Niente applicazione automatica per l'ente delle sanzioni interdittive in caso di patteggiamento sulla pena pecuniaria
24 Maggio 2021
Massima
In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, le sanzioni interdittive sono sanzioni "principali" e non "accessorie", per cui, in caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., queste ultime devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo ed alla durata delle stesse e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell'accordo medesimo. Il caso
In relazione di applicazione di pena su richiesta ad una società - quale ente responsabile per il reato di cui all'art. 590, comma 3, c.p., in relazione all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001 – era applicata, unitamente alla sanzione pecuniaria di euro 12.900,00, corrispondente a n. 50 quote societarie, anche le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, d.lgs. 231/2001, per la durata di mesi tre, ritenendo che l'applicazione di tali pene, pur non oggetto di alcun accordo fra le parti, dovesse conseguire de plano dalla decisione assunta. Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione dall'amministratore amministratore unico della società condannata, deducendo il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 11, 13 e 14 d.lgs. n. 231/2001, ritenendo che le sanzioni interdittive non costituiscono una conseguenza automatica della condanna o dell'applicazione della pena su richiesta, peraltro non ricorrendo, nel caso di specie, le condizioni per la loro applicazione. Secondo la difesa, le sanzioni interdittive erano rimaste escluse dal realizzato accordo ex art. 444 c.p.p., avente ad oggetto la sola applicazione della pena pecuniaria, per cui tali sanzioni non avrebbero potuto essere applicate dal giudice, in quanto in violazione dell'accordo raggiunto tra le parti. In secondo luogo, il ricorrente osservava che se è vero che l'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 prevede l'applicazione delle sanzioni interdittive ex art. 9, comma 2, è anche vero che dalla disciplina degli artt. 11, 13 e 14 dello stesso testo normativo è possibile evincere l'esclusione di ogni tipo di automatismo nella loro applicazione, dovendosi effettuare la relativa scelta in applicazione di precisi criteri cui il giudice è obbligato ad attenersi. Per la loro applicazione, infatti, è necessario che ricorra almeno una delle condizioni richieste dall'art. 13, lett. a) e b), d.lgs. n. 231/2001, di cui il decidente è tenuto a dare adeguata rappresentazione in motivazione - come, invece, non effettuato nel caso in esame -. Secondo quanto disposto dall'art. 14 d.lgs. n. 231/2001, inoltre, il giudice, sempre fornendo idonea motivazione, dovrebbe operare una scelta tra le diverse possibili sanzioni interdittive, determinandone il tipo e la relativa durata, senza poter procedere, come invece effettuato nella sentenza impugnata, ad una loro indiscriminata applicazione. La questione
Come è noto, mentre la sanzione pecuniaria è indefettibile, nel senso che va comminata ogni qualvolta vi sia una dichiarazione di responsabilità della società, le misure interdittive trovano applicazione solo con riferimento ad un novero selezionato di fatti concreti che abbiano raggiunto una soglia di notevole gravità, anche se la previsione di queste misure repressive rappresenta un elemento caratterizzante il sistema sanzionatorio disciplinato dal decreto n. 231, posto che mentre “la sanzione pecuniaria, nel lungo periodo, e soprattutto da parte di quelle società con spiccata propensione a delinquere, viene percepita dall'ente come un rischio di gestione e scaricata facilmente sui consumatori, attenuandone, così, la capacità afflittiva e intimidatoria” (LOTTINI, Il sistema sanzionatorio, in AA.VV., a cura di GARUTI, Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova 2000, 153, che riprende osservazioni di BRICOLA, Luci ed ombre nella prospettiva di una responsabilità penali degli enti nei Paesi della C.E.E., in Giur. Cost., 1978, I, 657; D'ARCANGELO, Le sanzioni pecuniarie ed interdittive, in BASSI – D'ARCANGELO, Il sistema della responsabilità da reato dell'ente. Disciplina e prassi applicative, Milano 2020, 284; CERQUA, Art. 9, in AA.VV., a cura di LEVIS – PERINI, La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Bologna 2014, 263), le sanzioni interdittive, essendone