Mandato di arresto europeo e madre con prole inferiore ai 36 mesi: necessario il bilanciamento tra difesa sociale e interessi del fanciullo
30 Luglio 2021
Massima
L'intervenuta abrogazione del motivo obbligatorio di rifiuto della consegna già previsto dall'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005, non vale di per sé a ritenere consentita la consegna europea di madre di prole di età inferiore a tre anni. Il caso
La Corte di appello di Torino nel dichiarare con sentenza l'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della richiesta di consegna formulata dall'Autorità giudiziaria della Croazia con mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Zagabria con riferimento a un provvedimento cautelare del 2 marzo 2016 relativo a 8 furti in abitazione, consumati o tentati, commessi in Croazia, evidenziava preliminarmente che: a) in relazione al medesimo titolo cautelare la ricorrente era stata già tratta in arresto a Torino il 4 dicembre 2017 sulla base di mandato di arresto europeo emesso dall'Autorità giudiziaria croata; b) in applicazione dell'art. 18, lett. p),l. n. 69/2005, la consegna della ricorrente era stata (già) rifiutata dalla Corte di appello di Torino, con sentenza pronunciata il 2 febbraio 2018 e divenuta irrevocabile il 16 febbraio 2018, essendo stato accertato che E., a quella data, risultava essere madre di una bambina di età inferiore ai tre anni, in mancanza di esigenze cautelari di eccezionale gravità. Nel merito, dopo aver premesso che nel caso di specie non si configura un'ipotesi di ne bis in idem, poiché la precedente decisione di rifiuto della consegna, pur riferendosi al medesimo titolo cautelare, non aveva statuito sul merito della richiesta e si era limitata a dare atto, in via pregiudiziale, della oggettiva sussistenza di un motivo ostativo alla consegna, alla luce del tenore della disposizione recata dall'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005 all'epoca vigente, la Corte territoriale ha evidenziato che a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 10/2021 il succitato art. 18 è stato riformulato, eliminando l'ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna relativa all'esistenza di prole di età inferiore ai tre anni. Sicché, in base alla normativa oggi applicabile alla domanda di consegna, ricorrono le condizioni per l'accoglimento della relativa richiesta, poiché l'eccepito radicamento della ricorrente nel territorio dello Stato non rileva, trattandosi di mandato di arresto europeo processuale, mentre l'allegazione difensiva riguardante l'esistenza di un titolo esecutivo interno e la pendenza di procedimento penale dinanzi al Tribunale di Cuneo nei confronti della stessa ricorrente per reati diversi da quelli oggetto del m.a.e. deve ritenersi del tutto generica e non documentata, ciò impedendo tra l'altro alla Corte territoriale la comparazione tra le esigenze processuali del giudice nazionale e quelle dello Stato richiedente necessaria per l'eventuale rinvio della consegna ex art. 24 l. n. 69/2005. La Suprema Corte, annullando senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Torino, dopo avere preliminarmente evidenziato che in tema di mandato di arresto europeo, in applicazione dell'art. 707 c.p.p., non configura violazione del principio del ne bis in idem la pronuncia che disponga la consegna precedentemente negata con decisione definitiva, qualora sia intervenuta una modifica della normativa interna applicabile, “pur in presenza del rilevante elemento di novità rispetto alla situazione esaminata e decisa a seguito della presentazione del primo m.a.e., costituito dal diverso parametro normativo ora applicabile, posto che l'art. 14 d.lgs. n. 10/2021 ha modificato l'art. 18 l. n. 69/2005, di tal che attualmente quella causa di rifiuto (madre di prole di età inferiore a tre anni) non è più prevista dalla legge, il Collegio ritiene che l'intervenuta abrogazione del motivo obbligatorio di rifiuto della consegna già previsto dall'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005, non valga di per sé a ritenere consentita la consegna europea di madre di prole di età inferiore a tre anni”. Invero, continua la Corte, “l'elevato rango dell'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti”. La questione
