L'ospedalizzazione obbligatoria non costituisce una pena ex art. 7 Cedu
31 Marzo 2016
La Corte è stata chiamata a decidere su di un caso di applicazione retroattiva di misure consistenti nella ospedalizzazione obbligatoria, divieto di avvicinamento per 20 anni alle parti civili e divieto di detenzione e porto di armi ad un soggetto che, in stato di incapacità di intendere e di volere per infermità psichica, ha tolto la vita alla sua ex compagna. La Chambre de l'instruction del tribunal de grande instance, ordinando tali misure, aveva concluso che esistevano prove sufficienti ad affermare che il soggetto avesse volontariamente procurato la morte della donna. La Corte di cassazione confermando l'applicazione di tali misure aveva altresì eliminato, su richiesta dell'avvocato generale, la parola volontariamente dall'ordinanza della Chambre de l'instruction. L'avvocato generale sosteneva infatti che, una volta esclusa la carenza di colpevolezza (assenza di responsabilità penale) di un soggetto, la Cassazione non potrebbe giudicare sull'elemento psicologico e conseguentemente sulla qualificazione come reato delle condotte in questione. Dunque, trattandosi di misure non conseguenti ad un reato, le stesse potrebbero essere oggetto di applicazione retroattiva. Conformemente, la Corte Edu ha concluso che le misure imposte al soggetto di cui è stata dichiarata la carenza di colpevolezza per infermità mentale non sono state applicate in conseguenza di una sua condanna per un reato e come tali non costituirebbero delle pene ai sensi dell'art. 7 Cedu. Inoltre, considerando il fatto che l'ospedalizzazione obbligatoria avviene in una struttura specializzata e non in un carcere, che è finalizzata in primo luogo alla cura del malato e in secondo luogo ad evitare che lo stesso reiteri la condotta, che è di durata indeterminata ed è revocabile dal giudice, la stessa sarebbe qualificabile come misure preventiva e non come pena. Per quanto riguarda la natura e la finalità dell'ospedalizzazione obbligatoria del ricorrente, tale misura può essere ordinata solo se la valutazione di un esperto in psichiatria abbia stabilito che l'infermità mentale di cui soffre la persona dichiarata esente da responsabilità penale richieda un trattamento e comprometta la sicurezza degli individui ovvero perturbi l'ordine pubblico. Dunque, lo scopo della misura è consistito in primo luogo nel consentire al ricorrente di ricevere un trattamento attraverso il ricovero in un ospedale specializzato invece che in un carcere ordinario e, in secondo luogo, di prevenire la reiterazione delle condotte. Inoltre, il regime che disciplina l'ospedalizzazione obbligatoria è lo stesso di quello previsto per l'ammissione ad un trattamento psichiatrico in forza di una decisione di un rappresentante dello Stato; in entrambi i casi, in ogni tempo può essere rivolta al giudice una richiesta per la revoca della misura. Il giudice adotta una decisione fondata su le raccomandazioni di un gruppo composto da due psichiatri e un rappresentante dell'equipe dell'ospedale che ha in cura il paziente e dopo aver ottenuto due consulenze da parte degli psichiatri. Dunque, l'ospedalizzazione obbligatoria, la cui durata non è stabilità in anticipo, è finalizzata ad uno scopo preventivo e curativo piuttosto che ad uno scopo punitivo e quindi non costituisce una pena. Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte ritiene che la dichiarazione di irresponsabilità penale e le misure di sicurezza che l'accompagnano non costituiscono una pena nel senso dell'art. 7 § 1 della Convenzione e devono essere qualificate come misure preventive alle quali non si applica il principio di irretroattività previsto da tale disposizione. L'art. 7 non è quindi applicabile al caso in esame. |