Cannabis light: i principi di diritto affermati dalle Sezioni unite alla prova della quotidiana applicazione pratica
04 Febbraio 2021
Massima
La commercializzazione e la detenzione finalizzata alla cessione a terzi dei derivati della cannabis sativa integrano l'elemento materiale del delitto di cui all'art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990, sol che si accerti l'effettiva capacità drogante della sostanza. L'elemento soggettivo del reato, nelle forme del dolo generico, può essere escluso – soprattutto in relazione alle condotte tenute subito dopo l'entrata in vigore della l. n. 242/2016 – ove possa ritenersi dimostrato che l'agente è stato condizionato dall'ambiguità del quadro normativo e dai contrastanti provvedimenti dell'Autorità giudiziaria legati a differenti interpretazioni della legge, tali da aver reso necessario l'intervento delle Sezioni unite. Il caso
Il signor C. ed il signor N., all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 242/2016, avviavano in Ancona un esercizio commerciale per la vendita di derivati della cd. cannabis light. Il 21 giugno 2018 la polizia giudiziaria, all'esito di una perquisizione, rinveniva e sottoponeva a sequestro circa 13 chilogrammi di foglie ed infiorescenze di marijuana che, come accertato a mezzo di consulenza tossicologica, esibivano una percentuale di THC compresa tra lo 0,3% e lo 0,7%. Il Tribunale del riesame, adito dagli indagati, restituiva loro tutti i reperti in sequestro aventi percentuale di THC inferiore allo 0,6%, ritenendone la libera commerciabilità ai sensi della l. n. 242/2016. Il provvedimento veniva impugnato dal Procuratore della Repubblica di Ancona, il cui ricorso per cassazione veniva devoluto all'esame del massimo consesso nomofilattico. Le Sezioni unite, con la sentenza 30 maggio 2019, n. 30475, Castignani, statuivano che “ogni condotta di cessione o di commercializzazione di categorie di prodotti, ricavati dalla coltivazione agroindustriale della cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, diversi da quelli tassativamente indicati dalla l. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, da un lato è estranea dall'ambito di operatività della predetta legge, dall'altro integra una attività illecita, secondo la generale disciplina contenuta nel T.U. stup.”. A seguito di esercizio dell'azione penale, gli imputati chiedevano di essere giudicati con rito abbreviato “secco”, venendo infine assolti dal delitto di cui all'art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990, ai sensi del capoverso dell'art. 530 c. p. p., perché il fatto non costituisce reato. Analogo esercizio commerciale veniva avviato dal signor C. in Macerata: tra l'aprile ed il maggio del 2018 la polizia giudiziaria accertava che cinque clienti avevano acquistato confezioni contenenti infiorescenze di marijuana con principio attivo compreso tra lo 0,5% e lo 0,7%. Nonostante l'esito favorevole della vicenda cautelare (il provvedimento di rigetto del Tribunale del riesame veniva annullato senza rinvio dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 4920/2019), l'imputato, giudicato nelle forme del rito abbreviato, riportava, all'esito del giudizio di primo grado, condanna per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. La questione
La seconda tabella delle sostanze stupefacenti, piuttosto che indicare il principio attivo tipico delle droghe “leggere” (il tetraidrocannabinolo, comunemente detto THC), menziona esclusivamente la cannabis, ossia la pianta dalla quale si ricava lo stupefacente, elencandone i principali derivati (olio, resina, foglie e infiorescenze). Dunque, poiché l'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 incrimina la coltivazione di piante dalle quali possono trarsi sostanze stupefacenti, e poiché la cannabis è indicata nella seconda tabella allegata al Testo Unico, ogni coltivazione di quella pianta dovrebbe avere rilevanza penale. Non è così. La cannabis, pianta arbustiva o erbacea a ciclo annuale, sviluppa un fusto centrale caratterizzato da una corteccia fibrosa, che, a seconda delle varietà, può raggiungere dai 50 centimetri ai 5 metri di altezza; nel 1753 il botanico svedese Carl Nilsson Linnaeus, padre della moderna catalogazione scientifica degli organismi viventi, la classificò sotto un'unica specie, denominata cannabis sativa; nel 1785 il