La sola emissione della richiesta di rinvio a giudizio interrompe la prescrizione nei confronti della società

Ciro Santoriello
21 Febbraio 2022

In tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito amministrativo, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231
Massima

In tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito amministrativo, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231

Il caso

In sede di merito, era dichiarato il non doversi procedere nei confronti di una società per intervenuta prescrizione dell'illecito di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. 231 del 2001, in relazione al reato di cui all'art. 590, comma 3, c.p.

Il giudice di merito, dato atto che il termine di prescrizione di cui all'art. 22 d.lgs. 231 del 2001, regolante la disciplina della prescrizione dell'illecito amministrativo, dipendente da reato dell'ente, è di cinque anni, a far data dalla commissione dell'illecito, evidenziava come il secondo comma della disposizione disponga che detto termine si interrompa a seguito della contestazione dell'illecito amministrativo fatta a norma dell'art. 59 d.lgs. 231 del 2001. Secondo la giurisprudenza di legittimità, richiamata nella decisione del tribunale, la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito, produce l'effetto interruttivo solo se, oltre che emessa, sia stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, dovendo applicarsi, ai sensi dell'art. 11, primo comma, lett. r), legge 29 settembre 2000, n. 300, le norme del codice civile sull'interruzione della prescrizione.

Nel caso di specie, il decreto di rinvio a giudizio è stato ritualmente notificato solo oltre detto termine, ha dichiarato l'illecito contestato estinto per prescrizione

Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello, lamentando violazione di legge in relazione alla data di prescrizione dell'illecito contestato alla società, con riferimento agli artt. 22 e 59 d.lgs. 231 del 2001. Diversamente da quanto ritenuto dal giudice di merito si evidenziava come fosse maggioritario l'orientamento di legittimità secondo il quale l'interruzione della prescrizione interviene a seguito della sola emissione della richiesta di rinvio a giudizio, sicché nel caso di specie l'illecito amministrativo in contestazione non era affatto estinto, posto che la richiesta di rinvio a giudizio era stata emessa entro i cinque anni dalla commissione dell'illecito.

La questione

La disciplina in tema di prescrizione nel processo contro gli enti prevede che: “1. le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato. 2. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59. 3. Per effetto della interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione. 4. Se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.

Si ricorda comunque che, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve comunque procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, Barla, in Mass. Uff., n. 255369).

Le ragioni per cui il legislatore è pervenuto ad una regolamentazione dell'istituto della prescrizione nell'ambito del procedimento contro le persone giuridiche così divergente rispetto al regime che il medesimo istituto ha in sede di processo penale nei confronti di persone fisiche sono rinvenute nella circostanza che da un lato l'illecito dell'ente è un illecito amministrativo e quindi pare opportuno il richiamo a quanto in tema di prescrizione dispone l'art. 28 l. n. 689 del 1981 e dall'altro che la disciplina contenuta nel decreto n. 231 realizza un adeguato bilanciamento fra le esigenze di durata ragionevole del processo - essendo comunque previsto un termine di prescrizione breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito - e le esigenze di garantire un'adeguata completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente. In particolare, l'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale (sul punto, in dottrina GALLUCCIO, Ancora in tema di sospensione condizionale e procedimento penale a carico dell'ente, in Cass. Pen., 2012, 3516; BENDONI, Il rapporto fra confisca per equivalente e prescrizione, ivi, 2014, 1226; SALVATORE, L'interruzione della prescrizione nel sistema del d.lgs 231/2001, in Riv. Resp. Amm. Enti,2009, n. 2; BELTRANI, La responsabilità dell'ente da reato prescritto (Commento a Cass. pen., n. 21192, 25 gennaio 2013), ivi, 2014, n. 2).

La disciplina suddetta è già stata denunciata per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 111 Cost., ma la Cassazione (Cass., sez. VI, 10 novembre 2015, Bonomelli, in Mass. Uff., n. 267047; Cass., sez. II, 27 settembre 2016, Riva, sul punto non massimata; Cass., sez. III, 10 maggio 2017, MarLigure, inedita) ha ritenuto manifestatamente infondata la questione di legittimità, atteso che la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente, e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 nell'ambito e nella categoria dell'illecito penale, giustificano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione.

In particolare, si ritiene che non vi sia alcuna violazione del principio della ragionevole durata del processo e del diritto di difesa anche perché il legislatore ha tenuto conto di tali esigenze, da un lato fissando, all'art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001, il termine massimo di cinque anni dalla data di consumazione del reato perché la prescrizione possa essere impedita mediante un atto interruttivo, e dall'altro escludendo in ogni caso, mediante l'art. 60 d.lgs. n. 231 del 2001, la possibilità di procedere alla contestazione dell'illecito all'ente se prima del compimento di tale atto si sia estinto per prescrizione il reato presupposto.