In questa ottica, la questione involge il tema della modifica dell'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005, così come modificato dal d.lgs. n. 10/2021, che ha eliminato l'ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna relativa all'esistenza di prole di età inferiore ai tre anni. Ci si chiede nello specifico: l'intervenutaabrogazione del motivo obbligatorio di rifiuto alla consegna, consente di ritenere automatica la consegna europea di madre di prole con età inferiore ai tre anni? In tema di mandato di arresto europeo, in applicazione dell'art. 707 c.p.p., la pronuncia che disponga la consegna precedentemente negata con decisione definitiva, qualora sia intervenuta una modifica della normativa interna applicabile, configura violazione del principio del ne bis in idem? Le soluzioni giuridiche
Il percorso seguito dai Giudici della VI Sezione per motivare l'annullamento della sentenza della Corte di Appello territoriale, e, per l'effetto, per evitare la consegna europea della madre con prole di età inferiore ai 3 anni, è assai interessante. Invero, in merito, il Collegio, - dopo aver affermato che l'intervenuta abrogazione del motivo obbligatorio di rifiuto della consegna già previsto dall'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005, non valga di per sé a ritenere consentita la consegna europea di madre di prole di età inferiore a tre anni – ricorda che “ l'art. 2, comma 1, l. n. 69/2005 prevede che, in conformità a quanto stabilito dall'art. 6, paragrafi 1 e 2, del Trattato sull'Unione europea e dal punto 12 dei consideranda della decisione quadro, l'Italia darà esecuzione al mandato di arresto europeo nel rispetto dei diritti e principi stabiliti dai trattati internazionali e dalla Costituzione indicati alle lett. a) e b) della medesima disposizione”. Del resto, proprio con riferimento a tale profilo, la Corte costituzionale (sentenza n. 17/2017), nel rilevare che il comma 4 dell'art. 275 c.p.p. contiene un divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere di carattere generale - che prescinde, cioè, dal titolo di reato - riferito ad alcune categorie di imputati, tra i quali la madre di figli minori di età inferiore a sei anni con lei conviventi, ha evidenziato che la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria, in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati dal codice di rito), garantendo così ai figli l'assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione. La Corte costituzionale, si legge nel percorso motivazionale della sentenza, ha inoltre posto in evidenza (sentenze nn. 17/2017, 239/2014, 7/2013 e 31/2012) la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell'ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche, rilevando che queste ultime trovano riconoscimento e tutela sia nell'ordinamento costituzionale interno - che demanda alla Repubblica di proteggere l'infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, comma 2, Cost.) - sia nell'ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell'art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell'art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000. I Giudici della Consulta hanno più in particolare rilevato che queste due ultime disposizioni qualificano come «superiore» l'interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse «deve essere considerato "preminente": precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell'interesse del bambino in tenera età a godere dell'affetto e delle cure materne. Secondo tale prospettiva, l'art. 275, comma 4, c.p.p. rappresenta, per gli effetti di cui all'art. 2 l. n. 69/2005, la traduzione di diritti fondamentali e principi stabiliti dai trattati internazionali e dalla Costituzione, ed in particolare dall'art. 31, comma 2, Cost., dall'art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dall'art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. In conclusione, i Giudici della VI Sezione annullano senza rinvio il provvedimento impugnato poiché “l'elevato rango dell'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti”. Ebbene, nel caso di specie,“mancano in radice, e non sono mai state nemmeno prefigurate, né tantomeno concretamente allegate, esigenze cautelari siffatte”.