impossibile ogni trasferimento verso terzi, sono invece connotate da una spiccata funzione di prevenzione speciale, interdicendo o limitando quelle attività il cui abuso ha determinato la realizzazione del reato presupposto (D'ARCANGELO, Le sanzioni pecuniarie ed interdittive, cit. 284) - e tale ultima considerazione spiega perché è esclusa ogni possibilità di sospensione condizionale della sanzione inflitta (peraltro, in considerazione del fatto che in alcuni casi l'applicazione della sanzione interdittiva potrebbe determinare gravi conseguenze per l'intera collettività, il legislatore ha individuato strumenti atti a rimediare a tali inconvenienti, prevedendo in particolare la nomina di un commissario giudiziale in sostituzione dell'applicazione della sanzione interdittiva dell'interruzione temporanea dell'attività, quando l'interruzione stessa potrebbe avere ripercussioni negative sui livelli occupazionali o sull'erogazione di servizi pubblici o di pubblica necessità). Quanto alle condizioni che devono ricorrere perché possa procedersi all'applicazione della sanzione interdittiva, viene in primo luogo richiesto che l'ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità e l'illecito presenti un particolare contenuto di disvalore perché il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero, nel caso di responsabilità di soggetti sottoposti all'altrui direzione, quando la commissione del reato sia stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative. Secondo la giurisprudenza, per la sussistenza del requisito del profitto è necessaria solo “la certezza e la rilevanza del profitto, ma non l'esatta quantificazione di esso, per cui la rilevante entità può essere legittimamente dedotta dalla natura e dal volume dell'attività di impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l'ente ha conseguito dall'attività illecita posta in essere siano specificamente individuati, né che se ne conoscano gli importi liquidati. Può pertanto essere ritenuto di rilevante entità il profitto della società per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici avuto riguardo alle caratteristiche e alle dimensioni dell'azienda” (Cass. pen., sez. VI, 19 ottobre 2005, n. 44992). La seconda condizione cui è subordinata l'applicazione delle sanzioni interdittive è la cosiddetta reiterazione degli illeciti, che ricorre quando l'ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per un illecito dipendente da reato, ne commette un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva. Tale previsione trova il suo fondamento giustificativo sia nella accertata maggiore propensione dell'organizzazione verso la criminalità legata al profitto sia nella dimostrata maggiore insensibilità della persona giuridica alla sola sanzione pecuniaria; la recidivanza, inoltre, potrebbe essere la conseguenza di gravi carenze organizzative dell'ente, le quali non risultano affatto eliminate, come dimostrato appunto dalla perpetrazione di reati. Perché possa sussistere la circostanza della recidiva, non occorre che si sia in presenza di più violazioni della stessa indole (LOTTINI, Il sistema,cit., 172. Contra, AMATO, Un regime diversificato per reprimere gli illeciti, in Guida Diritto, 2001, n. 26, 77); inoltre, va evidenziato come, diversamente da quanto previsto dall'art. 99 c.p., la recidiva prevista dall'art. 20 d.lgs. n. 231/2001 non è perpetua, ma temporanea, in quanto si ha reiterazione rilevante solo se i reati vengono commessi nel quinquennio. Le sanzioni interdittive, comunque, non si applicano nell'ipotesi di cui all'art. 12, comma 1, già citato, ovvero quando l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, nonché allorquando il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità. Per quanto riguarda i criteri di scelta delle sanzioni interdittive, in primo luogo va ricordato come nei confronti dell'ente possano applicarsi soltanto le sanzioni interdittive stabilite dal d.lgs. n. 231/2001, anche quando diverse disposizioni di legge prevedono, in conseguenza della sentenza di condanna per il reato commesso dalla persona fisica, l'applicazione nei confronti dell'ente di sanzioni amministrative di contenuto identico o analogo (in questo senso, espressamente, Cass. pen., sez. II, 26 febbraio 2007, n. 10500). In secondo luogo, la misura punitiva da applicare deve dirigersi nei