La tutela dei c.d. soggetti vulnerabili nella giurisprudenza della Corte Edu
12 Aprile 2017
Massima
L'art. 2, comma 1, della Convenzione Edu stabilisce che il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge e l'art. 3, a sua volta, stabilisce che nessuno può essere sottoposto a torture, a pene o trattamenti disumani o degradanti: si tratta di principi fondamentali della Convenzione e di valori irrinunciabili delle società democratiche che formano il Consiglio d'Europa. In applicazione di tali principi, i soggetti vulnerabili, tra cui rientrano le vittime di violenza domestica, hanno diritto alla protezione dello Stato, sotto forma di una prevenzione efficace, che li metta al riparo da forme anche gravi di attentato all'integrità personale; lo Stato, a sua volta, ha l'obbligo di porre in essere un sistema giudiziario efficace ed indipendente che permetta di stabilire le cause dell'omicidio di un individuo e punire il colpevole, ma, ancor prima, ha l'obbligo di adottare misure di ordine pratico per proteggere l'individuo la cui vita è minacciata dalle condotte criminali altrui. Gli artt. 2, comma 1 e 3, vanno poi letti ed interpretati unitamente all'art. 14 della Convenzione, che vieta ogni tipo di discriminazione, ed in particolare quella fondata sul sesso: un atteggiamento inerte, da parte della autorità nazionali, nei confronti delle violenze domestiche sulle donne, può costituire una forma di discriminazione sessuale. Il caso
All'origine della sentenza in commento, vi è un grave fatto di sangue accaduto il 25 novembre 2013 a Remanzacco, in provincia di Udine, dove un uomo moldavo, al culmine di una lite con la moglie, uccideva con un coltello il figlio diciannovenne che aveva cercato di proteggere la madre e feriva seriamente anche quest'ultima. Sopravvissuta al grave episodio, la donna presentava un ricorso contro la Repubblica italiana ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, lamentando che le autorità italiane avevano mancato al loro dovere di proteggerla dalle violenze domestiche del marito, che avevano condotto al tentativo di omicidio nei suoi confronti e alla morte di suo figlio. La vicenda – ricostruita dettagliatamente in sentenza – si sviluppa secondo uno schema purtroppo ben noto a chi si occupa di questi temi: un nucleo familiare segnato dall'alcolismo dell'uomo, violento nei confronti della moglie e dei figli, incapaci di opporglisi efficacemente. Dopo una prima aggressione non denunciata formalmente, alla seconda la donna – finita in ospedale con un trauma cranico, ferite alla testa ed escoriazioni multiple – si rifiuta di tornare a vivere con il marito, si rifugia in una struttura protetta e, nel settembre 2012, denuncia l'uomo per maltrattamenti, lesioni aggravate e minacce, chiedendo misure urgenti a protezione della propria incolumità. Le indagini, pur sollecitate dal P.M., che delega all'uopo la P.G., restano ferme per circa sei mesi, durante i quali la donna è costretta a lasciare la struttura protetta per mancanza di fondi, e a cercarsi un lavoro. Quando viene sentita a sommarie informazioni dalla P.G., nell'aprile 2013, modifica le precedenti dichiarazioni, attenuando sensibilmente la gravità dei fatti e attribuendo le discrasie tra la prima e la seconda versione alla sua scarsa conoscenza, all'epoca della originaria denuncia, della lingua italiana. A fronte di tali evidenze, ad agosto 2013 il procedimento per maltrattamenti e minacce viene archiviato, mentre prosegue quello per lesioni, con citazione a giudizio dell'uomo dinanzi al giudice di pace per il maggio successivo. Si giunge così al 25 novembre 2013, data del delitto: in serata la donna, che frattanto è tornata a vivere nella casa coniugale, chiede l'intervento delle Forze dell'Ordine per una lite con il coniuge e agli operanti – che trovano la porta della camera da letto rotta e la stanza disseminata di bottiglie di alcolici – riferisce che il marito è sotto l'effetto dell'alcol e ha bisogno di un medico; riferisce altresì di avere in passato presentato una denuncia