botanico Jean-Baptiste de Lamarck ne distinse due differenti specie, la cannabis sativa e la cannabis indica; successivamente ne fu individuata una terza specie, la cannabis ruderalis. Ogni pianta di cannabis produce tetraidrocannabinolo, consentendo, quindi, di ricavare sostanza stupefacente che è possibile destinare al consumo mediante fumo o inalazione; nonostante non vi siano grosse differenze da un punto di vista morfologico tra le diverse specie vegetali, nelle piante di cannabis indica la concentrazione di THC è sensibilmente più elevata: esse, pertanto, vengono coltivate al precipuo scopo di ricavarne sostanze stupefacenti; invece, le principali varietà di cannabis sativa producono una spernibile quantità di THC ed una più rilevante quantità di cannabidiolo (che non ha capacità psicoattive, non legandosi ai recettori cannabinoidi CB1 e CB2, ma è comunque in grado di incidere su altri target quali canali ionici, recettori ed enzimi: ai suoi potenziali effetti antinfiammatorio, analgesico, anti nausea, antiemetico, antipsicotico, anti ischemico, ansiolitico ed antiepilettico è, dunque, connesso l'uso terapeutico di alcune varietà di cannabis, in via generale permesso dall'art. 72 cpv. d.P.R. n. 309/1990). Da secoli la cannabis sativa viene coltivata per ricavare la fibra della canapa, prodotto di grande valore nella filiera agroindustriale: tradizionalmente utilizzata - per la sua particolare consistenza, molto robusta - per fabbricare cordami e tessuti pesanti di ogni tipo (ad es. vele e gomene delle imbarcazioni), la canapa consente di ricavare diversi semilavorati (fibra lunga, fibra corta, canapulo), idonei alla realizzazione di numerosiprodotti finali (tessuti per abbigliamento, lenzuola, tovaglie, tende, tappeti, borse e sacchi; carta; corde; teli per dipingere; pannelli isolanti; materiale inerte per edilizia; olio alimentare; olio lubrificante; cosmetici; saponi; vernici; resine). La coltivazione della canapa a fini industriali non ha mai smesso di essere praticata, tanto che da decenni a livello comunitario essa è addirittura incentivata. La direttiva 2002/53/CE del 13 giugno 2002 del Consiglio dell'Unione Europea, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole le cui sementi o i cui materiali di moltiplicazione possono essere liberamente commercializzati,prevede, invero, all'art. 17 che “conformemente alle informazioni fornite dagli Stati membri e via via che esse le pervengono, la Commissione provvede a pubblicare nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, serie C, sotto la designazione Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, tutte le varietà le cui sementi e materiali di moltiplicazione, ai sensi dell'articolo 16, non sono soggetti ad alcuna restrizione di commercializzazione per quanto concerne la varietà nonché le indicazioni di cui all'articolo 9, paragrafo 1, relative al responsabile o ai responsabili della selezione conservatrice”. Il Catalogo comune, pubblicato in conformità alle disposizioni dell'appena citato art. 17 (cfr., da ultimo, la trentasettesima edizione integrale, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea n. 13 dell'11 gennaio 2019), prevede – tra le varietà “le cui sementi .. non sono soggette nello spazio economico europeo ad alcuna restrizione di commercializzazione” – circa sessanta varietà della pianta della cannabis sativa L, tra le quali quelle più diffuse in Italia (Carma, Carmagnola, Carmaleonte, Codimono, Eletta Campana, Fibranova, Tiborszallasi). Il Regolamento UE 1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013,recante “norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune”, prevede incentivi economici per le superfici utilizzate per la produzione di canapa, nel caso in cui siano utilizzate sementi inserite nel Catalogo, ma“solo se il tenore di tetraidrocannabinolo delle varietà coltivate non superi lo 0,2%” (art. 32, ultimo comma). In Italia, come può leggersi nella relazione che accompagna la proposta di legge d'iniziativa parlamentare poi sfociata nella l. n. 242/2016, “la coltivazione della canapa da fibra e la sua lavorazione sono state in passato una delle voci principali dell'economia di vaste aree di alcune regioni d'Italia. Su scala economicamente significativa la coltura è cessata verso la fine degli anni cinquanta soprattutto a causa della pesantissima