Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contro la sentenza della Cassazione nel giudizio di revisione

Andrea Pellegrino
30 Marzo 2017

Con sentenza n. 13199 del 21 luglio 2016 (depositata il 17 marzo 2017), le Sezioni unite della suprema Corte ha enunciato il seguente princìpio di diritto: è ammessa, a favore del condannato, la richiesta, ex art. 625-bis c.p. p., per la correzione dell'errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigettato il suo ricorsocontro la decisione negativa della Corte di appello pronunciata in sede di revisione.
1.

Sulla proponibilità di atto di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625-bis c.p.p. contro la decisione della Corte di cassazione conclusiva, con pronuncia di rigetto o di inammissibilità, di un giudizio di revisione esiste un contrasto di giurisprudenza che ha indotto la suprema Corte (Cass. pen., Sez.V, 18 febbraio 2016, ord. n. 22833) a rimettere la questione alla decisione delle Sezioni unite.

Secondo un primo orientamento (Cass. pen., Sez. V, 16 giugno 2006, n. 30373), in tema di ricorso straordinario, l'art. 625-bis c.p.p., nel prevedere che tale impugnazione sia ammessa solo a favore del condannato, sulla base di un'interpretazione strettamente esegetica, non può che essere intesa nel senso che un soggetto è legittimato a proporre l'impugnazione straordinaria contro una decisione della Corte di cassazione solo quando questa, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso, renda definitiva la sentenza di condanna.

Tale orientamento è stato ribadito da Cass. pen., Sez. VI, 17 gennaio 2007, n. 4124, che ha espressamente ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto di cui all'art. 625-bis c.p.p. proposto nei confronti di decisione della Corte di cassazione intervenuta in tema di revisione di sentenza di condanna.

Di sostanziale analogo tenore è Cass. pen., Sez. III, 10 novembre 2011, n. 43697 che, nel riaffermare l'inammissibilità del ricorso straordinario proposto contro un provvedimento di rigetto di una richiesta di revisione, ha ritenuto la disposizione di cui all'art. 625-bis c.p.p. avente carattere tassativo ed insuscettibile di interpretazione analogica, circoscrivendo così l'esperibilità del gravame (proponibile solo dal condannato e dal procuratore generale) esclusivamente alle sentenze della Corte per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna.

Più recentemente, è emerso un secondo orientamento (Cass. pen, Sez. I, 29 settembre 2014, n. 1776) che, in termini del tutto opposti, ha ritenuto l'ammissibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contro le decisioni della Corte di cassazione conclusive di un giudizio di revisione, riconoscendo come, anche sotto un profilo meramente testuale della norma regolatrice, non v'è ragione di escludere le decisioni emesse dal giudice di legittimità in tema di revisione dall'ambito applicativo dell'art. 625-bis c.p.p.

La pronuncia in parola, partendo dalla particolarità della di decisione che caratterizza il ricorso straordinario che non chiude la fase processuale tipicamente destinata all'accertamento del fatto ma verifica – sulla base dei motivi di ricorso – la rispondenza al modello normativo suo proprio del processo di revisione, instaurato ai sensi degli artt. 630 e ss. c.p.p., ha riconosciuto come la linea interpretativa segnata dalle precedenti contrarie decisioni non potesse essere condiviso, pur nella consapevolezza del necessario rispetto del generale principio di tassatività delle impugnazioni, non trovando solida e convincente saldatura con il dato normativo espresso.

Al riguardo si è affermato che se è vero che nel corpo della disposizione […] si compie riferimento al "condannato" per delimitare l'area del soggetto legittimato alla proposizione dell'istanza […] ciò non significa che i "provvedimenti emessi dalla Corte di Cassazione" assoggettabili al ricorso straordinario siano esclusivamente quelli da cui deriva, per la prima volta, il consolidamento di tale condizione giuridica (e dunque le decisioni di inammissibilità o rigetto di ricorsi proposti avverso sentenze di merito con cui si è affermata la penale responsabilità del ricorrente).

In questo senso, una simile lettura del disposto normativo finisce con il ricavare (in malam partem) una norma in realtà non scritta, posto che il "condannato" è anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione (art. 632 c.p.p., comma 1, lett. a)) nel cui ambito, in caso di rigetto della domanda, si approda parimenti allo scrutinio di legittimità, con l'emissione di un provvedimento decisorio che – in caso di rigetto del ricorso – conferma la condizione giuridica di partenza.

Peraltro, se è vero che il giudizio di revisione risulta essere lo strumento (di certo straordinario ma) generale di rimozione – lì dove ne ricorrano i presupposti – degli effetti di una decisione erronea con cui si è affermata la penale responsabilità di un individuo, è altrettanto vero che ciò pone la decisione che ne chiude l'esperimento in una condizione di piena assonanza (negli effetti) con quelle terminative del giudizio ricostruttivo del fatto controverso.