La seconda questione, concerne il tema, con riferimento al mandato di arresto europeo, del "ne bis in idem estradizionale" in relazione all'archetipo della consegna internazionale rappresentato dal meccanismo dell'estradizione - relativo alla esistenza e alla portata di un eventuale effetto preclusivo prodotto su una nuova domanda di consegna dalla pronuncia definitiva contraria intervenuta su una precedente richiesta presentata dallo stesso Stato per i medesimi fatti-reato. Invero, in uno dei motivi di ricorso oggetto di valutazione dei giudici della VI Sezione della Suprema Corte, la ricorrente lamentava la violazione del principio del ne bis in idem, poiché la sentenza, divenuta definitiva, con la quale nel 2018 la stessa Corte di appello di Torino aveva rifiutato la consegna della ricorrente ai sensi dell'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005 non si era limitata alla decisione di questioni pregiudiziali in rito, ma aveva deliberato nel merito di richiesta identica a quella in esame, accertando l'esistenza di una causa obbligatoria di rifiuto e l'assenza di esigenze cautelari allo scopo rilevanti. Si sottolinea sul punto, che la giurisprudenza appare tutt'altro che unanime. Invero, è stato affermato (Cass. pen., Sez. VI, n. 35290/2018)che “in tema di mandato di arresto europeo, il principio del ne bis in idem trova applicazione con riguardo alla sentenza irrevocabile con la quale è stata rifiutata la consegna, per effetto del mancato invio da parte dello Stato richiedente della documentazione integrativa richiesta, sicché la Corte d'appello non può, a seguito della successiva ricezione della predetta documentazione, pronunciarsi nuovamente sulla medesima richiesta, modificando la precedente decisione di rifiuto”. Peraltro, in motivazione è stato precisato che solo nel caso in cui il rifiuto sia motivato dal serio pericolo di sottoposizione a trattamenti non consentiti, ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. h), l. n. 69/2005, la sentenza deve considerarsi adottata "allo stato degli atti" ed è, quindi, suscettibile di una nuova valutazione ove l'impedimento alla consegna venga rimosso. Diversa prospettiva ermeneutica si rinviene in Cass. pen., Sez. VI, n. 18872/2018, secondo la quale “in tema di mandato di arresto europeo, non configura violazione del principio del ne bis in idem la pronuncia di una successiva decisione che dispone la consegna dell'interessato all'autorità giudiziaria dello Stato richiedente quando una precedente decisione abbia negato detta consegna definendo soltanto questioni attinenti al rito o meramente pregiudiziali, senza deliberare sul merito della richiesta”. L'opzione ermeneutica adottata dalla Corte nel caso in esame è chiara, laddove si afferma che “in mancanza di pertinenti previsioni della l. n. 69/2005, il parametro normativo idoneo a orientare l'interprete in subiecta materia debba essere individuato facendo riferimento all'art. 39, comma 1, della stessa legge, il quale prevede un meccanismo normativo di completamento della legislazione interna propria al mandato di arresto europeo che, nel constatato vuoto di disciplina specifica, rende applicabili le disposizioni del codice di procedura penale e delle leggi complementari, in quanto compatibili. Di conseguenza, anche in materia di mandato di arresto europeo, certamente connotata da tratti analoghi alla consegna estradizionale, deve ritenersi applicabile l'art. 707 c.p.p., intitolato "Rinnovo della domanda di estradizione", secondo cui la sentenza contraria all'estradizione preclude la pronuncia di una successiva sentenza favorevole a seguito di un'ulteriore domanda presentata per i medesimi fatti dallo stesso Stato, salvo che la domanda sia fondata su elementi che non siano già stati valutati dall'autorità giudiziaria". Tuttavia, la giurisprudenza della Suprema Corte, anche a tale riguardo, con tutta evidenza condizionata dal numero e dalla diversità dei casi concreti sottoposti al suo esame, appare tutt'altro che uniforme nell'individuare gli elementi nuovi rilevanti ai sensi dell'art. 707 c.p.p. - per non essere stati già valutati dall'autorità giudiziaria - e idonei ad evitare il verificarsi della preclusione ivi prevista. Secondo un primo orientamento, (Cass. pen., Sez. VI, n. 40167/2006), in tema di estradizione per l'estero richiesta sulla base della Convenzione europea del 13 dicembre 1957, la sentenza con la quale la Corte