Gli strumenti per scongiurare il rischio di “trattamenti inumani e degradanti” per il destinatario del MAE
13 Dicembre 2019
Premessa
La sentenza del 15 ottobre 2019 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell'Unione europea (causa C-128/18), si colloca all'interno di un percorso giurisprudenziale già iniziato nel 2016. Il punto di arrivo è costituito dal rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali dei soggetti destinatari di un mandato di arresto europeo (MAE) al fine di garantire che essi non siano sottoposti a trattamenti inumani e degradanti durante l'espiazione di una misura coercitiva nello Stato di emissione. Va sottolineato, in primo luogo, che il MAE, è lo strumento espressivo, per eccellenza, del principio fondante la cooperazione giudiziaria in materia penale: il mutuo riconoscimento. Sul punto uno sguardo particolare va al Programma dell'Unione europea concernente le misure per l'attuazione del principio del mutuo riconoscimento in materia penale adottato dal Consiglio dell'Unione il 12/10/2000 in cui si afferma esplicitamente che «l'attuazione del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni penali presuppone una fiducia reciproca degli Stati membri nei rispettivi ordinamenti penali». Si tratta di un'affermazione suscettibile di essere letta in due modi differenti. Anzitutto, essa può significare che una simile fiducia va considerata come un dato implicito, già acquisito; ovvero, nel senso che la realizzazione di un sistema di mutuo riconoscimento implica a monte l'adozione da parte di tutti gli Stati membri di taluni standard qualitativi, così da poter sostenere la fiducia reciproca. L'accoglimento di questa seconda chiave di lettura, avrebbe comportato, inevitabilmente, la necessità di affiancare, alla produzione normativa in materia di mutuo riconoscimento, una produzione normativa volta a garantire, tra le altre cose, diritti minimi inviolabili. Quando l'Unione europea ha adottato il suo primo e più importante provvedimento di mutuo riconoscimento in materia penale, però, lo ha fatto sulla base del presupposto che la fiducia reciproca fosse un dato già scontato, istituendo così il mandato d'arresto europeo il 13 giugno 2002. Tale situazione ha chiaramente determinato più interventi sia sotto il profilo legislativo sia sotto quello giurisprudenziale. Nello specifico il MAE presuppone che i giudici penali di uno Stato diano esecuzione agli ordini e alle decisioni dei giudici appartenenti ad altro Stato membro. Le garanzie procedurali individuali assicurate entro gli ordinamenti nazionali, ai fini della celebrazione del processo penale, rappresentano il test sull'effettivo funzionamento del reciproco riconoscimento. Questo elevato livello di fiducia tra gli Stati membri dell'Unione trova, tuttavia, il suo limite, come chiarito dallo stesso considerandum n.10 della decisione quadro 2002/584/GAI, istitutiva del MAE (così come modificata dalla decisione quadro 2009/209/GAI), nei principi sanciti all' articolo 6 paragrafo 1 del trattato sull'Unione europea; vale a dire nei diritti, libertà e principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, oltre che nei casi di rifiuto obbligatorio e facoltativo alla consegna elencati agli artt. 3, 4 e 4 bis della decisione quadro. In tale contesto, pertanto, si collocano le decisioni della Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi sulla tutela dei diritti fondamentali dell'individuo destinatario di un mandato di arresto europeo. I precedenti giurisprudenziali
Primo intervento in tal senso è stata la sentenza della Grande Sezione del 5 aprile 2016 (nelle cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU). L'incipit di tale pronuncia, come sempre, ha provveduto all'individuazione del contesto normativo entro cui inquadrare la questione sottoposta ad esame. In particolare, la Corte ha confermato l'importanza del principio del reciproco riconoscimento, formulato a Tampere nel 1999, quale principio fondante la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri dell'Unione europea. Nella motivazione, la Corte rinvia, poi, ai sensi dell'art. 1 par. 3 della decisione quadro, all'"obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea che non può essere modificato per effetto della presente decisione quadro". Sulla base di tale assunto, dunque, i giudici di Lussemburgo hanno richiamato il limite assoluto, ex art. 3 CEDU e inderogabile, ex art. 15 par. 2 CEDU, imposto dall'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, che sancisce il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti. Partendo da queste premesse, la Corte ha delineato tre capisaldi, cui devono conformarsi le autorità giudiziarie degli Stati membri, durante la procedura di consegna, al fine di scongiurare il rischio che, il soggetto interessato possa essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. L'autorità giudiziaria di esecuzione deve verificare, in modo concreto e preciso, «se sussistono motivi seri e comprovati di ritenere che la persona colpita da un mandato d'arresto europeo, emesso ai fini dell'esercizio dell'azione penale o dell'esecuzione di una pena privativa della libertà, a causa delle condizioni di detenzione in tale Stato membro, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, ex art. 4 CEDU». A tal fine, essa ha il potere (o meglio deve) chiedere la