La recidiva implicitamente riconosciuta. Rilevanza ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato

17 Giugno 2019

Se, la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle...
1.

Alle Sezioni unite è stato richiesto di stabilire «se, la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell'imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato».

Va detto che il quesito non brilla per chiarezza ma leggendo il caso concreto che ha lo ha suscitato e le motivazioni delle pronunce che la Sezione rimettente richiama a sostegno del ritenuto contrasto giurisprudenziale e possibile sviscerare in modo più chiaro la questione giuridica di cui di discute.

In data 21 aprile 2009, Tizio e Caio sono stati condannati dal Giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Napoli per il reato di cui all'art. 291-bis, comma 1, d.P.R. 43/1973.

La pronuncia è stata confermata dalla Corte di appello partenopea con sentenza del 9 febbraio 2017.

Avverso la suddetta pronuncia, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo, quale unico motivo, la violazione dell'art. 157 c.p.

Occorre premettere che il delitto oggetto di condanna è punito con la reclusione da 1 a 5 anni, di talché il tempo necessario ad estinguerlo per prescrizione è pari, in caso di atti interruttivi, a sette anni e sei mesi. Avuto riguardo alla data di consumazione (19 gennaio 2008), dunque, il reato avrebbe dovuto estinguersi per prescrizione il 19 giugno 2016, data antecedente non solo alla sentenza di appello ma allo stesso decreto di citazione per il giudizio di appello, emesso il 9 gennaio 2017.

Va detto, però, che agli imputati era stata contestata la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale che, se ritenuta sussistente dal giudice, avrebbe comportato un allungamento del termine di prescrizione fino a dieci anni (sei anni ex art. 157, comma 1, c.p., aumentati di due terzi ex art. 161, comma 2, c.p.). Tuttavia, la predetta circostanza aggravante non era stata applicata dal primo giudice che non ne aveva tenuto conto ai fini del calcolo della pena; egli aveva, invece, valorizzato i precedenti penali dei due imputati per negare loro le circostanze attenuanti generiche, ritenendo la biografia penale di Tizio e Caio espressiva di una maggiore riprovevolezza e pericolosità sociale.

Ad avviso dei ricorrenti, la mancata applicazione della recidiva in termini di incremento del trattamento sanzionatorio avrebbe dovuto comportare che la stessa non potesse spiegare alcun effetto, neppure sul calcolo del termine di prescrizione.

La terza Sezione, assegnataria del ricorso, ritiene che il tema dedotto dal ricorrente implichi la soluzione del quesito sopra riportato, sul quale ravvisa la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale.

Al di là delle massime richiamate, a me sembra che il tema centrale concerna la possibilità di ritenere che la recidiva contestata dal pubblico ministero sia implicitamente riconosciuta dal giudice di merito quando quest'ultimo non la escluda espressamente ma, pur non operando l'aumento di pena di cui all'art. 99 c.p., utilizzi i precedenti penali dell'imputato per escludere le circostanze attenuanti generiche.

Infatti, se non vi sono dubbi che la recidiva deve ritenersi sussistente, con tutti gli effetti che ne conseguono, compresi quelli di cui all'art. 161, comma 2, c.p., quando il giudice la riconosca espressamente oppure quando, a prescindere da una motivazione sul punto, operi l'aumento di pena previsto dall'art. 99 c.p., qualche dubbio residua se il giudice, pur non escludendo espressamente la circostanza, ometta di operare il relativo aumento di pena, limitandosi a valutare la biografia penale dell'imputato al fine di negargli le attenuanti di cui all'art. 62-bis c.p.

Secondo un primo orientamento, il richiamo ai precedenti penali dell'imputato in sede di calcolo della pena ed ai fini del diniego delle attenuanti generiche non comporta, neppure implicitamente, il riconoscimento della recidiva. Ne consegue che se il giudice non si esprime nel senso di ritenere espressamente sussistente la recidiva contestata, per essere i precedenti penali dell'imputato espressione in concreto di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale, la recidiva deve intendersi implicitamente esclusa e, dunque, ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. VI, 16 novembre 2017, n. 54043)

Secondo un diverso orientamento, invece, la recidiva contestata deve ritenersi implicitamente riconosciuta – anche ai fini del calcolo del termine di prescrizione – se il giudice di merito valorizza i precedenti penali dell'imputato per negargli il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, anche se non ritiene di operare alcun aumento della pena ai sensi dell'art. 99 c.p. (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. V, 11 maggio 2017, n. 34137)

2.

All'udienza del 21 luglio 2018 la terza Sezione penale ha rimesso al Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione un ricorso che ha proposto la seguente questione oggetto di contrasto giurisprudenziale:

«se, la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell'imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato».

3.

Il primo Presidente della Corte Suprema di cassazione ha assegnato alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 25 ottobre 2018, un ricorso che propone la seguente questione di diritto, ritenuta dalla terza Sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale: «se, la recidiva contestata e accertata nei confronti dell'imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell'imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato».

