L'inderogabilità del divieto di tortura. La Corte Edu torna sui fatti della scuola ''Diaz-Pertini''
06 Ottobre 2017
Massima
L'articolo 3 Cedu, Divieto di tortura, sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, è un assoluto e inalienabile diritto strettamente legato al rispetto della dignità umana che non prevede restrizioni e, ai sensi dell'articolo 15 § 2, Cedu non subisce alcuna deroga. Il trattamento subito dai ricorrenti all'interno della scuola Diaz-Pertini dovrebbe essere considerato come atti di tortura. Il caso
La notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, vari reparti speciali di polizia – per un totale di circa 500 agenti operanti – compivano un'irruzione nel plesso scolastico “Diaz-Pertini” (che ospitava decine di appartenenti all'associazione Genova Social Forum, autorizzati dal Comune di Genova a pernottare all'interno della scuola) e nell'adiacente plesso scolastico “Diaz-Pascoli” (che ospitava giornalisti e avvocati della medesima associazione). L'irruzione era stata pretestuosamente giustificata dalla necessità di procedere a perquisizione per raccogliere elementi di prova contro i c.d. black-block. Nel corso dell'operazione, le forze di polizia – dotate, fra l'altro, di manganelli di tipo “tonfa” (potenzialmente letali) – facevano un uso sproporzionato della forza, colpendo deliberatamente gli occupanti le scuole (molti dei quali sorpresi nel sonno) e distruggendo il materiale informatico dei giornalisti e degli avvocati. In particolare, il ricorrente veniva brutalmente percosso e subiva numerose, gravi lesioni, che ne hanno comportato una parziale invalidità permanente. Tutti coloro che si trovavano nella scuola “Diaz-Pertini” venivano arrestati e condotti in strutture sanitarie o presso la caserma di Bolzaneto. Il 22 luglio la polizia mostrava ai giornalisti gli oggetti che sarebbe stati rinvenuti nel corso della perquisizione: tra l'altro, due bottiglie molotov. Su tali fatti la procura della Repubblica di Genova apriva immediatamente un procedimento penale: dopo tre anni di complesse indagini, nel 2004 veniva esercitata l'azione penale contro ventotto imputati (dirigenti, funzionari e agenti di polizia) per numerosi delitti, fra cui falso ideologico, calunnia, abuso d'ufficio (in relazione agli arresti compiuti illegalmente), lesioni dolose e porto illegale di armi da guerra; nell'udienza preliminare il ricorrente si costituiva parte civile. L'11 febbraio 2009, con la sentenza n. 4252/2008, il tribunale di Genova condannò dodici degli imputati a pene comprese tra due e quattro anni di reclusione e, in solido con il Ministero dell'Interno, al pagamento delle spese e al versamento del risarcimento danni alle parti civili, alle quali il tribunale accordò delle provvisionali comprese tra i 2.500 e i 50.000 euro. Nella motivazione della sentenza, il tribunale prese in considerazione il fatto considerò che le forze dell'ordine, alla luce degli eventi che avevano preceduto l'irruzione, avessero potuto ritenere, che la scuola Diaz-Pertini ospitasse anche dei black block. Tuttavia il tribunale ritenne che gli eventi controversi costituissero una violazione chiara della legge e, al tempo stesso, di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone. Inoltre, a parere del Tribunale gli autori materiali avevano agito con la convinzione che i loro superiori tollerassero gli atti da loro commessi perché alcuni funzionari e dirigenti della polizia, presenti sui luoghi sin dall'inizio delle operazioni, non avevano immediatamente impedito la prosecuzione delle violenze. Il 31 luglio 2010, la Corte d'Appello di Genova, con la sentenza n. 1530/2010, riformò parzialmente la sentenza impugnata. In particolare, poiché era scaduto il termine di prescrizione, la Corte d'Appello dichiarò non doversi procedere per i delitti di calunnia aggravata (quattordici imputati), di abuso di ufficio per l'arresto illegale degli occupanti della scuola Diaz-Pertini (dodici imputati) e di lesioni semplici (nove imputati).Secondo la Corte d'Appello, molti elementi dimostravano che lo scopo principale di tutta l'operazione era quello di eseguire numerosi arresti, anche in assenza di finalità di ordine giudiziario, in quanto era essenziale porre rimedio all'immagine mediatica di una polizia percepita come impotente. I più alti funzionari delle forze dell'ordine avrebbero dunque radunato attorno al VII Nucleo antisommossa una unità armata pesantemente dotata di manganelli di tipo tonfa i cui colpi potevano essere mortali, e avrebbero dato come unica istruzione quella di neutralizzare gli occupanti della scuola Diaz-Pertini, stigmatizzando questi ultimi come pericolosi teppisti, autori dei saccheggi dei giorni precedenti. Così, secondo la Corte d'Appello, tutti i funzionari a capo e i dirigenti del VII Nucleo antisommossa erano colpevoli delle lesioni inflitte agli occupanti. Nella determinazione delle pene da infliggere, la Corte d'Appello, basandosi soprattutto sulle dichiarazioni raccolte, sottolineò che gli agenti delle forze dell'ordine