trasmissione di tutte le informazioni necessarie all'Autorità Giudiziaria emittente, la quale, dopo avere sollecitato l'assistenza dell'Autorità Centrale o di una delle Autorità Centrali dello Stato membro emittente, ai sensi dell'articolo 7 della decisione quadro, deve trasmettere tali informazioni, entro il termine fissato nella domanda. Ciò posto, l'Autorità giudiziaria di esecuzione è tenuta a modulare le proprie determinazioni in merito alla consegna dell'interessato, sulle informazioni complementari acquisite, così che, qualora sussista il rischio di un trattamento contrario ai diritti fondamentali dell'individuo, potrà porre fine alla procedura di consegna. Approdo basilare della giurisprudenza europea è rappresentato quindi dal definitivo riconoscimento del divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti quale valore fondamentale dell'Unione che ha carattere assoluto e inderogabile. Sono, ancora, due gli aspetti su cui, tuttavia, occorre soffermarsi. In primo luogo, la Corte ha statuito che la procedura di consegna possa essere interrotta una volta accertata la sussistenza di condizioni di detenzione inumane e degradanti, unicamente in relazione alla persona consegnata, non essendo sufficiente che tali carenze abbiano portata generale all'interno del sistema penitenziario dello Stato membro emittente. Si ricordi che la Romania e l'Ungheria erano state, tra l'altro, già condannate dalla Corte Edu per violazione dell'art. 3 della CEDU. In secondo luogo un MAE non può essere interrotto immediatamente all'atto della constatazione della presenza di tali condizioni inumane, ma solo a seguito di una procedura interlocutoria con lo Stato membro richiedente. Simili assunti sono altresì rilevabili anche nella successiva sentenza del 25 luglio 2018 (nella causa C-220/18 PPU) relative alle ipotesi di sospensione del MAE. La Corte, dopo aver affermato che non è valida ad escludere la presenza di condizioni di detenzione inumane e degradanti la circostanza che la persona disponga, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso che le permette di contestare le sue condizioni di detenzione si è allineata a quanto già sostenuto in precedenza: «l'autorità giudiziaria dell'esecuzione è tenuta unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali è probabile, secondo le informazioni a sua disposizione, che la suddetta persona sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria» dovendo verificare « solo le condizioni di detenzione concrete e precise della persona interessata che siano rilevanti al fine di stabilire se essa correrà un rischio reale di trattamento inumano o degradante», specificando che tali informazioni possono provenire da un'Autorità Giudiziaria dello Stato emittente, anche diversa da quella richiedente. La sentenza in esame
Venendo alla pronuncia oggetto della presente analisi, è possibile riscontrare come essa rappresenti, da un lato, il sunto dei precedenti orientamenti fin qui esaminati e dall'altro, intenda precisare gli strumenti e i principi a disposizione delle autorità giudiziarie nei casi di esecuzione di un mandato d'arresto europeo. La Grande Sezione ha sottolineato che l'esistenza, nello Stato emittente, di un mezzo di ricorso che permetta di contestare le condizioni della detenzione, non è condizione, di per sé, sufficiente a elidere il rischio di trattamenti inumani e degradanti. Ha evidenziato, poi, che l'Autorità Giudiziaria dell'esecuzione, ove disponga di elementi oggettivi, attendibili, precisi e aggiornati, «attestanti l'esistenza di carenze sistemiche o generalizzate delle condizioni di detenzione negli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, al fine di valutare se la persona oggetto di un mandato d'arresto europeo corra un rischio reale di essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante, deve tener conto delle condizioni di detenzione nell'istituto penitenziario nel quale è concretamente previsto che tale persona verrà reclusa», tra cui, anche, lo spazio personale disponibile per detenuto in ogni cella, le condizioni sanitarie, nonché l'ampiezza della libertà di movimento del detenuto nell'ambito di detto istituto. Si tratta di una valutazione non limitata ad aspetti meramente formali e manifesti dovendo, l'Autorità Giudiziaria dell'esecuzione richiedere all'Autorità Giudiziaria emittente le informazioni che essa reputi necessarie e «deve fidarsi, in linea di principio, delle assicurazioni fornite da quest'ultima autorità, in mancanza di elementi precisi che permettano di considerare che le condizioni di detenzione violano l'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali». Elementi di novità attengono alla definizione dei requisiti in base a cui deve essere valutato lo spazio personale disponibile per detenuto ed, in particolare, l'attenuazione di quel principio considerato pietra angolare della cooperazione giudiziaria in materia penale, vale al dire del reciproco riconoscimento. L'Autorità Giudiziaria dell'esecuzione deve, infatti, in assenza di specifiche norme in materia, tener conto dei requisiti minimi risultanti dall'articolo art. 3 CEDU. Se, per il calcolo di questo spazio disponibile, non si deve tener conto dello spazio occupato dalle infrastrutture sanitarie, tale calcolo deve però includere lo spazio occupato dal mobilio. I detenuti devono tuttavia conservare la