di Cassazione dichiari non sussistenti le condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione, a causa del suo ritiro da parte dello Stato istante, preclude, ex art. 707 c.p.p., la pronuncia di una successiva sentenza favorevole a seguito della presentazione da parte dello stesso Stato di una nuova domanda per i medesimi fatti, salvo che la stessa sia fondata su elementi non valutati in precedenza . In tale prospettiva, è stato ritenuto che "ragioni sistematiche e logiche lasciano dedurre che gli 'elementi' nuovi evocati dall'art. 707 c.p.p. attengano a circostanze o eventi inerenti i profili sostanziali del fatto o dei fatti reato integranti la domanda in tutte le loro componenti (ontologiche e soggettive), emersi in epoca successiva alla precedente richiesta estradizionale o comunque non portati o non potuti portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria dello Stato richiesto, e non già circostanze o situazioni di stretta significanza processuale", sicché deve concludersi che "il divieto di un secondo procedimento estradizionale per i medesimi fatti, nei confronti della medesima persona ed instaurato su 'rinnovata' domanda del medesimo Stato richiedente rinvii ad un concetto di consunzione o perenzione dell'esercizio del peculiare diritto di estradizione attiva". Si deve pertanto escludere "che uno Stato richiedente possa considerarsi facoltizzato a rinnovare o reiterare ad libitum domande di estradizione identiche e già in precedenza respinte dallo Stato richiesto ovvero cadute in perenzione (...) per effetto dell'autonoma ed insindacabile decisione dello stesso Stato richiedente di ritirare o revocare l'anteriore richiesta estradizionale; salvi i casi (...) che la nuova o le nuove domande si basino su elementi storici diversi od ulteriori non resi già oggetto della o delle precedenti richieste", mentre "non può far velo all'operatività dell'effetto preclusivo del giudicato estradizionale in tal modo formatosi il fatto che la decisione del giudice di legittimità sia stata connotata da mere valenze processuali o formali connesse alla revoca della richiesta di estradizione" (così, testualmente, Cass. pen., Sez. VI, cit.). Una successiva pronuncia, (Cass. pen., Sez. VI, n.8812/2011), Balliu ha maggiormente circoscritto detto effetto preclusivo, statuendo che, in tema di estradizione per l'estero richiesta sulla base della Convenzione europea del 13 dicembre 1957, la pronuncia di una successiva sentenza favorevole all'estradizione non è preclusa a seguito di un'ulteriore domanda presentata dallo stesso Stato per i medesimi fatti a norma dell'art. 707 c.p.p., quando la precedente decisione abbia definito questioni in rito o di natura pregiudiziale, senza deliberare sul merito della richiesta . Il Collegio della VI Sezione, tuttavia, con la sentenza in commento, ritiene invece che “anche in tema di mandato di arresto europeo l'art. 707 c.p.p. - applicabile alla consegna europea in virtù dell'art. 39, comma 1, l. n. 69/2005 - attribuisca alla sentenza definitiva con la quale sono state dichiarate non sussistenti le condizioni per l'accoglimento di una prima domanda di consegna un effetto preclusivo "allo stato degli atti" e rebus sic stantibus, destinato a venir meno qualora la nuova domanda richieda l'apprezzamento di elementi in precedenza non valutati dall'autorità giudiziaria”. Depone in questo senso il tenore letterale dell'art. 707 c.p.p., che valorizza allo scopo non già la natura - processuale o di merito - delle questioni affrontate dalla prima decisione, bensì il diverso oggetto della valutazione giudiziaria indotta e resa necessaria dalla seconda domanda, quali che siano gli elementi rilevanti ai fini della decisione che non siano già stati valutati nel primo procedimento: “tali nuovi, rilevanti elementi possono dunque consistere anche nell'intervenuta modifica della normativa interna applicabile, sicché nel caso di specie non deve ritenersi preclusa la valutazione del m.a.e. in esame, presentato dallo stesso Stato membro per i medesimi fatti di cui la ricorrente è imputata dinanzi all'autorità giudiziaria croata, dopo che con una prima sentenza, divenuta definitiva in assenza di impugnazione, la competente Corte di appello aveva ritenuto, con decisione sul "merito" della richiesta di consegna, sussistente il motivo di rifiuto al tempo previsto dall'art. 18, lett. p), l. n. 69/2005 e poi abrogato dal d.lgs. n. 10/2021, essendo stato all'epoca accertato che la persona richiesta in consegna sulla base di m.a.e. processuale risultava essere madre di prole di età inferiore ai tre anni, in mancanza di esigenze cautelari di eccezionale gravità”. Pertanto, in tema di mandato di arresto europeo, in applicazione dell'art. 707 c.p.p., non configura violazione del principio del ne bis in idem la pronuncia che disponga la consegna precedentemente negata con decisione definitiva, qualora sia intervenuta una modifica della normativa interna applicabile. Osservazioni