contro di lui ma di avere poi modificato le accuse. Il figlio della coppia, presente, dichiara che il padre non è violento nei suoi confronti e nessuno dei due – né la madre, né il figlio – presenta agli occhi dei verbalizzanti segni di violenza. L'uomo viene quindi trasportato in ospedale ma se ne allontana poco dopo, iniziando un lungo vagabondaggio durato tutta la notte: alle ore 2,25 - ancora ubriaco – viene fermato e controllato dalla polizia, che lo rilascia dopo averlo identificato; alle cinque del mattino, armato di un coltello da cucina, rientra a casa con l'intenzione di aggredire la moglie, ma uccide il figlio che aveva cercato invano di fermarlo, colpendo poi al petto anche la donna, che riesce a salvarsi. La questione
La questione proposta è quella della efficacia della tutela dei soggetti vulnerabili da parte degli Stati membri della Comunità europea e, nel caso di specie, da parte del nostro Paese: secondo la Corte Edu, pur non competendole di sostituirsi alle autorità nazionali e operare al loro posto una scelta nell'ampio ventaglio di misure adatte a garantire il positivo rispetto delle obbligazioni imposte dall'art. 3, tuttavia – giusto il disposto dell'art. 19 – essa ha il compito di vigilare affinchè gli Stati nazionali soddisfino correttamente l'obbligo di proteggere i diritti delle persone sottoposte alla loro giurisdizione e affinchè tali diritti non siano teorici o illusori ma concreti ed effettivi. Le soluzioni giurdiche
Muovendo, dunque, da tale premessa, si contestano all'Italia molteplici inadempienze a proposito del caso di Remanzacco. In primo luogo, si assume la violazione dell'art. 2 della Convenzione: la Corte Edu sottolinea la colpevole inerzia delle autorità italiane dopo la prima denuncia della ricorrente, osservando che sono passati sette mesi prima che la donna fosse finalmente sentita dalla polizia, il che l'ha certamente privata di quella protezione immediata che la sua situazione richiedeva; poco importa che in tale periodo ella non sia stata vittima di nuove violenze fisiche da parte del marito, poiché non si doveva comunque ignorare il sentimento di paura in cui ha vissuto mentre dimorava nel centro di assistenza. È ben vero – osservano i giudici – che ha poi modificato le sue dichiarazioni, sicchè la denuncia è stata parzialmente archiviata, tuttavia il procedimento per lesioni era ancora aperto, e ciò avrebbe dovuto indurre le autorità ad apprezzare i rischi insiti in una tale situazione, compreso quello di nuove possibili aggressioni. Al contrario, nessuna valutazione è stata compiuta, il che ha creato un contesto di impunità favorevole alla ripetizione di atti criminali da parte del futuro omicida, nei confronti della moglie e della famiglia. Passando, poi, ai fatti tragici del 25 novembre, osservano i giudici che le forze dell'ordine hanno avuto modo di intervenire per ben due volte nel corso della notte del delitto: in una prima occasione chiamate dall'interessata, che aveva chiesto un medico per il marito in stato di ebbrezza. In una seconda occasione controllando ed identificando l'uomo per strada, mentre era ancora ubriaco: in entrambi i casi non hanno adottato alcuna misura particolare onde fornire alla ricorrente una protezione adeguata alla gravità della situazione, nonostante le violenze dell'uomo sulla moglie fossero loro ben note, poichè a quella data era ancora pendente il procedimento penale per lesioni aggravate. Non è dato sapere come sarebbero andati i fatti se le autorità avessero adottato un diverso comportamento; tuttavia, ricorda la Corte, la mancata messa in opera di ragionevoli misure che avrebbero avuto una reale possibilità di cambiare il corso degli eventi, o comunque di attenuarne la portata, è sufficiente a configurare la responsabilità dello Stato. In conclusione, le autorità competenti non hanno preso, nel quadro dei loro poteri, le misure che ben avrebbero potuto evitare la materializzazione di un rischio reale per la vita della ricorrente e di suo figlio, così violando l'art. 2 della Convenzione.