Quanto al possibile contrasto, con gli artt. 41 e 117 Cost. in riferimento all'art. 6 della Convenzione E.D.U., si ritiene che la previsione nel d.lgs. n. 231 del 2001 di limiti temporali raccordati alla generale disciplina civilistica in materia di prescrizione esclude l'incompatibilità del regime dettato per la prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato con il principio di libertà dell'iniziativa economica, mentre la dedotta violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 6 della Convenzione E.D.U. sarebbe insussistente non potendosi qualificare la responsabilità degli enti collettivi come avente natura penale. Inoltre, la pronuncia di sentenza di prescrizione nei confronti degli imputati persone fisiche non produce alcun pregiudizio per l'ente, sia perché non implica per questo alcun vincolo formale in ordine alla ricostruzione del fatto, sia perché non esonera l'accusa dal dimostrare puntualmente l'esistenza del reato presupposto, sia perché non impedisce all'ente di chiedere l'ammissione e produrre prove utili ad escludere o a far ragionevolmente dubitare della sussistenza del fatto di reato quale imprescindibile componente della «fattispecie complessa» da cui discende la responsabilità amministrativa.

Se la presunta incostituzionalità della normativa in tema di prescrizione della responsabilità da reato degli enti collettivi è avanzata soprattutto in dottrina, la giurisprudenza – assolutamente conforme, come si è visto, nel respingere tali censure – è invece divisa su un'altra questione inerente l'identificazione dell'atto interruttivo della prescrizione discutendosi in particolare se la richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica interrompe il corso della prescrizione solo se, oltre che “emessa”, sia stata anche “notificata” entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto ovvero se sia sufficiente che il predetto atto venga per l'appunto emesso, essendo irrilevante la sua notifica alla persona giuridica.

Nelle decisioni che si pronunciano nel primo senso (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2015, Buonamico, in Mass. Uff., n. 263171), si fa richiamo alla previsione di cui all'art. 11, primo comma, lett. r), l. 29 settembre 2000, n. 300, che espressamente dispone di "prevedere che le sanzioni amministrative [che verranno poi introdotte con il d.lgs. n. 231 del 2001] si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati … che l'interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile".

L'orientamento contrario invece reputa sufficiente, per l'interruzione della prescrizione la sola emissione della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ente, in quanto che l'art. 59 del d.lgs n. 231 del 2001 rinvia al 405 comma 1 c.p.p. che individua come atto di contestazione dell'illecito, ove prevista, la richiesta di rinvio al giudizio, ovvero un atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti, che non è prevista dalla legge (Cass., sez. VI, 15 gennaio 2020, n. 12278; Cass., sez. III, 1 ottobre 2019, n. 1432; Cass., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 30634; Cass., sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012; Cass. sez. V, 22 settembre 2015, n. 50102), mentre il richiamo che la legge delega effettua alle norme del codice civile non consentirebbe di trasformare la richiesta di rinvio a giudizio in un atto recettizio, in assenza di ogni indicazione normativa al riguardo.

In particolare, secondo quest'ultimo orientamento deve considerarsi risolutivo il rinvio dell'art. 59 del d.lgs n. 231 del 2011 all'art. 405 comma 1 c.p.p., che individua fra gli atti di contestazione dell'illecito la richiesta di rinvio al giudizio, ovverosia un atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti, posto che "il richiamo che la legge delega effettua alle norme del codice civile non consente di trasformare la richiesta di rinvio a giudizio in un atto recettizio, in assenza di ogni indicazione normativa al riguardo; del pari, non è consentito interpolare la norma riconducendo l'effetto interruttivo alla notifica dell'avviso di udienza, ovvero ad un atto a cui la legge non riconosce tale effetto"; di conseguenza, anche nell'ambito del procedimento verso gli enti collettivi, deve ritenersi operante la giurisprudenza secondo cui "in tema dì interruzione della prescrizione del reato, va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo. Gli atti interruttivi della prescrizione, infatti, hanno valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza nello Stato dell'interesse punitivo” (Cass., sez. V, 2 febbraio 1999, n. 1387).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato ritenuto fondato.