Né può mettere “in crisi” una simile conclusione il fatto che la richiesta di revisione sia riproponibile (anche in ipotesi di sentenza di rigetto, ai sensi dell'art. 641 c.p.p.) tenuto conto della profonda diversità delle condizioni operative regolamentate dalle norme in questione. Invero, afferma la suprema Corte, che la riproponibilità […] è basata sulla condizione essenziale della "novità" degli elementi legittimanti la rinnovata richiesta di revisione, lì dove l'errore materiale o di fatto è rimedio che consente la rettifica di una decisione irrimediabilmente viziata - in quanto tale - da uno "sviamento percettivo" del giudizio.

2.

Con ordinanza n. 22833 del 18 febbraio 2016 la V Sezione della Cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione: Se sia ammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso la sentenza della Corte di cassazione che si sia pronunciata nel giudizio di revisione.

3.

Con provvedimento in data 7 giugno 2016, il primo Presidente, preso atto dell'esistenza del contrasto giurisprudenziale sulla questione relativa all'ammissibilità o meno del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso la sentenza della Corte di cassazione che si sia pronunciata nel giudizio di revisione, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali fissando per la trattazione l'udienza del 21 luglio 2016.

4.

All'udienza del 21 luglio 2016 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno deciso che:

è ammissibile il ricorso straordinario del "condannato" per errore di fatto avverso il provvedimento enunciato dalla Corte di cassazione nel giudizio di revisione.

5.

Con sentenza n. 13199 del 21 luglio 2016 (depositata il 17 marzo 2017), le Sezioni unite della suprema Corte ha enunciato il seguente princìpio di diritto:

È ammessa, a favore del condannato, la richiesta, ex art. 625-bis cod. proc. pen., per la correzione dell'errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigettato il suo ricorso contro la decisione negativa della Corte di appello pronunciata in sede di revisione.

Evidenziano le Sezioni unite come il contrasto interpretativo sia sorto tra un indirizzo maggioritario, che nega la proponibilità del ricorso straordinario nei confronti di pronunce della Corte di cassazione emesse nel giudizio di revisione, ed altro più recente (Cass. pen., Sez. I, 29 settembre 2014, n. 1776) che, invece, la ammette.

La questione investe il tema dell'individuazione dei provvedimenti impugnabili con il ricorso straordinario, dovendo in particolare stabilirsi se per condannato si debba comprendere chi diventi tale a seguito di una decisione che operi la trasformazione della precedente condizione giuridica di imputato ovvero se possa riferirsi anche a colui che lo è già o lo rimane per effetto di una decisione negativa della Corte di cassazione, con conseguenze rilevanti sull'ambito applicativo dell'istituto previsto dall'art. 625-bis c.p.p.

Come è noto, la giurisprudenza di legittimità, pur consapevole della inscindibilità tra l'inoppugnabilità delle sentenze di legittimità e il valore del giudicato, ha da tempo tracciato l'ambito applicativo della nuova impugnazione innanzitutto evidenziandone la straordinarietà e, quindi, l'eccezionalità.

L'ambito applicativo del ricorso ex art. 625-bis c.p.p. è stato rigorosamente delimitato riconoscendo che solo i provvedimenti che rendono definitiva una sentenza di condanna sono suscettibili di essere impugnati, dovendo intendersi per sentenze di condanna, tenuto conto che si tratta di pronunce del giudice di legittimità, quelle di rigetto o che dichiarano l'inammissibilità di ricorsi proposti contro sentenze di condanna.

Presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire l'impugnazione straordinaria è lo status di condannato, inteso come il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda.

Rispetto a questo indirizzo rigoroso nell'interpretare gli ambiti applicativi dell'istituto introdotto con l'art. 625-bis c.p.p., la giurisprudenza più recente ha tuttavia allargato i confini del ricorso straordinario.

In particolare, la suprema Corte. ha riconosciuto la praticabilità dello strumento del ricorso straordinario anche a favore di soggetto già definitivamente condannato e lo ha fatto muovendosi all'interno di un orizzonte del tutto peculiare, quale quello della attuazione delle sentenze Cedu che accertino la violazione di diritti dell'uomo avvenuta nell'ambito di una pronuncia di legittimità (Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807; Cass. pen., Sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507).

Le Sezioni unite riconoscono come la sent. n. 1776/2015, cit., abbia rilevato come limitare il ricorso straordinario alle sole decisioni della Cassazione di inammissibilità o di rigetto dei ricorsi avverso sentenze di merito, con cui si è affermata la responsabilità penale dell'imputato, si fondi su una interpretazione che non trova riscontro nella lettura della norma e non consideri che, con riferimento alla revisione, il condannato è il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione nel cui ambito, in caso di rigetto della domanda, si approda allo scrutinio di legittimità, che può concludersi con un provvedimento negativo, di rigetto o di inammissibilità, che conferma la condizione giuridica di partenza, cioè il giudizio di responsabilità penale del ricorrente-condannato.