In secondo luogo, si assume la violazione dell'art. 3 della Convenzione: la Corte osserva che le violenze domestiche subìte dalla ricorrente – tradottesi in ferite fisiche e pressioni psicologiche – possono qualificarsi trattamenti disumani e degradanti ai sensi dell'art. 3. A tal riguardo, le autorità nazionali devono tenere in debito conto la situazione di particolare vulnerabilità delle donne vittime di violenze domestiche, ed intervenire con la massima tempestività. Nel caso di specie, l'inspiegabile inerzia delle autorità nazionali per un periodo di sette mesi, e il fatto stesso che il processo per lesioni aggravate sia durato ben tre anni, dimostrano che le esigenze tutelate dall'art. 3 della Convenzione sono rimaste insoddisfatte, e che vi è stata una violazione del principio in esso contenuto.
In terzo luogo, si assume la violazione dell'art. 14 della Convenzione, in relazione agli artt. 2 e 3: osserva infatti la Corte che, secondo la propria giurisprudenza già espressa in altre occasioni (ci si riferisce al caso Opuz c.Turchia), l'inadempimento, anche involontario, di uno Stato, al proprio obbligo di proteggere le donne dalla violenza domestica, si traduce in una violazione del diritto di queste alla eguale protezione di fronte alla legge. In particolare, l'inerzia generalizzata e discriminatoria della polizia – non una semplice mancanza o un ritardo nel trattare i fatti di violenza, ma una tolleranza ripetuta - crea un clima propizio a questo tipo di violenza, e si risolve in una violazione dell'art. 14 della Convenzione. Nel caso concreto, affermano i giudici, la ricorrente era stata vittima delle violenze del marito a più riprese, e le autorità erano a conoscenza dei fatti: ciò nonostante, per sette mesi a far tempo dalla denuncia, nessun accertamento è stato svolto e nessuna misura di protezione è stata adottata, sebbene la ricorrente ne avesse fatto richiesta. A parere della Corte, le autorità italiane, sottostimando, con la propria inerzia, la gravità delle violenze domestiche, le hanno in sostanza avallate, sicchè può concludersi che la ricorrente è stata vittima – in quanto donna – di una discriminazione contraria all'art. 14 della Convenzione. Il che trova riscontro nelle conclusioni del Comitato CEDAW e nelle rilevazioni statistiche, le quali mostrano come in Italia il problema delle violenze domestiche sia particolarmente grave: molte donne, nonostante le riforme introdotte, muoiono per mano dei loro compagni ed ex compagni, e l'atteggiamento socioculturale di tolleranza verso le violenze domestiche persiste. In tale contesto, rileva ancora la Corte Edu, l'applicazione del diritto penale nel caso concreto non ha ottenuto lo scopo di prevenire efficacemente gli attentati all'integrità fisica della ricorrente e di suo figlio, tant'è che i suoi diritti – sotto il profilo degli artt. 2 e 3 della Convenzione – sono stati violati. In definitiva, le violenze inflitte alla donna devono ritenersi fondate sul sesso, e costituiscono una forma di discriminazione di genere: ne deriva pertanto la violazione, da parte dello Stato italiano, dell'art. 14 della Convenzione in relazione agli artt. 2 e 3. Osservazioni
La sentenza in commento, non definitiva e non unanime (allegati ad essa vi sono i pareri parzialmente dissenzienti di due componenti del Collegio giudicante), ha riscosso ampio consenso tra molti di coloro che seguono l'attività giurisdizionale della Corte Edu ma vi è da chiedersi se tutti l'abbiano effettivamente esaminata nella sua integralità. A dire il vero la decisione, seppure per certi versi condivisibile, ad una analisi approfondita desta qualche perplessità, come trapela dai commenti degli osservatori più attenti. Si rileva infatti che anche dalla lettura delle opinioni a corredo della decisione, emerge la delicatezza delle vicende che ruotano attorno alla protezione di diritti fondamentali, quali la vita e l'integrità fisica e che vedono contrapposti