La modifica dell'art. 18 l. n. 69/2005, operata dall'art. 14 d.lgs. n. 10/2021 che ha eliminato – abrogandola - l'ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna relativa all'esistenza di prole di età inferiore ai tre anni, non può essere sufficiente per ritenere automaticamente consentita la consegna europea della madre con prole di età inferiore ai 36 mesi. E' quanto emerge dalla sentenza in commento, ove i Giudici della VI Sezione con un provvedimento assai articolato annullano la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino che aveva dichiarato l'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della richiesta di consegna formulata dall'Autorità giudiziaria della Croazia con mandato di arresto europeo sic et simpliciter, proprioin virtù della avvenuta modifica normativa citata, che aveva rimodulato l'art. 18 l. n. 69/2005, eliminando l'ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna per la madre con prole sotto i tre anni. Ciò che appare rilevante e degno di essere sottolineato nel percorso motivazionale adottato dal Collegio della Suprema Corte è la ritenuta necessità di bilanciare gli interessi – anch'essi costituzionalmente garantiti – legati alla difesa sociale, con l'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne: interesse, che come abbiamo visto nelle pronunce della Corte Costituzionale deve assolutamente intendersi come preminente. Tutto ciò assolutamente in linea con la Convenzione sui diritti del fanciullo, in particolare con riferimento agli articoli 3 (“In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati”), 4 (“Gli Stati parti si impegnano ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione. Per quanto attiene i diritti economici, sociali e culturali, gli Stati parti adottano tali misure in tutta la gamma delle risorse di cui dispongono e, all'occorrenza, nel quadro della cooperazione internazionale”) e 6, comma 2 (“Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”), che sanciscono il dovere degli Stati di assicurare l'effettiva e concreta protezione degli interessi del fanciullo, sia attraverso interventi normativi di carattere generale, sia a livello di attività amministrativa e giudiziaria. E questo, a parere di chi scrive, nonostante la preminenza dell'interesse del fanciullo, sancita dalla Convenzione, e affermata dalla Corte Costituzionale, trovi difficile attuazione in un ordinamento, quello italiano, che sembra disinteressarsi completamente della prevenzione delle ricadute che, sul suo sereno sviluppo e finanche sulla sua salute ed incolumità, possono avere le decisioni adottate nei confronti dei suoi genitori dalle autorità di uno Stato contraente. A tale proposito, è sufficiente richiamare la moltitudine di casi in cui, per oggettive difficoltà logistiche e territoriali risulta molto gravoso per la moglie e i figli effettuare il colloquio con il papà genitore detenuto. In tanti di questi casi, notevoli sono i disagi psicologici, anche gravi che bambini spesso molto piccoli devono – ormai inevitabilmente – sopportare. È evidente come in questo caso all'operatore giuridico, non sia nemmeno consentito il cosiddetto bilanciamento degli interessi, la difesa sociale da un lato e l'interesse del fanciullo dall'altro: in questo caso il Giudice penale è sprovvisto di riferimenti normativi e/o codicistici che gli possano consentire ad esempio di avvicinare il detenuto al luogo di residenza del fanciullo, o disporre una perizia sul minore al fine di (ri)parametrare la misura cautelare in base alle esigenze dello stesso, o quantomeno procedere a quella che la Corte nella sentenza in commento indica come un necessario bilanciamento degli interessi. È proprio per questo, che la sentenza dei Giudici della VI Sezione, assume un elevato valore simbolico, in attesa che il Legislatore adegui il sistema codicistico ai già riconosciuti diritti del minore. |