confronti della specifica attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente ed il giudice ne determina il tipo e la durata tenendo conto dell'idoneità delle singole misure interdittive adottate a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Per quanto riguarda il primo profilo, ovvero il riferimento alla “specifica attività alla quale si riferisce l'illecito”, con tale indicazione il legislatore ha voluto imporre al giudice una valutazione concreta della pertinenza della sanzione interdittiva adottanda rispetto alla fonte ed alla causa dell'illecito nel contesto di attività che l'ente svolge, in omaggio ad un principio di economicità e di proporzione della pena rispetto al crimine commesso (per queste ragioni, il divieto di contrattare con la P.A. può essere limitato a determinati tipi di contratto o a determinate amministrazioni). Quanto invece ai criteri commisurativi utilizzabili per individuare il tipo e la durata della sanzione da infliggere in concreto, accanto alle previsioni dettate con riferimento alla pena pecuniaria, il giudice deve anche valutare l'efficacia delle singole misure interdittive ad evitare illeciti penali del medesimo tipo di quello già commesso, eventualmente adottando anche congiuntamente più sanzioni interdittive, ove ne ravvisi la necessità per il conseguimento dell'obiettivo.
Particolare si presenta la disciplina dettata con riferimento all'interdizione dall'esercizio di un'attività. In primo luogo, l'art. 14, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 stabilisce che tale sanzione comporta di diritto anche la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali allo svolgimento dell'attività (da ciò discende il contrasto circa la natura della revoca di finanziamenti concessi, discutendosi se si tratta di sanzione autonoma o se acceda alla sanzione principale dell'esclusione dai benefici pubblici, cfr. FIDELBO, Misure cautelari nei confronti delle società: primo problemi applicativi in materia di tipologie delle sanzioni e limiti all'operatività del commissario giudiziale, in Cass. Pen., 2004, 276; CERESA – GASTALDO, Il processo alle società nel d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Torino 2002, 41; PERONI, Il sistema delle cautele, in AA.VV., Responsabilità degli enti,cit., 244): questa previsione "mira a semplificare la trama dei rapporti che intercorrono tra le sanzioni che inibiscono lo svolgimento di un'attività e quelle che determinano il venir meno dell'atto amministrativo che ne legittima lo svolgimento, sul presupposto che l'irrogazione di una sanzione che paralizza in tutto o in parte lo svolgimento di un'attività non possa che trascinare con sé anche quella che provoca la revoca o la sospensione degli atti amministrativi di natura autorizzativa" (Relazione al decreto legislativo n. 231, n. 464). In secondo luogo, stante la significativa incisività della sanzione in discorso – la quale, come detto, potrebbe coincidere anche con la completa chiusura dello stabilimento o dell'esercizio -, si prevede che tale pena potrà essere applicata solo come extrema ratio, vale a dire solo quando l'irrogazione di altre sanzioni interdittive si riveli inadeguata. Di regola, le sanzioni interdittive sono temporanee: hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni e se, in conseguenza del reato commesso dalla persona fisica, all'ente è già stata applicata una sanzione amministrativa di contenuto identico o analogo a quella interdittiva prevista dal d.lgs. n. 231/2001, la durata della sanzione già sofferta è computata ai fini della determinazione della sanzione amministrativa dipendente da reato. Tuttavia, allorquando la persona giuridica ha nel tempo dimostrato una pervicace e non altrimenti contenibile tendenza alla commissione di illeciti particolarmente gravi è possibile procedere all'applicazione della misura interdittiva in via definitiva. In particolare, può essere disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività se l'ente ha tratto dal reato un rilevante profitto ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni con sentenza definitiva, alla interdizione temporanea dall'esercizio dell'attività: in tale ipotesi, la durezza del trattamento punitivo evidentemente si giustifica alla luce del fatto che la persona giuridica è rimasta insensibile all'irrogazione di precedenti, identiche