Like sui social: incitamento all'odio raziale?

07 Aprile 2022

L'inserimento dei “mi piace” su post antisemiti, può essere considerato un indizio sufficiente per la configurazione del reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa?
Massima

Integra il reato di cui all'art. 604-bis, comma 2 c.p., l'adesione a una comunità virtuale caratterizzata da vocazione ideologica neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi e la condivisione, sulle bacheche delle sue piattaforme social, di messaggi di chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, attraverso l'inserimento di like e il rilancio di post e dei correlati commenti, per l'elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall'algoritmo di funzione dei social network, che aumenta il numero di interazioni tra gli utenti.

Il caso

Con ordinanza deliberata il 25 giugno 2021, il Tribunale di Roma confermava l'ordinanza con la quale il gip aveva applicato all'imputato la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in ordine al reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa di cui agli artt. 604-bis, comma 2 c.p. e 604-ter c.p., escludendo tale aggravante.

Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social operanti su facebook, vkontacte e whatsapp, aveva rivelato la creazione di una comunità virtuale internet, caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee online fondate sull'antisemitismo, sul negazionismo, sull'affermazione della superiorità della razza bianca nonché sugli incitamenti alla violenza per le medesime ragioni. L'imputato, oltre ad incontrare di persona alcuni dei principali esponenti, si era posto ripetutamente in contatto con le piattaforme social della comunità virtuale, attraverso l'uso di account a lui riconducibili, consentendo, con l'inserimento dei like, il rilancio di post e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita.

Avverso l'ordinanza del Tribunale, l'imputato proponeva ricorso per cassazione adducendo due motivi; in particolare, deduceva violazione di legge in relazione all'art. 604-bis c.p. e vizio di motivazione in merito alla ricorrenza della fattispecie delittuosa.

Secondo il ricorrente, il provvedimento non aveva fornito una incisiva replica alle valutazioni difensive sul carattere lacunoso e scarno del compendio indiziario ma aveva continuato a valorizzare in chiave accusatoria i contatti fisici fra i presunti aderenti all'organizzazione, irrilevanti alla luce della tipologia dei reati contestati, nonché l'inserimento di soli tre like che costituivano, al più, un'espressione di gradimento e non erano affatto dimostrativi né dell'appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti. Inoltre, il contenuto dei post nei quali l'imputato aveva inserito il "mi piace" non sfociava mai nell'antisemitismo e non travalicava i confini della libera manifestazione del pensiero.

L'imputato lamentava, poi, che non vi era neppure alcun messaggio idoneo a raccogliere adesione e ad influenzare il comportamento o la psicologia di un ampio pubblico.

La Suprema Corte con la Sentenza di cui si tratta, ha dichiarato inammissibile il ricorso

La questione

La questione presa in esame è la seguente: l'inserimento dei “mi piace” su post antisemiti, può essere considerato un indizio sufficiente per la configurazione del reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento ha dichiarato inammissibile il ricorso offrendo la seguente interpretazione.

Il Tribunale del riesame ha logicamente desunto l'appartenenza dell'imputato alla comunità virtuale non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle diverse piattaforme social dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza e ha considerato concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di Facebook, incentrate sull'utilizzazione di un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i like. Il Tribunale condivide l'argomentazione del giudice della cautela, secondo il quale la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheca di tale social network, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti; la funzionalità newsfeed, ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente, è condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L'algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema, assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal "mi piace" o like.

Osservazioni

Per quanto qui interessa, è bene tenere presente che, per ciò che concerne il reato previsto dall'art. 604-bis c.p. la "propaganda di idee" consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni; l'"odio razziale o etnico" è integrato da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione; la "discriminazione per motivi razziali" è quella fondata sulla qualità personale del soggetto, e non sui suoi comportamenti.

Com'è noto, i social network costituiscono attualmente i mezzi di comunicazione e di diffusione del pensiero maggiormente utilizzati in tutto il mondo, motivo per il quale con la loro utilizzazione si pongono in essere condotte idonee a raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, ha affrontato un tema ancora poco trattato dalla giurisprudenza ma molto diffuso e di particolare interesse, ovvero quello della valutazione in termini di responsabilità penale di coloro che, non essendo autori di un post su facebook, ne mostrano apprezzamento mediante il tasto “mi piace”.

La relativa problematica è stata oggetto di esame soprattutto con riferimento al reato di diffamazione.

La prima condanna nota conseguente all'immissione di un like, è stata inflitta in Svizzera, più precisamente a Zurigo, nel 2017 per il reato di diffamazione; un uomo aveva messo un like su un post, pubblicato da altri su facebook, contro il presidente di un'associazione animalista che conteneva accuse di razzismo, antisemitismo e fascismo. Il Tribunale ha ritenuto che con tale azione l'imputato avesse, prima di tutto approvato il contenuto e poi contribuito a diffondere i commenti alla sua lista di contatti e a renderli accessibili ad un numero maggiore di utenti.