i diritti, parimenti fondamentali, dei soggetti che sono accusati di compiere condotte aggressive nei confronti dei beni appena ricordati, protetti dagli artt. 5 e 8 della Cedu. Il giusto equilibrio fra siffatti interessi passa attraverso una non agevole verifica iniziale del rischio di aggressione e della sua prevedibilità compiuta dallo Stato in tutte le sue articolazioni, siano esse amministrative che giudiziarie, ma anche dell'efficacia delle misure che avrebbero potuto impedire l'evento dannoso (CONTI, Violenze in danno di soggetti vulnerabili, tra obblighi (secondari) di protezione e divieto di discriminazione di genere, Corte Edu, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, ric. n.41237/14 (non definitiva), in questionegiustizia.it). Costituisce principio consolidato della Corte Edu (cfr. Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95; Gongadzè c. Ucraina, n. 34056/02), preliminarmente affermato anche nella sentenza in esame (salvo poi non trarne fino in fondo le conseguenze), che non ogni minaccia presunta contro la vita può obbligare le autorità – ai sensi della Convenzione – ad adottare misure concrete per prevenirne la realizzazione. Bisogna inoltre avere la certezza che le autorità sappiano o avrebbero dovuto sapere il momento preciso in cui la vita di un dato individuo è minacciata in maniera reale ed immediata da parte di un terzo, e che – ciò nonostante – non abbiano adottato, nell'ambito dei propri poteri, le misure idonee ad evitare il rischio. Ciò premesso e passando al caso concreto, vi erano stati, è vero, nei mesi precedenti al duplice delitto, due episodi di violenza nei confronti della ricorrente, dei quali solo l'ultimo denunciato formalmente ma in seguito la donna era andata via di casa, si era rifugiata in una struttura di accoglienza e aveva trovato anche lavoro come badante. Può convenirsi che il periodo trascorso dalla denuncia – pari a circa sette mesi - prima che la polizia effettivamente desse corso alle indagini delegate dal P.M., sia un tempo lungo; tuttavia in tale periodo non vi sono state altre denunce, né risultano episodi di violenza ai danni della donna o dei suoi congiunti. Piuttosto, non si può trascurare in maniera così evidente come fa la Corte che, quando è stata interrogata, nell'aprile 2013, la ricorrente ha ridimensionato notevolmente le accuse, addirittura dichiarando di non essersi saputa spiegare all'epoca della denuncia in quanto straniera. Ha anche aggiunto che non vi erano stati più incidenti e che il marito era tranquillo, sicchè le accuse per maltrattamenti e minacce erano state archiviate, e non risulta che sia stata proposta opposizione. Premesso il contesto su descritto, era davvero prevedibile che sette mesi dopo, nel novembre 2013, il moldavo avrebbe tentato di uccidere la moglie, uccidendo anche il figlio che cercava di proteggerla? Sarebbe stato legittimo – ai sensi degli artt. 273 e 274 del codice di procedura penale ma anche degli artt. 7 ed 8 della Convenzione - applicare a tale soggetto misure coercitive a distanza di sette mesi da fatti parzialmente archiviati? Domande alle quali la Corte non sembra dare una risposta convincente. Neppure sembra convincente la decisione in commento, quando si contesta alle autorità italiane di non aver adottato misure idonee a salvaguardare l'incolumità della ricorrente e di suo figlio la sera del delitto: è il 25 novembre 2013, ed è trascorso ormai più di un anno dall'originaria denuncia, tempo durante il quale non vi sono state più segnalazioni di alcun tipo da parte della donna nei confronti del marito e, anzi, vi è stata una sostanziale ritrattazione delle originarie accuse. La polizia interviene a casa della donna, trovando la porta della camera da letto rotta e la stanza disseminata di bottiglie di alcolici; ma anche in tal caso la ricorrente non denuncia alcunchè, anzi: con gli operanti ammette di avere in passato accusato il marito, ma di avere