intensità di lavoro richiesta dalla sua coltivazione e lavorazione e con l'arrivo dagli Stati Uniti d'America del cotone e delle fibre sintetiche, meno costosi e più moderni”. A ciò si è poi aggiunto l'inasprimento della legislazione nazionale, che ha di fatto determinato il quasi totale azzeramento della produzione nazionale (a fronte degli 80.000 ettari stimati nell'anno 1919, oggi, secondo le più recenti stime della Coldiretti, ci sono circa 4.000 ettari coltivati a canapa): ed invero, nonostante le vecchie tabelle delle sostanze stupefacenti facessero riferimento solo alla cannabis indica, non si è mai dubitato in giurisprudenza della incriminabilità della coltivazione di qualsivoglia varietà di cannabis dalla cui pianta fosse possibile ricavare sostanza stupefacente (cfr. Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2013, n. 10618). Nella loro attuale formulazione, le tabelle effettuano un generico - e quindi omnicomprensivo - riferimento alla pianta della cannabis, poiché la l. n. 79/2014, nel riscriverle, ha eliminato la qualificazione indica fino a quel momento contemplata. Tuttavia, la stessa legge del 2014 ha rimodellato l'art. 26 del Testo Unico - che nella sua originaria formulazione vietava (salvi i casi di autorizzazione concessa dal Ministro della Salute, “per scopi scientifici, sperimentali o didattici”, ad “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca”) “la coltivazione di piante di coca di qualsiasi specie, di piante di canapa indiana, di funghi allucinogeni e delle specie di papavero (papaver somniferum) da cui si ricava oppio grezzo” - consentendo espressamente, previa autorizzazione, la coltivazione “della canapa” finalizzata alla “produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'articolo 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea”. La completa armonizzazione della legislazione interna al quadro comunitario si è, poco dopo, realizzata con l'approvazione della legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, che – come può leggersi nel suo primo articolo (“finalità”) – introduce “norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione”. L'articolo 2 (“liceità della coltivazione”) consente, senza più la necessità dell'autorizzazione già richiesta dagli articoli 26 e 27 del Testo Unico, la coltivazione delle varietà di canapa elencate nel Catalogo comune del quale si è innanzi detto (varietà che, come chiarisce il capoverso dell'articolo 1, “non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope”). Degne di nota, ai fini che qui rilevano, sono le disposizioni previste:
a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo;
Il quinto comma dell'art. 4, probabile fonte di innesco dei problemi interpretativi dei quali si sta per dire, prevede testualmente che “qualora all'esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell'agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge”; il quadro è poi completato dal settimo comma dell'art. 4, in base al quale “il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall'autorità giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento. Nel caso di cui al presente comma è esclusa la responsabilità dell'agricoltore”.
Dunque, riassumendo: chi intenda coltivare piante di cannabis sativa L,ricomprese tra quelle elencate dal Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, non deve richiedere alcuna autorizzazione, né deve comunicare alcunché alla polizia giudiziaria, ma deve necessariamente conservare le fatture di acquisto ed i cartellini dei semi comperati e poi messi a dimora; il prodotto della coltivazione può essere impiegato esclusivamente per uno degli usi indicati dall'art. 2;i controlli devono essere effettuati rispettando modi e forme prescritti dalla normativa comunitaria e dall'art. 4, sesto comma, l. n. 242/2016; se si accerta il superamento del limite dello 0,2% di THC, il coltivatore perde il diritto ai contributi comunitari; entro il limite dello 0,6% di THC, al coltivatore che abbia rispettato le prescrizioni della l. n. 242/2016 non può essere contestato alcunché; se si accerta che il THC della coltivazione è superiore allo 0,6%, l'autorità giudiziaria può procedere al sequestro ed alla distruzione della coltivazione, ma il coltivatore che abbia rispettato le prescrizioni della l. n. 242/2016 non va incontro a sanzioni penali.