Prima di tale pronuncia, si possono segnalare due episodi che hanno richiamato l'attenzione dei media e non solo, su tale argomento.

Il primo, nel quale sette dipendenti del comune di San Pietro Vernotico (Brindisi) erano stati rinviati a giudizio per il reato di diffamazione aggravata, per aver messo “mi piace” ad un post, ritenuto offensivo e pubblicato da altro soggetto, nel quale si accusavano il Sindaco e alcuni dipendenti comunali di essere assenteisti e fannulloni; un secondo, nel quale un uomo, a Parma, veniva rinviato a giudizio per diffamazione aggravata, poiché, nel leggere su un social network una lite tra due donne, aveva messo “mi piace” al commento nel quale una insultava l'altra e anche il di lei figlio.

Lo stesso problema si è posto all'attenzione della magistratura con riferimento al reato di incitamento all'odio razziale secondo quanto previsto dalla l. 25 giugno 1993 n. 205 (cd. legge Mancino); si ha, infatti, notizia che tale reato è stato contestato dalla Procura di Genova a dei soggetti che avevano apposto “mi piace” ad un post contro l'etnia rom.

Un riferimento al tema in esame, si trova anche nella giurisprudenza della Cassazione, che, con riguardo al reato di apologia inerente delitti di terrorismo, previsto dall'art. 414, comma 4 c.p., ha affermato che integra tale reato la condotta di chi condivide su social network (nella specie twitter e whatsapp) link a materiale "jihadista" di propaganda, senza pubblicarli in via autonoma, in quanto, potenziando la diffusione di detto materiale, accresce il pericolo, non solo di emulazione di atti di violenza, ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all'associazione terroristica che li propugna (Cass. pen., sez. I, n. 51654/2018). In motivazione si legge: «Poco importa, ai fini dell'integrazione del reato, che il ricorrente abbia condiviso link a materiale già esistente sulle piattaforme in cui ha pubblicato e non già abbia postato e cioè pubblicato in via autonoma i link medesimi. In ogni caso ha potenziato la diffusione del materiale propagandistico, accrescendo il pericolo che altri potesse non solo emulare atti di violenza, il martirio e l'adesione alla jihad, ma anche solo che potesse aderire, in quelle forme aperte e fluide di cui si è detto, all'associazione terroristica».

La Sentenza della Suprema Corte di cui qui si parla, assume particolare interesse perché ha ritenuto rilevante e significativo il “mi piace” o like nell'ambito della valutazione della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in materia cautelare. Nel caso in commento, la Corte ha basato la propria decisione, non solo sul fatto che l'imputato avesse incontrato personalmente alcuni dei principali esponenti della comunità virtuale, ma anche sul fatto che, attraverso l'inserimento dei like a post pubblicati da altri, aveva espresso una opinione e aveva soprattutto consentito il rilancio e la diffusione di questi, in quanto l'algoritmo scelto da facebook per regolare tale sistema, assegna un valore maggiore ai post che sono contrassegnati da più "mi piace" o like.

La condotta istigatrice o apologetica, posta in essere attraverso l'uso di strumenti informatici o telematici (e tra questi, è considerato tale anche il mettere “mi piace”), è stata caratterizzata da maggiore offensività poiché, così sviluppata, ha potuto raggiungere un numero di destinatari indeterminabile.

In riferimento a quanto rilevato dalla Corte, però, è bene rilevare che il mettere “mi piace” ad un post, sta sì ad indicare approvazione, ma è anche un'azione che spesso è posta in essere in modo automatico con una scelta non ragionata; tanto da non potersi affermare con certezza che il soggetto, con consapevolezza e intenzionalmente, permei di significato e importanza l'azione perpetrata sui social network, con lo scopo di esprimere il proprio gradimento e la propria condivisione di un comportamento illecito altrui, in tal modo contribuendo alla sua efficacia lesiva del bene penalmente tutelato. Potrebbe essere utile, a tal fine, verificare se la manifestazione del gradimento sia accompagnata da un commento adesivo che contribuisca alla potenzialità lesiva del post condiviso.

Pertanto, proprio alla luce di tali considerazioni, prendendo in esame questa pronuncia e partendo da essa, sarà necessario valutare, caso per caso, ogni singola situazione e gli elementi che la compongono così da poter giudicare se il gradimento espresso attraverso il “mi piace” o like possa essere considerato un grave indizio da solo utile ai fini dell'adozione di misure cautelari oppure debba essere necessariamente accompagnato da altri elementi indizianti della consapevole volontà del soggetto di porre in essere una azione contra legem.

Riferimenti

Sergio Beltrani (a cura di), Codice penale commentato, Giuffrè, 2021.

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