sanzioni, lasciando così trasparire l'impossibilità di rimanere sul mercato nel rispetto delle leggi. Inoltre, il giudice può applicare all'ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando la persona giuridica sia già stata condannata alla stessa sanzione per tre volte negli ultimi sette anni: anche in questo caso assume rilievo decisivo il numero di reiterazioni dell'illecito. Pur in presenza dei predetti presupposti applicativi, è riconosciuto comunque al giudice un margine di discrezionalità, nel senso che alle situazioni sopra descritte il legislatore – come vedremo – non ha ricollegato una previsione assoluta di irrecuperabilità della società (LOTTINI, Il sistema,cit., 165; PIERGALLINI, La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, in Dir. Pen. Proc., 2001, 1353); di contro, se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta – cioè tale deliberazione è obbligatoria per il giudice - l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni dell'art. 17 d.lgs. n. 231/2001. Tale ultima disposizione, infatti, riconosce all'ente la possibilità di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive – non solo quelle in via definitiva, ma anche quelle temporanee – assumendo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, condotte di riparazione delle conseguenze del reato, sia risarcendo il danno economico cagionato – anche mettendo a disposizione dell'autorità giudiziaria il profitto ricavato dall'agire criminoso - che provvedendo a dotare la propria organizzazione di un nuovo assetto in modo da eliminare il fattore di rischio che ha provocato o agevolato la commissione del reato da cui dipende l'esistenza dell'illecito amministrativo. Tuttavia, sulla valutazione dei modelli di organizzazione adottati successivamente al reato, la giurisprudenza di merito assume – sia pur con riferimento alla possibile applicazione di misure cautelari – un atteggiamento particolarmente severo, sostenendo che “per escludere il pericolo di recidiva può rilevare anche l'istituzione ex post, da parte della società, di un modello di organizzazione e di gestione: peraltro, per poter ritenere tale modello idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi, occorre una valutazione più rigorosa di quella riservata al modello ex ante, occorrendo un modello che effettivamente rimuova le carenze dell'apparato organizzativo e operativo dell'ente che hanno in concreto favorito la commissione dell'illecito” (Trib. Roma, 14 aprile 2003. In dottrina su punto, PETTINATO, Costituzione ex post di un modello di organizzazione e gestione ed effetti esimenti per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in Impresa, 2004, 88). Laddove le suddette condotte vengano poste in essere tardivamente – ovvero dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, ma non oltre entro venti giorni dalla notifica dell'estratto della sentenza che dichiara la responsabilità dell'ente -, la persona giuridica può richiedere la conversione della sanzione amministrativa interdittiva in sanzione pecuniaria. Quando l'ente è responsabile in relazione ad una pluralità di illeciti commessi con una unica azione od omissione ovvero commessi nello svolgimento di una medesima attività e prima che per uno di essi sia stata pronunciata sentenza anche non definitiva, viene applicata – sempre che ovviamente ne ricorrano le condizioni – la sanzione interdittiva prevista per l'illecito più grave. Le soluzioni giuridiche
Il ricorso è stato accolto. In effetti, per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 590, comma 3, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, «si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi». Tale ultimo articolo distingue le quattro categorie di sanzioni - pecuniarie, interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza - previste per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, specificando, al comma 2, che le sanzioni interdittive sono: a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Ciò posto, la scelta, operata dal giudice di merito di applicare cumulativamente tutte le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, per la durata di mesi tre, è illegittimo per un duplice profilo. In primo luogo, la decisione impugnata contrasta con il principio secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, le sanzioni interdittive sono