si erano trasformati in «picchiatori violenti», indifferenti a qualsiasi vulnerabilità fisica legata al sesso e all'età come pure a qualsiasi segno di capitolazione, anche da parte di persone che erano state svegliate bruscamente dal rumore dell'attacco. La Corte d'Appello indicò che a tutto ciò gli agenti avevano aggiunto ingiurie e minacce. Così facendo, essi avrebbero gettato sull'Italia il discredito dell'opinione pubblica internazionale. Per di più, dopo aver commesso le violenze, le forze dell'ordine avrebbero riportato tutta una serie di circostanze a carico degli occupanti non veritiere. Con la sentenza n. 38085 del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012, la Corte di Cassazione confermò essenzialmente la sentenza impugnata, dichiarando tuttavia prescritto il delitto di lesioni aggravate). Essa osservò che – come constatato dalle decisioni di primo e secondo grado e come, peraltro, non sarebbe mai stato contestato – «le violenze perpetrate dalla polizia nel corso dell'intervento presso la scuola Diaz-Pertini erano state di una gravità inusitata» e «assoluta». Tale gravità risiederebbe nel fatto che queste violenze generalizzate, commesse in tutti i locali della scuola, si erano scatenate contro persone palesemente disarmate, dormienti o sedute con le mani alzate. Per la Corte di Cassazione queste violenze potevano definirsi «tortura» secondo la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, oppure «trattamenti inumani o degradanti» secondo l'articolo 3 della Convenzione. Tuttavia, mancando un reato ad hoc nell'ordinamento giuridico italiano, le violenze in causa erano state perseguite come delitti di lesioni personali semplici o aggravate in relazione alle quali, in applicazione dell'articolo 157 del codice penale, era intervenuta la prescrizione nel corso del procedimento. Avverso tale decisione le parti civili facevano ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo lamentano di avere subito dei maltrattamenti in occasione dell'irruzione degli agenti all'interno della scuola Diaz-Pertini, e di essere stati oggetto di una violenza sproporzionata e ingiustificata che definiscono tortura o trattamenti inumani e degradanti. I ricorrenti lamentavano anche l'esito del procedimento penale per vari motivi. In particolare, contestano la mancata identificazione della maggior parte degli autori materiali dei fatti di violenza e criticavano le conseguenze dell'assenza del reato di tortura nell'ordinamento penale nazionale e soprattutto quelle dell'applicazione della prescrizione ai reati ascritti agli imputati, che avrebbero impedito alle autorità giudiziarie di giungere al riconoscimento espresso e sostanziale della violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Essi sostennero inoltre che, malgrado la sentenza Cestaro, il Legislatore italiano non aveva ancora adottato il disegno di legge volto a introdurre nell'ordinamento giuridico nazionale le disposizioni che puniscono questo tipo di reati. La Corte osservava che la pianificazione dell'operazione di polizia si è limitata a prevedere in maniera generale la sequenza delle fasi operative (“messa in sicurezza” e perquisizione propriamente detta) senza tuttavia precisare in dettaglio le modalità dell'eventuale uso della forza. In particolare, essa osservava che gli agenti di questa unità erano arrivati sui luoghi di corsa e in tenuta antisommossa, muniti di caschi, scudi e manganelli tipo tonfa. La polizia aveva fatto irruzione nel recinto della scuola sfondando il cancello di ingresso con un mezzo blindato. Le porte di ingresso erano state rapidamente forzate e, una volta all'interno, gli agenti avevano fatto un uso indiscriminato, sistematico e sproporzionato della forza. La Corte riteneva che questi elementi evidenziavano le lacune della pianificazione dell'operazione di polizia. Le forze dell'ordine non si trovavano di fronte a una situazione di urgenza, a una minaccia immediata che impedisse di prevedere un intervento adeguato, adatto al contesto e proporzionato alle potenziali minacce. La Corte titeneva che gli alti responsabili avevano la possibilità di pianificare l'intervento della polizia, di analizzare tutte le informazioni disponibili e di tenere conto della situazione di tensione e di stress alla quale gli agenti di polizia erano sottoposti da quarantotto ore. La Corte sottolineava in particolare il fatto che, nonostante la presenza, a Genova, di funzionari esperti che facevano parte dell'alta gerarchia della polizia, non è stata data alcuna direttiva specifica sull'uso della forza e non è stata impartita alcuna istruzione agli agenti su questo aspetto decisivo. Per quanto riguarda gli atti di violenza subiti dai ricorrenti, la Corte ha tenuto a sottolineare che le aggressioni inflitte a ciascun individuo lo sono state in un contesto generale di uso eccessivo, indiscriminato e manifestamente sproporzionato della forza. Infatti, i ricorrenti sono stati vittime e nello stesso tempo testimoni di un uso incontrollato della violenza da parte della polizia, dato