possibilità di muoversi normalmente nella cella. In ultimo « La constatazione, da parte della suddetta autorità, dell'esistenza di seri e comprovati motivi di ritenere che, a seguito della sua consegna allo Stato membro emittente, la persona interessata correrà un rischio siffatto, in ragione delle condizioni di detenzione esistenti nell'istituto penitenziario nel quale è concretamente previsto che essa verrà reclusa, non può essere posta in bilanciamento, al fine di decidere su tale consegna, con considerazioni legate all'efficacia della cooperazione giudiziaria in materia penale nonché ai principi della fiducia e del riconoscimento reciproci» La sentenza in esame ha certamente il pregio di confermare il valore assoluto e inderogabile del divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti, intervenendo, peraltro, sul delicato aspetto dello spazio personale di cui deve disporre il detenuto. È questo un aspetto assolutamente rilevante, considerato il valore cogente e l'efficacia erga omnes delle sentenze emesse ex art 267 T.F.UE. dalla Corte di Giustizia, che impongono un obbligo di uniformarsi a ciascun Stato membro, a dispetto di quanto avviene a seguito di pronunce di condanna della Corte EDU pronunciate nei confronti del singolo Stato. Ancor più rilevante è poi il temperamento di quella rigidità che ha caratterizzato il principio del reciproco riconoscimento così come ideato a Tampere, in quanto viene definitivamente sancita l'impossibilità di bilanciare esigenze di cooperazione giudiziaria con istanze di tutela di diritti fondamentali della persona. Contestualmente, va però rilevato che permangono due aspetti critici, già vagliati relativamente alle sentenze precedentemente analizzate. L'interruzione della procedura è subordinata aduna fase interlocutoria con le autorità giudiziarie dello Stato membro emittente e alla sussistenza di un effettivo e un serio rischio per la persona di essere sottoposta a trattamenti inumani e degradanti, valutato, esclusivamente, rispetto al singolo istituto detentivo presso cui si presume possa permanere il soggetto interessato. Tale ultima circostanza è rilevante considerato che le violazioni dell'art. 3 CEDU, da parte dello Stato membro in questione (la Romania), sono state accertate sia dalla Corte EDU, con una sentenza pilota del 2015, sia dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. A ciò aggiungasi, peraltro, che la stessa decisione quadro statuisce che « L'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea non può essere modificata per effetto della presente decisione quadro» tra cui vi è il rispetto della dignità umana di cui all'art. 4 della Carta e art. 3 CEDU. È evidente che, seppure si afferma il principio di non compromettere i diritti fondamentali dell'individuo a favore di una maggiore cooperazione tra Stati dell'UE, la limitazione dell'analisi circa la sussistenza di condizioni inumane allo specifico istituto penitenziario, necessariamente sottende alla necessità di evitare immobilizzazioni o ritardi nella consegna. La trasparenza. Un facile rimedio per la tutela dei diritti
La Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, si basa innanzitutto sulla “fiducia reciproca” tra gli Stati membri. Principio che consente il mutuo riconoscimento tra gli Stati membri e il rispetto del diritto dell'Unione. In materia di Mandato di Arresto Europeo viene confermata tale regola. L'esecuzione del MAE, infatti, costituisce la normalità, mentre il rifiuto di esecuzione è concepito come un'eccezione che deve essere oggetto di un'interpretazione restrittiva. Il rifiuto deve “fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione esistenti nello Stato membro emittente che dimostrino l'effettiva esistenza di carenze sistematiche o generalizzate, oppure di carenze incidenti su determinati gruppi di persone, od anche riguardanti determinati centri di detenzione” (sentenza in esame). Se è vero che “tali elementi possono risultare, in particolare, da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, da decisioni giudiziarie dello stato membro emittente, nonché da decisioni, rapporti e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d'Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite” (sentenza in esame), è altrettanto vero che tali dati potrebbero essere non attuali e soprattutto rischiano di essere non attinenti al caso in esame. Mentre la verifica in concreto comporterebbe ritardi non compatibili con la necessaria immediatezza dell'esecuzione. La soluzione, anche, in questo caso è la trasparenza che ogni Stato dovrebbe adottare per dimostrare sia il rispetto delle norme interne, che di quelle europee. L'istituzione di schede specifiche, che abbiano ad oggetto i singoli istituti di pena, con indicazione di tutti gli elementi utili per valutare se la reclusione comporti un trattamento inumano o degradante. Una semplice operazione di chiarezza sulla detenzione in ogni Paese, che oggi manca per la probabile vergogna degli Stati membri di confessare le condizioni delle loro carceri. Agli ispettori europei il compito non solo di visitare gli istituti di pena, come già fanno, ma di verificare anche la corrispondenza delle schede alla realtà. Avremo così una vera e propria banca dati che costituirà il primo materiale di consultazione per lo Stato che deve eseguire il Mandato di Arresto Europeo. |