La decisione espressamente qualifica come isolato l'indirizzo interpretativo richiamato nella sentenza impugnata (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 18257), ritenendo lo stesso ormai superato dal costante orientamento secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito amministrativo, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, d.lgs. 231 del 2001 (Cass., sez. VI, 15 gennaio 2020, n. 12278; Cass., sez. III, 1 ottobre 2019, n. 1432; Cass., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 30634; Cass., sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012).

Quest'ultimo orientamento, secondo la pronuncia in esame, si fonda sulla considerazione che, anche in tale materia, l'interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l'interruzione della prescrizione nei confronti dell'imputato e coincidere con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione sembra non condivisibile per molteplici aspetti.

In primo luogo, in altre decisioni che hanno aderito all'orientamento fatto proprio dalla pronuncia in commento, la stessa Corte di legittimità deve comunque riconoscere che secondo il legislatore delegante la disciplina in tema di interruzione della prescrizione nell'ambito del sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi dovesse seguire le cadenze previste per l'analogo istituto dal codice civile; orbene, la circostanza che il decreto legislativo adottato in esecuzione della predetta legge delega si sia discostato dalle indicazioni di questa ed abbia individuato nell'atto interruttivo della prescrizione l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio senza attribuire rilievo alla circostanza che la stessa sia stato meno notificata all'indagato, piuttosto che indurre all'adozione di soluzioni come quella assunta sentenza avrebbe dovuto presumibilmente condurre a una denunzia di costituzionalità della disciplina in oggetto per violazione della legge delega.

In secondo luogo, si è detto in precedenza che la regolamentazione dell'istituto della prescrizione nell'ambito del procedimento contro le persone giuridiche diverge profondamente rispetto al regime che il medesimo istituto ha in sede di processo penale nei confronti di persone fisiche e si è sostenuto che tale diversità trova fondamento (e di conseguenza legittimazione, non potendosi qualificare come è ragionevole) nella circostanza che la responsabilità dell'ente nasce da un illecito amministrativo sicché pare opportuno applicare, in tema di prescrizione, la normativa dettata con riferimento agli illeciti amministrativi dalla legge n. 689 del 1981. Tuttavia, proprio l'art. 28 di tale legge prevede, comma due, che l'interruzione della prescrizione regolata dalle norme del codice civile: in sostanza, sembrerebbe potersi dire che se si vuol giustificare la differenza corrente fra la disciplina in tema di prescrizione dettata dal d.lgs. n. 231 del 2001 e quella contenuta, in relazione ad analogo istituto, nell'ambito del codice di procedura penale sostenendo che la prima non presenta profili di ragionevolezza e di incostituzionalità perché analoga a quanto dispone in materia di prescrizione disciplina in tema di sanzioni amministrative, allora tale analogia deve essere completa per cui l'interruzione della prescrizione richiede - come previsto dalle norme del codice civile a loro volta richiamate dalla legge n. 689 citata - che l'atto con efficacia interruttivo non sia stato solo emesso dall'autorità ma anche notificata al soggetto interessato.

Va sottolineato infine come presumibilmente il tema della disciplina della prescrizione nei confronti degli enti collettivi verrà investito da una ulteriore – e assai più incisiva – problematica. Il riferimento è alla possibile applicazione anche nel procedimento agli enti collettivi della nuova disposizione di cui all'art. 344-bis c.p.p. in tema di improcedibilità del giudizio per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.

Come è noto sul punto, non vi è stata alcuna presa di posizione da parte del legislatore e ciò induce la necessità di pervenire ad una risposta in via interpretativa. In proposito si sottolinea che ha espresso una posizione tesi favorevole all'applicabilità dell'"improcedibilità" al processo degli enti l'Ufficio del Massimario della Cassazione, che ha dedicato a questo aspetto alcune pagine della sua Relazione n. 60 del 3 novembre 2021, riferita appunto in via generale alla nuova disciplina dell'improcedibilità.

In proposito, nella suddetta relazione si afferma che una tale conclusione sarebbe giustificata anche alla stregua di precetti costituzionali quali la "parità di trattamento" (tra persone fisiche ed enti) e la "ragionevole durata del processo" ex articolo 111, comma 2, Cost.; obiettivo, quest'ultimo, che è doveroso perseguire non solo in relazione ai procedimenti intentati contro le persone fisiche ma anche in quelli che vedono coinvolti gli enti, soprattutto in considerazione delle assai rilevanti sanzioni, pecuniarie ed interdittive, che possono colpire gli enti medesimi in esito al procedimento a loro carico. Sotto altro profilo, viene evidenziata la natura squisitamente processuale dell'istituto della "improcedibilità", con conseguente rilevanza della clausola di rinvio di cui all'art. 34 d.lgs. n. 231 del 2001.

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