poi modificato le accuse, e nella circostanza si limita a chiedere l'intervento di un dottore. Il figlio della coppia, presente, aggiunge che il padre non è violento nei suoi confronti. Entrambi – madre e figlio – non presentano segni di violenza sul corpo, cosicchè gli operanti si limitano a disporre il trasporto del moldavo in ospedale. In tale situazione non pare vi fossero i presupposti giuridici per l'adozione di qualsivoglia misura precautelare nei confronti dell'uomo (arresto, fermo, allontanamento d'urgenza dalla casa familiare), e ciò sia alla stregua dell'ordinamento interno che della Convenzione (cfr. art. 7), mancando il fumus commissi delicti di una ben determinata fattispecie criminosa. D'altronde, una forma di allontanamento comunque è stata posta in essere, con il trasferimento del moldavo in ospedale. Da qui l'uomo si allontana volontariamente, probabilmente senza essere visto, uscendo in strada e girovagando fino alle 2 del mattino, quando viene fermato e controllato dalla P.G., ancora ubriaco. Anche in tale occasione, nonostante l'opinione della Corte, non pare vi fossero i presupposti giuridici per l'adozione di una misura precautelare, tale da impedire all'uomo il rientro a casa; né poteva prevedersi – solo perché più di un anno prima aveva malmenato la moglie – che poche ore dopo il controllo avrebbe tentato di ucciderla, e avrebbe ucciso il figlio. Piuttosto, vale la pena di ricordare che il legislatore italiano ha fatto grandi passi avanti nella tutela dei c.d. soggetti vulnerabili, ed in particolare delle donne vittime di violenze domestiche; certo, molto altro ancora si può e si deve fare, non tanto sul piano repressivo, quanto sul piano educativo e della sensibilizzazione sociale. A tal riguardo, forse andrebbero educate e sensibilizzate le stesse donne, affinchè utilizzino pienamente gli strumenti che lo Stato mette a loro disposizione, denuncino i soprusi di cui sono vittime e soprattutto non ritrattino, come purtroppo molte volte fanno, e non sempre e non necessariamente si tratta di ritrattazioni dettate dalla paura di ritorsioni. Val la pena di ricordare come proprio la Corte di Strasburgo, nella sentenza Rumor c. Italia del 27 maggio 2014, riguardante un grave caso di stalking, abbia affermato che la ricorrente, non denunciando alcuni episodi di cui era stata vittima, aveva negato alle autorità l'opportunità di intervenire. La sentenza in commento si inserisce nel solco tracciato da quella del caso Opuz c. Turchia (sentenza 9 giugno 2009), in cui la Corte Edu ha condannato lo Stato turco per violazione degli artt. 2, 3 e 14 della Convenzione; ed infatti i giudici del caso Talpis citano più volte come punto di riferimento quella storica decisione, quasi a porre un parallelismo tra Turchia e Italia, quali esempi di Paesi che non si impegnano a fondo nella tutela dei soggetti vulnerabili, ed in cui persistono atteggiamenti discriminatori di genere. Ma a ben vedere, le due vicende sono molto diverse: nel caso Opuz era stato accertato che, a partire dal matrimonio, il marito aveva posto in essere nei confronti della moglie e della suocera un regolare ed intenso abuso con attacchi fisici, pugnalate con un coltello, investimenti con l'automobile e continue minacce di morte. Sia la madre che la figlia avevano più volte sporto querela all'ufficio del procuratore locale, che inizialmente aveva anche incriminato l'uomo, ma successivamente le donne avevano ritirato le querele per timore di rappresaglie, cosicché le accuse erano state archiviate. In seguito, questi aveva ucciso la suocera con una pistola e, condannato all'ergastolo, aveva ottenuto la riduzione della pena a quindici anni per il buon comportamento durante il processo, riuscendo infine a tornare libero. Anche nel caso di Remanzacco l'omicida è stato condannato all'ergastolo ma la buona notizia è che la condanna è stata confermata anche in appello e l'uomo si trova tutt'ora in carcere. |