In assenza di un chiaro coordinamento con le previgenti norme del Testo Unico, le disposizioni normative introdotte per promuovere la coltivazione della canapa sono state, fin da subito, invocate da chi ha sperato di rinvenirvi un salvacondotto per le ipotesi di cessione di infiorescenze di cannabis dal basso contenuto di principio attivo, destinate al consumo mediante inalazione o fumo. In effetti, la legge 242/2016 nulla dice in ordine alla possibilità di utilizzare – ricavandone marijuana ed hashish -e commercializzare a fini ricreativi la canapa oggetto della coltivazione: dunque, se ne è inferito, poiché il legislatore ha permesso di coltivare la cannabis sativa L, e si è limitato ad indicare gli “usi consentiti” del prodotto di quella coltivazione, senza però prevedere alcun uso “non consentito”, quel prodotto (ossia, è bene ribadirlo, il prodotto di una delle circa sessanta varietà di cannabis sativa L, liberamente coltivabili nel rigoroso rispetto delle prescrizioni e degli standard imposti dalle norme comunitarie e dalla l. n. 242/2016) deve ritenersi un bene lecito, indipendentemente dall'impiego al quale lo destinerà l'acquirente finale: poiché non può ammettersi che un prodotto, lecito nella fase di coltivazione, diventi illegale (senza che siano mutate le sue caratteristiche organolettiche) nella successiva fase di commercializzazione, è ben possibile cedere puramente e semplicemente una o più confezioni di quella cannabis o di suoi derivati,senza commettere il delitto di cui al quarto comma dell'art. 73 del Testo Unico, consentendo all'acquirente di destinarla alla preparazione di alimenti o bevande, oppure anche di assumerla mediante fumo o inalazione. Si è, inoltre, sostenuto che la percentuale di THC dello 0,6% prevista dalla l. n. 242/2016 rappresenti la nuova soglia di rilevanza penale delle condotte relative alla cannabis, avendo il legislatore ritenuto che ad un così basso principio attivo non possa che corrispondere l'assenza di qualsivoglia efficacia drogante della sostanza. L'orientamento, sostenuto da una nutrita giurisprudenza di merito, non ha inizialmente fatto breccia presso la Corte di Cassazione: numerose pronunce, rese tra il giugno 2018 ed il febbraio 2019 da tutte e tre le Sezioni della Suprema Corte che trattano la materia degli stupefacenti, sono invero pervenute a conclusioni opposte (cfr. Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332; Cass. pen., sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737; Cass. pen., sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003; Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2019, n. 17387; Cass. pen., sez. III, 7 dicembre 2018, n. 10809). Tuttavia, esaminando il ricorso di un commerciante (è curioso notare che si tratta proprio dello stesso soggetto, titolare di più esercizi commerciali in Ancona e Macerata, il cui caso è stato – qualche mese dopo - devoluto all'esame delle Sezioni unite) avverso il provvedimento con il quale il Tribunale del riesame di Macerata aveva confermato il sequestro preventivo di infiorescenze di cannabis contenenti THC in percentuale compresa tra lo 0,52% e lo 0,65%, Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920 ha annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata ed il decreto di sequestro, con conseguente definitiva restituzione della cannabis al ricorrente La Corte, nel verificare “se la commercializzazione possa riguardare anche la vendita al dettaglio delle infiorescenze ... contenenti il THC (nei limiti, fissati dalla L. n. 242 del 2016) ... per fini connessi all'uso che l'acquirente riterrà di farne e che potrebbero riguardare l'alimentazione (infusi, the, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici - entrambi usi espressamente considerati dalla l. n. 242 del 2016 - e anche il fumo”, ha ritenuto che “il riferimento alla tipologia di uso” contenuto nella l. n. 242/2016 “non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati”: la l. n. 242/2016 non può essere intesa come norma eccezionale rispetto al Testo Unico sugli stupefacenti, rappresentando, al contrario, il cardine di un “microsettore normativo” del tutto autonomo, nel cui ambito deve ritenersi che “la liceità della commercializzazione dei prodotti della predetta coltivazione (e, in particolare, delle infiorescenze)” costituisca “un corollario logico-giuridico dei contenuti della l. n. 242 del 2016: in altri termini, dalla liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del D.P.R. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.P.R. Qualificata la cannabis sativa L con percentuale di THC inferiore allo 0,6% - ottenuta da una coltivazione liberalizzata - come sostanza oramai sottratta dall'ambito di applicazione del Testo Unico sugli stupefacenti (estranea, dunque, al pari di qualsivoglia sostanza non tabellata, all'oggetto materiale del delitto di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990), le conclusioni sono necessitate: non incriminabilità del rivenditore che dimostri che le infiorescenze di cannabis commercializzate provengono da coltivazioni impiantate nel rispetto delle norme comunitarie e della l. n. 242/2016, e non assoggettabilità del consumatore di quelle infiorescenze di cannabis alle sanzioni amministrative previste dal d.P.R. n. 309/1990. Dopo che altra, coeva, pronuncia (Cass. pen., sez. III, 7 dicembre 2018, n. 7166) ha propugnato una tesi intermedia, sostenendo la liceità della commercializzazione dei soli prodotti canapa-derivati con THC non superiore allo 0,2%, sez. IV, 8 febbraio 2019, n. 8654, chiamata a valutare il ricorso del Procuratore della Repubblica di Ancona avverso il provvedimento del Tribunale del riesame che, annullando parzialmente il decreto di sequestro preventivo, aveva restituito all'indagato – presso il cui esercizio commerciale erano stati sottoposti a sequestro circa kg. 13 di marijuana - i reperti connotati da un principio attivo non superiore allo 0,6%, ritenendo che gli altri rientrassero nelle coltivazioni destinate al florovivaismo di cui alla l. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, lett. g), ha deciso di rimettere la questione all'esame delle Sezioni Unite. Le soluzioni giuridiche
La pronuncia delle Sezioni Unite Le Sezioni Unite Castignani (sentenza n. 30745 del 30 maggio 2019), sintetizzati i termini del contrasto, e premesso quello che alcuni hanno inteso come un suggerimento o addirittura un'invocazione rivolta al legislatore (“resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia - nell'esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa - così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L, nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali”), hanno rilevato che l'asimmetria tra il Testo Unico sugli stupefacenti e la legge che ha promosso a fini agroindustriali la coltivazione della canapa è solo apparente. Ed invero, il d.P.R. n. 309/1990 annovera tra le sostanze tabellate la cannabis, senza alcuna ulteriore qualificazione (la già commentata soppressione della parola indica è sintomatica della “precisa volontà del legislatore del 2014 di qualificare la cannabis come sostanza stupefacente, in ogni sua varietà”), e senza alcun riferimento a percentuali di principio attivo, ed incrimina ogni attività di coltivazione di tale pianta (ad eccezione di quelle autorizzate ai sensi del capoverso dell'art. 26): dal che si ricava che “la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell'ambito dell'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup.”. La l. n. 242/2016, “collocandosi dichiaratamente nell'alveo del settore merceologico, regola e promuove la coltivazione industriale di determinate varietà di canapa”, introducendo norme di dettaglio che riguardano un'attività che già l'art. 26 cpv. del Testo Unico (relativo, come si è ricordato, alla coltivazione “della canapa” finalizzata alla “produzione di fibre o per altri usi industriali ... consentiti dalla normativa dell'Unione europea”) aveva sottratto dall'area dell'incriminazione, introducendo una “eccezione ... al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato”. Dunque, argomentano le Sezioni Unite, l'art. 1 cpv. della legge del 2016, nello stabilire che le coltivazioni in argomento non rientrano nell'ambito di applicazione del Testo Unico, “delinea l'ambito dell'intervento normativo, che riguarda un settore dell'attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall'ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni. Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell'ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis), poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell'attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell'Unione Europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione”. La commercializzazione di hashish e marijuana estratti dalle piante di cannabis sativa L. coltivate a fini agroalimentari “continua a essere sottoposta alla disciplina del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309”, poiché l'intervento normativo del 2016 non contempla né autorizza l'estrazione e la cessione di alcun derivato del vegetale avente funzione stupefacente o psicotropa: “pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dalla l. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina”. Né elementi a favore della tesi “garantista” possono essere tratti dalla circostanza che, nel tassativo elenco degli usi permessi, vi sia la produzione di alimenti: «la legge non consente la produzione di foglie o inflorescenze; di talché risulta escluso che il legislatore, richiamando la produzione di alimenti, abbia fatto riferimento alla assunzione umana di tali derivati. Di converso, l'indicazione, tra i prodotti ottenibili dalla canapa sativa L., di quelli qualificati come alimenti, peraltro da realizzare esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori (L. n. 242 del 2016, art. 2, lett. a), induce a rilevare che il legislatore ha posto a carico del produttore l'obbligo di osservare la rigorosa disciplina che regola il settore alimentare, qualora intenda produrre alimenti derivati dalla canapa, quali semi o farine. Tanto è vero che la novella stabilisce che, con successivo decreto del Ministro della salute, siano definiti i livelli massimi dei meri “residui” di THC ammessi negli alimenti ottenuti dalla canapa (art. 5, l. n. 242/2016, cit.). In tale ambito ricostruttivo, la novella ha coerentemente stabilito (art. 9) che il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali promuova il riconoscimento di un sistema di qualità alimentare per i prodotti derivati dalla canapa, ai sensi dell'art. 16, paragrafo 1, lett. b) o c), Regolamento UE 1305/2013 ... Come si vede, anche le previsioni relative