4.

Alla pubblica udienza del 25 ottobre 2018, le Sezioni unite hanno risposto al suddetto quesito nei termini seguenti:

«la valorizzazione dei precedenti penali dell'imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione delle concorrenti circostanze eterogenee; in tal caso, la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato».

5.

Occorre premettere che la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la recidiva è una circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole. Ne consegue che essa deve essere contestata da parte del Pubblico Ministero e il giudice deve verificare in concreto (dandone adeguata motivazione: cfr. Cass. pen., Sez. unite, 27 ottobre 2011, n. 5859, Rv. 251690) se la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (così Cass. pen., Sez. unite, 27 maggio 2010, n. 35738, Rv. 247839).

Come tutte le circostanze aggravanti, anche la recidiva è facoltativa, nel senso che spetta al giudice stabilire se ricorra o meno nel caso sottoposto alla sua attenzione. Tuttavia, non si tratta di discrezionalità bifasica (che finirebbe per essere arbitrio), in quanto gli effetti della recidiva operano o meno a seconda che l'aggravante sia ritenuta sussistente o sia esclusa; dunque, se il giudice la ritiene sussistente non può decidere di non applicarne gli effetti; egli mantiene un discrezionalità solo in ordine alla misura dell'aumento di pena e alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, salvo che vi siano vincoli normativi.

Detto questo, leggendo le sentenze citate dal giudice rimettente si evince come in effetti vi sia in giurisprudenza un contrasto di opinioni in ordine alla possibilità di ritenere che il giudice, pur non avendo motivato sul punto e pur non avendo aumentato la pena, abbia implicitamente ritenuto sussistente la recidiva contestata dal Pubblico Ministero per il solo fatto che ha richiamato i precedenti penali dell'imputato a giustificazione del diniego delle attenuanti generiche.

Secondo un primo orientamento, il richiamo ai precedenti penali dell'imputato in sede di calcolo della pena e ai fini del diniego delle attenuanti generiche non comporta, neppure implicitamente, il riconoscimento della recidiva. Ne consegue che se il giudice non si esprime nel senso di ritenere espressamente sussistente la recidiva contestata, per essere i precedenti penali dell'imputato espressione in concreto di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale, la recidiva deve intendersi implicitamente esclusa e, dunque, ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. VI, 16 novembre 2017, n. 54043, Rv. 271714)

Secondo un diverso orientamento, invece, la recidiva contestata deve ritenersi implicitamente riconosciuta – anche ai fini del calcolo del termine di prescrizione – se il giudice di merito valorizza i precedenti penali dell'imputato per negargli il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, anche se non ritiene di operare alcun aumento della pena ai sensi dell'art. 99 c.p. (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. V, 11 maggio 2017, n. 34137, Rv. 270678).

È chiaro che aderendo alla prima soluzione, il mancato aumento della pena è un coerente corollario del mancato riconoscimento della recidiva. Seguendo la seconda impostazione, invece, il mancato aumento della pena, a fronte di una recidiva (implicitamente) riconosciuta come sussistente, costituisce un errore del giudice.

È bene chiarire che il problema posto dal contrasto evidenziato non riguarda la legittimità di una motivazione implicita. Dottrina e giurisprudenza concordato sulla possibilità per il giudice di ricorrere a questa particolare tecnica espositiva «caratterizzata dal proporre un'argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda». Con specifico riferimento alla recidiva, l'onere motivazionale da parte del giudice può essere adempiuto implicitamente dando conto della ricorrenza o insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2018, n. 14937, Rv. 272803).

La tematica posta all'attenzione delle Sezioni Unite riguarda più specificatamente la possibilità di ritenere motivazione implicita della sussistenza della recidiva la valorizzazione dei precedenti penali che il giudice ha espressamente compiuto al fine di negare le circostanze attenuanti generiche. Occorre in sostanza verificare se ricorre una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.

La soluzione negativa adottata dalle Sezioni unite prende le mosse dalla constatazione che i precedenti penali rilevanti ai sensi del numero 2 del capoverso dell'art. 133 c.p.p. non coincidono del tutto con quelli che concorrono ad integrare la recidiva; inoltre, le valutazioni che il giudice deve compiere nei due casi sono assai diverse.

Quanto ai precedenti, non valgono ai fini della recidiva, ad esempio, le sentenze per i reati colposi e le contravvenzioni, le sentenze che concedono il perdono giudiziale (Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2015, n. 2655, Rv. 265709) e la riabilitazione (Cass. pen., Sez. I, 17 giugno 20166, n. 55359, Rv. 269042), quelle che dichiarano l'imputato non punibile per la particolare tenuità del fatto (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell'art. 3 lett. f), d.P.R. 313/2002) e quelle che dichiarano estinto il reato per esito positivo dell'affidamento in prova ai servizi sociali (Cass. pen., Sez. III, 17 febbraio 2017, n. 29238, Rv. 270147). Va aggiunto, poi, che i precedenti penali valutabili ai fini della recidiva sono solamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, poi, la condanna deve avere connotazioni particolari quanto all'oggetto, al tempo e al numero.

