questi riferimenti fattuali, la Corte afferma innanzitutto che “il delitto di falso è stato commesso per eseguirne un altro, e cioè l'abuso”, si che sarebbe stata doverosa la contestazione dell'aggravante del nesso teleologico; solo alla fine del suo iter motivazionale aggiunge: “Infine, non è inopportuno ricordare che i due reati … hanno una loro chiara autonomia perché, tra l'altro, offendono beni giuridici diversi, dal momento che i delitti di falso mirano a garantire la genuinità degli atti pubblici, mentre il delitto di cui all'art. 323 c.p. tutela la imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione”. Nel solco di questa decisione, in particolare, si sono successivamente poste: Cass. pen., Sez. V, 1 febbraio 2000, n. 3349 (relativa alla condotta del preside di un istituto pubblico, che, nella sua qualità, aveva concorso a falsificare i fogli di presenza dei dipendenti, al fine di procurare a terzi l'ingiusto vantaggio patrimoniale di prestare servizio retribuito come supplenti); Cass. pen., Sez. VI, 31 luglio 2001, n. 30109; Cass. pen., Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 5546 cit. Una soluzione intermedia, che prospetta una composizione dei due diversi orientamenti, è seguita da Cass. pen., Sez. V, 15 novembre 2005, n. 1491. Questa sentenza ha affermato che “il concorso tra i delitti di abuso d'ufficio e falso ideologico in atto pubblico deve escludersi solo quando ‘la condotta addebitata si esaurisca nella commissione di un fatto qualificabile come falso ideologico in atto pubblico' […]; mentre deve riconoscersi il concorso materiale dei due delitti quando ne sono distinte le condotte […] come certamente accade, ad esempio, nel caso in cui il falso sia destinato ad occultare l'abuso”. In applicazione del principio così enunciato, la Corte ha escluso l'assorbimento della fattispecie di abuso in quella di falso nel caso da essa esaminato, relativo a false attestazioni di regolarità di richieste di rimborso di prestazioni eseguite in convenzione con la Pubblica Amministrazione, posto che tali atti avevano costituito “solo una premessa della successiva erogazione degli indebiti compensi”. Questo essendo il quadro degli orientamenti giurisprudenziali, la dottrina tende prevalentemente ad affermare che sussiste il concorso apparente di norme quando l'abuso è commesso con la stessa condotta del falso in atto pubblico (cfr., per tutti, ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2002, p. 280) e che, invece, è configurabile il concorso di reati quando la condotta di abuso è realizzata mediante attività o comportamenti produttivi di effetti giuridici ulteriori (v., da ultimo, BENUSSI, I delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di Diritto Penale - Parte Speciale, diretto da Marinucci e Dolcini, vol. I, tomo I, 2013, Padova, p. 1051 e s., ma anche, in precedenza, SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, II ed., 1999, Milano, p. 566). A fondamento di questa soluzione, si rappresenta, in particolare, che la funzione delle clausole di riserva è quella di delimitare l'ambito di operatività delle norme che le contengono, anche quando la fattispecie che trova applicazione non si pone, rispetto ad esse, in rapporto di specialità (cfr., ancora, anche per ulteriori richiami a studi generali in argomento, BENUSSI, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., p. 1052).
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