che gli agenti hanno riempito di botte in maniera sistematica ciascuno degli occupanti, compresi quelli distesi a terra o seduti con le mani alzate. La Corte rammentava a questo proposito che gli occupanti della scuola non hanno commesso alcun atto di violenza né di resistenza nei confronti delle forze dell'ordine. Per quanto riguarda i racconti individuali, la Corte non poteva che constatare la gravità dei fatti descritti dai ricorrenti e confermati dai tribunali nazionali. Ciascuno dei ricorrenti è stato colpito in maniera violenta, la maggior parte ha ricevuto manganellate, calci e pugni e, in alcuni casi, sono stati gettati mobili contro di loro. I colpi ricevuti hanno provocato ematomi, ferite e, in alcuni casi, gravi fratture che hanno lasciato conseguenze fisiche permanenti. Considerati tutti gli elementi sopra esposti, la Corte ha ritenuto che gli atti di violenza commessi nei confronti dei ricorrenti abbiano provocato sofferenze fisiche e psicologiche «acute», e che gli stessi siano di natura particolarmente grave e crudele. Pertanto, la Corte concludeva che i trattamenti subiti dai ricorrenti all'interno della scuola Diaz-Pertini debbano essere considerati atti di tortura. Vi è stata dunque violazione dell'elemento materiale dell'articolo 3 della Convenzione. La questione
Con la sentenza resa il 22 giugno 2017 nel caso Bartesaghi Gallo e altri c. Italia (ricorsi nn. 12131/13 e 43390/13) la Corte europea dei diritti dell'uomo ha nuovamente condannato il nostro Paese per la violazione dell'articolo 3 Cedu in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia italiane in occasione del G8 che si è svolto a Genova nel 2001 e, in particolare, durante l'irruzione nella scuola Diaz-Pertini avvenuta la notte del 21 luglio 2001. I giudici della Corte europea hanno riconosciuto all'unanimità la violazione dell'art. 3 Cedu, sia sul versante sostanziale che sul versante procedurale, condannando l'Italia al risarcimento dei danni nei confronti dei ricorrenti. La Corte ha affermato che il trattamento al quale furono sottoposti i 42 ricorrenti deve essere considerato vera e propria tortura, in considerazione della sua natura particolarmente grave e crudele e dell'acuta sofferenza fisica e psichica causata alle vittime. I ricorrenti, infatti, sono stati sia vittime che testimoni della violenza incontrollata della polizia, che si è scagliata sistematicamente nei confronti degli occupanti della scuola Diaz, i quali non avevano commesso alcun atto di violenza o di resistenza. Tanto sul fronte sostanziale, quanto su quello procedurale, la Corte ha interamente richiamato e confermato le statuizioni già espresse nell'affaire Cestaro c. Italia (Corte Edu, sent. 7 aprile 2015, ric. n. 6884/11), sul quale relativo ai medesimi fatti avvenuti durante il blitz alla Diaz, ivi comprese quelle relative all'inadeguatezza dell'ordinamento italiano per quanto attiene alla repressione della tortura. Le soluzioni giuridiche
La Corte europea nella sua decisione ha confermato la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) che proibisce la tortura e i trattamenti disumani o degradanti per gli atti perpetrati dalle forze dell'ordine nelle scuole Diaz e Pascoli. La Corte ha anche condannato l'Italia per non aver punito in modo adeguato i responsabili di quanto accaduto a Genova. Secondo la Corte, infatti, la legislazione italiana è risultata inadeguata a punire e quindi prevenire gli atti di tortura commessi. L'Italia era già stata condannata per le stesse violazioni con la sentenza del 7 aprile 2015 nell'ambito dell'omologo caso Cestaro (n. 6884/11). Osservazioni
Con l'entrata in vigore della legge 110/2017, Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano, sono stati inseriti nel codice penale, tra i delitti contro la libertà morale dell'individuo, l'art. 613-bis c.p. (Tortura) e l'art. 613-ter c.p. (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura), fattispecie ad hoc destinate rispettivamente a punire e prevenire tali condotte. L'introduzione di tali fattispecie ha destato però non poche perplessità e critiche per come le tipologie di reati sono state congegnate ed in particolare perché la definizione Onu di tortura appare essere stata del tutto disattesa dal legislatore italiano. Ciò a motivo dell'utilizzo del termine crudeltà inserito all'interno dell'art. 613-bis c.p., del tutto generico. Perplessità inoltre sono state sollevate in ordine alla necessità che la tortura venisse inquadrata tra i reati commessi dal pubblico ufficiale invece è stata congegnata quale reato comune e dunque realizzabile da chiunque. Ed ancora la norma prevede che accanto alla crudeltà il reato debba essere compiuto mediante condotte atte a provocare un verificabile trauma psichico. Ebbene anche relativamente a quest'ultimo dato appare chiaro che circoscrivere l'ipotesi della tortura mentale al trauma psichico verificabile risulta essere inaccettabile per chiunque abbia un minimo di conoscenza sociologica del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo. |