Quanto alle valutazione da compiere sui precedenti penali, mentre l'art. 133 c.p. li considera quali parametri della capacità a delinquere dell'imputato, per l'art. 99 c.p.p. la precedente condanna assume rilevanza quale indice della consapevolezza del disvalore dell'azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso. Ecco perché assume rilevanza la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna e la distanza temporale fra quest'ultima e il nuovo reato: occorre valutare se il reo abbia tratto un giusto monito dalla precedente condanna per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente. Dunque, ai fini della recidiva, il giudice non deve verificare solamente l'esistenza del precedente penale, ma deve anche verificare se tale dato sia espressione di una “più accentuata colpevolezza”, per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all'ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della "maggior pericolosità", intesa come indice della sua inclinazione a delinquere; sicché la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status di soggetto con precedenti penali e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale. Del resto, in dottrina e giurisprudenza è pacifica la polivalenza degli elementi di cui all'art. 133 c.p.; inoltre, il precedente penale assume la valenza di fattore costitutivo della recidiva, mentre è considerato un fattore ostativo per le circostanze attenuanti generiche. Il giudice può quindi negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, o viceversa, valorizzando in entrambi i casi il riferimento ai precedenti penali dell'imputato, in quanto il principio del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative ad istituti giuridici diversi (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. VI, 15 novembre 2018, n. 57565, Rv. 27478).

Le Sezioni unite, concludendo sul punto, osservando quindi che «la parziale diversità della nozione di "precedente penale"; l'insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva. Ne consegue che non è fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena […]. Ben diversamente, deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisce indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non è stata riconosciuta».

Chiarito ciò, la sentenza in esame passa ad analizzare la relazione fra il riconoscimento della recidiva e la produzione dei suoi effetti. Richiamando un proprio precedente in materia di reato continuato (cfr. Cass. pen., Sez. unite, 23 giugno 2016, n. 31669, Rv. 267044, secondo la quale il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma 4, c.p.p. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti), la Corte osserva che la recidiva deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. Ad avviso delle Sezioni unite, all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena. Tali affermazioni si rinvengono in giurisprudenza anche con riferimento ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, là dove si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Così proprio in tema di prescrizione, dove si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. II, 5 dicembre 2018-28 gennaio 2019, n. 4178, Rv. 274899).

La pronuncia in esame va oltre e si chiede se la recidiva debba ritenersi applicata non solo quando nel giudizio di comparazione con concorrenti attenuanti prevale su quest'ultime o ne paralizza gli effetti su un piano di equivalenza, ma anche quando rimanga soccombente essendo giudicata subvalente.

In effetti, sul punto si registra un contrasto giurisprudenziale proprio in tema di prescrizione. A fronte di pronunce – invero più risalenti e minoritarie – secondo le quali la recidiva contestata all'imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (cfr. Cass. pen., Sez. II, 4 novembre 2016, n. 53133,Rv. 269139), ve ne sono altre, più recenti e maggioritarie, secondo le quali ai fini del computo del termine di prescrizione occorre tener conto della recidiva contestata e ritenuta in sentenza, a nulla rilevando che, nel giudizio di comparazione con circostanze attenuanti, essa sia stata considerata subvalente o equivalente (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. II, 5 dicembre 2018, n. 4178, Rv. 274899).

La sentenza in commento, aderendo al secondo indirizzo, osserva che «tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all'origine delle regole poste dall'art. 69 c.p. […]. Ciò vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l'attenuante, risultando subvalente all'esito del giudizio di comparazione. L'art. 69 c.p., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente - che in quanto fatto compiuto non può più essere negato - ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena».

Tuttavia, rispetto alle altre circostanze aggravanti, la recidiva non produce solamente un aumento della pena, ma anche ulteriori effetti indiretti, come il limite minimo dell'aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione (art. 81, comma 4, c.p.), l'aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l'incidenza sul termine massimo, l'incidenza sul tempo che determina l'estinzione della pena (art. 172, comma 7, c.p.) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179, comma 2, c.p.), le preclusioni in tema di amnistia (art. 151, comma 5, c.p.) e di indulto (art. 174, comma 3, c.p.), l'aumento del periodo di espiazione della pena che permette di fruire dei permessi premio previsti dall'art. 30-ter ord. pen., la non concedibilità oltre una volta dell'affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall'art. 47 ord. pen., della detenzione domiciliare e della semilibertà (art. 58-quater, comma 7-bis ord. pen.).

In merito a tali effetti, la Corte ritiene che il giudice di merito, quando valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, «esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma». Da ciò consegue che, «ove il giudizio di bilanciamento di cui all'art. 69 c.p., si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamentoex art. 69 c.p.».

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