La vicenda Abu Omar, il segreto di Stato, la condanna dell'Italia a Strasburgo
07 Marzo 2016
Osama Mustafa Hassan Nasr (noto come Abu Omar) ricorre a Strasburgo in relazione alla vicenda processuale connessa alla sua extrajudicial transfer (or “extraordinary rendition”) da parte di agenti della Cia, con la collaborazione di ufficiali italiani; con lui propone ricorso anche la signora Ghali, moglie di Abu Omar. In estrema sintesi (trattandosi di vicenda notissima), l'iman Nasr, ritenuto dal governo egiziano facente parte di un gruppo terroristico, si stabilì a Milano (2000), dove ottenne asilo politico e si sposò con una connazionale. In seguito (2013) i giudici milanesi lo riconobbero come componente di una organizzazione terroristica, così nel febbraio del 2013, a Milano, il sig. Nasr venne prelevato dagli agenti della Cia e trasferito dalla base di Aviano a Ramstein in Egitto dove fu segretamente detenuto (in celle meschine) e interrogato (con modalità vessatorie). A seguito della denuncia, da parte della moglie, della sua scomparsa, a Milano si avviò un procedimento penale. Furono, inizialmente, accusati del fatto il Capo all'epoca della Cia a Milano, alcuni agenti dei servizi americani, membri del corpo diplomatico statunitense e successivamente alcuni ufficiali del Sismi, stante il loro ritenuto coinvolgimento a supporto dell'operazione. Alla vicenda è stato però più volte apposto il segreto di Stato e sul conflitto tra poteri è intervenuta due volte la Corte costituzionale. Nel merito sono stati condannati alcuni imputati statunitensi (non estradati) ed alcuni italiani ma le condanne al risarcimento non hanno avuto seguito. Recentemente il Capo dello Stato ha concesso la grazia ad alcuni condannati americani. La vicenda si è chiusa con la sentenza della Cassazione che ha dichiarato non doversi procedere per l'esistenza del segreto di Stato. I signori Nasr e Ghali deducono – rispettivamente – la violazione degli artt. 3, 5, 8, 13 Cedu. La Corte accoglie i loro ricorsi. In particolare, i giudici di Strasburgo con riferimento alle indagini ed al processo, in relazione cioè alla dedotta violazione dell'art. 3 Cedu, mettono in luce la posizione delle istituzioni italiane evidenziatasi con l'apposizione del segreto di Stato (a fronte di elementi probatori conosciuti e diffusi a molti livelli) e con l'atteggiamento tollerante e accondiscendente nei confronti degli incolpati soprattutto degli stranieri (mancato inoltro dei mandati di arresto; nessuna richiesta di estradizione; provvedimento di grazia). Sempre con riferimento all'art. 3 Cedu, i giudici sovranazionali affermano che le modalità della detenzione in Egitto di Nasr hanno configurato trattamenti inumani e degradanti, con ricadute anche sulla condizione del coniuge. Risultano parimenti violate le previsioni di cui all'art. 5 Cedu in relazione al diritto alla libertà ed alla sicurezza, pure in considerazione della consapevolezza, da parte italiana, del significato dell'attività di extraordinary rendition che si stava mettendo in atto. Dalla riferita attività esce pregiudicato – sia per Nasr, sia per Ghali – il diritto al rispetto della vita privata e di quella familiare garantite dall'art. 8 Cedu. Coordinando le considerazioni svolte, relativamente alle violazioni di cui agli artt. 3, 5 e 8 Cedu, in relazione a quanto previsto dall'art. 13 Cedu, la Corte europea ritiene che le indagini di polizia, quelle dell'autorità inquirente e quelle dei giudici siano state pregiudicate nella loro effettività dall'apposizione del segreto di Stato, così da impedire ai ricorrenti di veder riconosciute la responsabilità e la punizione dei colpevoli, ristabilire la verità ed ottenere i giusti indennizzi. L'insieme dei suddetti elementi, a giudizio della Corte, sono sufficienti per assorbire eventuali violazioni dell'art. 6 Cedu, in relazione alla necessità di garantire ai ricorrenti un giusto processo. Sulla scorta di queste considerazioni l'Italia è condannata ex art. 41 Cedu a corrispondere 70.000 euro a Mr. Nasr e 15.000 a Mrs. Ghali a titolo di equa soddisfazione. Il punto centrale della decisione è costituito, al di là delle ricadute sui denunciati profili connessi alle modalità ed alle implicazioni della rendition – che, sicuramente, riverberano i loro effetti sulla questione principale – dal problema, o piuttosto, dai limiti del segreto di Stato. Ora, il segreto di Stato costituisce – di per sé – lo strumento più elevato di preclusione all'accertamento penale. Per questa ragione, il sistema italiano lo disciplina in termini di garanzia democratica, nella misura in cui appare finalizzato non a coprire segreti ma piuttosto a garantire l'essenza dello Stato e delle sue istituzioni e dei suoi rapporti internazionali. A ulteriore rafforzamento delle garanzie dell'intero ordinamento è previsto che spetti alla Corte costituzionale non solo farsi arbitro dei conflitti tra poteri dello Stato ma costituirsi quale giudice del segreto di Stato. La verità non preesiste al processo ma è il suo risultato. Pertanto, in termini generali, è difficile affermare l'esistenza d'una verità che non si è potuto accertare nel processo. Quando il segreto potrà essere tolto, si potrebbe accertare più concretamente l'accaduto in tutti i suoi aspetti. In ogni caso, nei limiti non coperti dal segreto, alcune responsabilità sono state penalmente accertate ed alcuni imputati condannati. È facile osservare come la decisione lasci sullo sfondo il contesto nel quale le situazioni de quibus si collochino storicamente, senza che tutto ciò possa giustificare, per le democrazie, comportamenti atti a ledere i diritti insopprimibili di ogni persona. |