sanzioni "principali" e non "accessorie", per cui, in caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., queste ultime devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo ed alla durata delle stesse e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell'accordo medesimo (così, espressamente, Cass. pen., sez. III, 8 giugno 2016, n. 45472, su cui SALVIANI, La natura delle sanzioni interdittive applicabili agli enti, in Cass. Pen., 2017, 1614). La natura di sanzioni "principali", e non "accessorie", delle sanzioni interdittive è, in particolare, desumibile dai contenuti della norma dell'art. 14 d.lgs. n. 231/2001, che ne definisce le modalità di commisurazione e di scelta, richiamando il corrispondente art. 11 sulle sanzioni pecuniarie quanto all'individuazione dei criteri per la loro determinazione nel tipo e nella durata, tenendo conto dell'idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Appare evidente, pertanto, come nel caso di "patteggiamento" l'applicazione delle sanzioni interdittive possa essere consentita solo all'esito di un espresso accordo processuale ti intervenuto tra le parti, mediante il quale vengano preventivamente stabiliti il tipo e la durata della sanzione ex art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 in concreto da applicarsi. Ne consegue l'illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha applicato cumulativamente le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, in quanto ultra petita, per averle disposte in violazione dell'accordo processuale raggiunto dalle parti, avente ad oggetto la sola sanzione pecuniaria. Il rapporto negoziale intercorso tra le parti preclude, infatti, al giudice di applicare una sanzione diversa da quella concordata, in quanto la modifica in peius del trattamento sanzionatorio, sia pure nei limiti della misura legale, altera i termini dell'accordo ed incide sul consenso prestato. L'impugnata sentenza è, altresì, viziata per l'assoluta genericità e carenza di motivazione con cui il giudice di merito ha cumulativamente applicato tutte le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001. Il giudice di merito avrebbe dunque assunto la propria decisione senza conformarsi ai disposti degli artt. 11, 13 e 14 d.lgs. n. 231/2001, mentre la scelta della sanzione interdittiva concretamente da applicarsi deve avvenire nel rispetto dei criteri fissati (per le sanzioni pecuniarie) dall'art. 11 d.lgs. n. 231/2001 - e cioè: «tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell'ente nonché dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti» -, nella ricorrenza di almeno una delle condizioni richieste dalle lett. a) e b) del successivo art. 13 - ovvero qualora: «a) l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative; b) in caso di reiterazione degli illeciti» - altresì provvedendo alla determinazione del relativo tipo e della sua durata, in ossequio a quanto previsto dall'art. 14 del citato d.lgs. Tutto ciò non può che essere svolto mediante un percorso logico ed argomentativo che il giudice è tenuto a rappresentare, sia pur succintamente, nella motivazione del provvedimento applicativo della sanzione interdittiva. È indispensabile, cioè, esplicare in base a quali criteri e nella ricorrenza di quali presupposti è stato ritenuto necessario disporre l'applicazione della sanzione - o anche di più sanzioni - ex art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, altresì rappresentando le modalità attraverso cui si è pervenuti alla scelta del relativo tipo e della sua durata. L'indicata motivazione è del tutto assente nella sentenza impugnata, che, in maniera assertiva e senza alcuna esplicazione in proposito, si è limitata a disporre l'indiscriminata applicazione di tutte le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001. Osservazioni