Si osserva come, in realtà, né la disposizione in questione né la stessa giurisprudenza di legittimità autorizzino a ritenere che il nesso funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato debba essere immediato e diretto. Ciò che rileva, infatti, è che la decisione della Cassazione contribuisca alla stabilizzazione del giudicato, a prescindere dal momento in cui si sia formato. Deve trattarsi di un provvedimento che, collocandosi nel cono d'ombra dell'accertamento della responsabilità penale (o anche civile) della persona interessata, riaffermi comunque l'ambito del giudicato stesso; ed è in questo senso che deve essere inteso lo status di condannato cui si riferisce l'art. 625-bis c.p.p.

All'istituto della revisione è infatti attribuita la funzione di rispondere all'esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità (Corte cost., n. 28 del 1969). Appare pertanto evidente come sia la giurisprudenza costituzionale sia quella di legittimità facciano derivare la scelta del favor revisionis dalla finalità di garantire i diritti inviolabili della persona, sacrificando il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale (Cass. pen., Sez. unite, 26 settembre 2001, n. 624, Pisano).

Proprio in considerazione di tali esigenze, poste a tutela di diritti inviolabili della persona, appare poco comprensibile – evidenziano le Sezioni unite – che il condannato sia legittimato a chiedere la revisione, a partecipare al relativo giudizio, a ricevere la notifica della dichiarazione di inammissibilità dell'istanza, a ricorrere per cassazione contro la decisione della corte di appello, ma poi non possa impugnare, ai sensi dell'art.625-bis c.p.p., la sentenza della Corte di cassazione affetta da errore di fatto: situazione questa che deriverebbe dal fatto che per condannato viene inteso solo il soggetto raggiunto dalla prima pronuncia di legittimità che renda definitiva la sua condanna. L'effetto paradossale è che lo status di condannato legittima la richiesta di revisione ma la stessa condizione non legittimerebbe il ricorso ex art. 625-bis c.p.p. nell'ambito della medesima procedura, con la conseguenza che nel giudizio di legittimità, comunque funzionale a stabilizzare e a ribadire il giudicato di condanna, non sarebbe azionabile alcun rimedio contro l'errore di fatto: negare il rimedio straordinario per errore di fatto equivale a non assicurare la effettività del giudizio di legittimità, quell'effettività che la Corte costituzionale indicò come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione (Corte cost., n. 395 del 2000).

La soluzione individuata dal Legislatore con l'introduzione dell'art. 625-bis c.p.p. rappresenta una scelta imposta dalla Costituzione, nel rispetto del principio di uguaglianza, di quello di effettività della difesa in ogni stato e grado, del diritto alla riparazione degli errori giudiziari e, infine, di quello diretto ad assicurare il controllo effettivo di tutte le sentenze in sede di legittimità (così, Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 2012, n.28719, Marani). Sono questi princìpi costituzionali a pretendere l'eliminazione dell'errore giudiziario, obiettivo a cui tendono, in maniera convergente, sia la revisione che il ricorso straordinario per errore di fatto. Riconoscono peraltro le Sezioni unite che l'accoglimento di una nozione di condannato più ampia di quella fino ad ora utilizzata dalla giurisprudenza in questa materia, che cioè superi il riferimento oggettivo ai soli provvedimenti della Cassazione che determinino, per la prima volta, la formazione del giudicato, non è destinata a realizzare una applicazione indiscriminata del ricorso straordinario per errore di fatto. Il rimedio, infatti, deve rimanere limitato ai casi in cui la decisione della Corte di cassazione interviene a stabilizzare il giudicato, anche se formatosi anteriormente. Ne consegue che per tutte le decisioni della Corte di cassazione che intervengano in procedimenti ante iudicatum (come ad esempio i provvedimenti emessi in fase cautelare, le decisioni in materia di misure di prevenzione, quelle in materia di rimessione del processo, nonché le decisioni processuali in materia di estradizione o di mandato di arresto europeo) continuerà a non esservi spazio per la correzione dell'errore di fatto, in quanto si tratta di decisioni che non hanno come destinatario un condannato. L'istituto, inoltre, potrà trovare applicazione soltanto all'esito del procedimento di cognizione e non anche nei procedimenti in fase di esecuzione o in quelli di sorveglianza (così, Cass. pen., Sez. V, 8 novembre 2005, n. 45937, Ierinò), in quanto, in tali ipotesi, la decisione della Corte di cassazione non perfeziona alcuna fattispecie di giudicato, aggiungendosi che con il termine condanna si deve intendere l'applicazione di una sanzione penale, secondo l'interpretazione logico sistematica della norma, introdotta dal legislatore proprio al fine di eliminare errori di fatto verificatisi nel corso del giudizio di legittimità in danno del condannato. Tuttavia, come per la revisione, anche nella fase dell'esecuzione la decisione della Corte di cassazione può intervenire a stabilizzare il giudicato, sicché, sotto questo profilo, non vi sarebbe ragione per impedire l'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 625-bis c.p.p., almeno nei casi in cui la decisione del giudice di legittimità è in grado di determinare l'irrimediabilità del pregiudizio derivante dall'errore di fatto.

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