La decisione della Cassazione pare assolutamente corretta, oltre a ribadire, come detto, un principio già presente in altre sentenze. D'altronde va ricordato che è possibile addivenire ad una applicazione della pena su richiesta solo nei casi in cui per l'illecito amministrativo è prevista unicamente una pena pecuniaria o il giudizio nei confronti dell'imputato è definibile o definito mediante pena concordata ed il giudice non ritenga comunque che alla persona giuridica debba essere applicata una sanzione interdittiva di tipo definitivo (BASSI, I giudizi speciali, in BASSI – D'ARCANGELO, Il sistema della responsabilità da reato dell'ente. Disciplina e prassi applicative, Milano 2020, 720; MANCUSO, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano 212, 340; IANNINI, Art. 63, in AA.VV., a cura di LEVIS – PERINI, La responsabilità amministrativa delle società, cit., 1231). In proposito, va ricordato l'ambito di operatività dell'art. 63 d.lgs n. 231/2001 – che contiene la disciplina in tema di applicazione della pena su richiesta di parte, prevedendo che il relativo giudizio deve seguire le cadenze indicate nel codice di rito - è definito mediante un riferimento al tipo di sanzione da irrogare, essendo possibile addivenire ad una applicazione della pena su richiesta solo nei casi in cui per l'illecito amministrativo è prevista unicamente una pena pecuniaria o il giudizio nei confronti dell'imputato è definibile o definito mediante pena concordata ed il giudice non ritenga comunque che alla persona giuridica debba essere applicata una sanzione interdittiva di tipo definitivo. In sole due ipotesi dunque è possibile per la società accedere al rito del patteggiamento: in un primo caso, l'istanza di applicazione di pena formulata dall'ente viene ad essere strettamente collegata all'analoga richiesta avanzata dall'imputato, nel senso che la proposta di patteggiamento dell'organizzazione collettiva segue o è presentata contestualmente all'istanza della persona fisica, mentre nell'ipotesi in cui l'imputato non abbia formulato richiesta di applicazione della pena - sia nell'ambito di un simultaneus processus sia che si proceda separatamente - occorrerà che l'ente, nel formulare la propria richiesta di applicazione della sanzione, dimostri che, se l'imputato avesse a sua volta optato per il rito speciale, non vi sarebbero state ragioni per respingere la sua richiesta. Come precisato in giurisprudenza, “le sanzioni irrogabili alle persone giuridiche per illeciti dipendenti da reato possono essere applicate su richiesta delle parti, oltre che nel caso in cui consistano soltanto in sanzioni pecuniarie, anche quando il procedimento penale per il reato presupposto è definito o definibile con sentenza di patteggiamento e, in tal caso, occorre operare la diminuente per il rito sia sulla sanzione interdittiva temporanea che sulla sanzione pecuniaria” (Cass. pen.,sez. II, 30 ottobre 2008, n. 45130). La scelta del legislatore di subordinare l'accoglibilità della richiesta di patteggiamento dell'ente alla presentazione di analoga istanza da parte della persona fisica responsabile del reato presupposto è giustificata dalla necessità – come si esprime la Relazione al decreto – “di ancorare l'ammissibilità del rito alternativo ad un dato oggettivo (la ridotta gravità del reato presupposto, che si riflette in una concreta minore gravità dell'illecito posto dallo stesso dipendente) derivante dalla disciplina positiva”. Tale opzione viene comunque criticata, posto che – in assenza di istanza della persona fisica - la valutazione del giudice circa l'ammissibilità della proposta di patteggiamento presentata dalla società dovrebbe essere effettuata in astratto, tenendo conto della fattispecie di reato oggetto di contestazione e della pena edittale comminata dal legislatore e tale “compito non sarà sempre agevole: si pensi al caso in cui si proceda nei confronti del solo ente, per la mancata identificazione dell'autore del reato o per la sussistenza di una causa di estinzione del reato diversa dall'amnistia” (CERQUA, L'applicazione delle misure cautelari interdittive nei confronti degli enti: le prime pronunce della giurisprudenza, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2006, 3, 45. Nello stesso senso, BASSI - EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Milano 2006, 694; ROCCHI, Sub art. 63 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in AA.VV., Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di GAITO, vol. II, II ed., Torino 2006, 1787; BONETTI, I procedimenti speciali, in AA.VV., Il processo penale de societate, a cura di BERNASCONI, Milano 2006, 291; FERRUA, Il processo penale contro gli enti: incoerenze e anomalie nelle regole di accertamento, in AA.VV. Responsabilità degli enti, cit., 241; RUGGIERI, Riti speciali deflattivi e strategie difensive, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2009, 3, 61). |