alla produzione di alimenti, lungi dal corroborare l'ipotesi di una generalizzata liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione promossa dalla L. n. 242 del 2016, rafforza la tesi del carattere tassativo e di stretta interpretazione del catalogo dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione della cannabis sativa L.». Infine, le norme che prevedono controlli ed esenzioni di responsabilità per il coltivatore sono “volte a tutelare esclusivamente l'agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell'ambito della filiera agroalimentare delineata dalla novella del 2016, coltivi canapa che, nel corso del ciclo produttivo, risulti contenere, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo”: dunque, “erroneamente le richiamate percentuali di THC sono state valorizzate, al fine di affermare la liceità dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. - e la loro commercializzazione - ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento”. Ne deriva che “ogni condotta di cessione o di commercializzazione di categorie di prodotti, ricavati dalla coltivazione agroindustriale della cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, diversi da quelli tassativamente indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, da un lato è estranea dall'ambito di operatività della predetta legge, dall'altro integra una attività illecita, secondo la generale disciplina contenuta nel T.U. stup.”. La commercializzazione al pubblico dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. diversi da quelli espressamente consentiti dalla l. n. 242 del 2016 è, dunque, potenzialmente idonea ad integrare il reato di cui al quarto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990. La sussistenza del reato deve essere valutata alla luce di tutti i principi illustrati nei precedenti capitoli: è, dunque, necessario acquisire la prova dell'elemento soggettivo nelle forme del dolo generico (ed al riguardo“le asimmetrie interpretative, rispetto all'ambito applicativo della novella del 2016, che stanno alla base del presente intervento nomofilattico, possono pure sortire una ricaduta sull'elemento conoscitivo del dolo del soggetto agente, rispetto alle condotte di commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L., effettuate all'indomani dell'entrata in vigore della novella”), ed è ineludibile la dimostrazione della concreta capacità drogante della sostanza oggetto di contestazione, guardando non al superamento della soglia dello 0,6% di THC (valore che la l. n. 242/2016 individua per altri fini, facendo peraltro riferimento alla coltivazione della cannabis, e non alle caratteristiche dei suoi derivati), ma alla effettiva idoneità di quel quantitativo di droga ad incidere sull'assetto neuropsichico dell'assuntore, e, conseguenzialmente, a ledere la salute, principale bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. L'orientamento rigoroso, sposato dalle Sezioni unite Castignani, ha trovato conferma in tutte le più recenti pronunce di legittimità (cfr. Cass. pen., sez.III, 17 gennaio 2020, n. 19990; Cass. pen., sez.III, 12 dicembre 2019, n. 14735; Cass. pen., sez. IV, 24 ottobre 2019, n. 48650; Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 2019, n. 51466; Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2019, n. 43229) ed è stato fatto proprio dalle sentenze di merito in commento. Le norme incriminatrici - come ha correttamente argomentato la sentenza n. 4920/2019 – costituiscono tassative eccezioni rispetto alla generale libertà di azione di ogni soggetto; tuttavia, si può sostenere che la l. n. 242/2016, nel disciplinare il limitato settore della coltivazione a fini agroindustriali di alcune varietà di cannabis sativa L., ha provocato una generale riespansione delle libertà individuali, e dunque l'abrogazione di ogni incriminazione, solo trascurando di considerare che l'ordinamento, secondo l'immutato impianto normativo delineato dal Testo Unico, reputa, in via generale, illecite la coltivazione, la cessione e la detenzione per la vendita di sostanze stupefacenti tabellate: e tra le droghe tabellate vi sono senz'altro la cannabis ed i suoi principali derivati. Il legislatore del 2016 ha espressamente inteso circoscrivere l'alveo di liceità della coltivazione ai soli usi che ha puntualmente elencato all'art. 2: elenco che non avrebbe, invero, alcuna ragione di esistere, ove la coltivazione della cannabis sativa L e la successiva commercializzazione dei relativi prodotti fossero state legalizzate tout court. Poiché la l. n. 242/2016 ha introdotto disposizioni che derogano alla regola generale - che vuole che ogni condotta relativa alla cannabis ed ai suoi derivati abbia rilievo penale -, le sue norme sono di stretta interpretazione: dal che consegue che l'elenco dell'art. 2 è tassativo. La commercializzazione a fini ricreativi dei derivati della cannabis light non è ricompresa in quell'elenco (che, peraltro, fa riferimento solo ad attività di produzione dei beni, e non anche alla loro commercializzazione): ciò è facilmente spiegabile con il dichiarato scopo della l. n. 242/2016, dal momento che la promozione a fini agroindustriali della produzione della canapa non ha nulla a che vedere con la liberalizzazione della vendita al dettaglio di hashish e marijuana perché ne possa essere assunto mediante fumo o inalazione il suo pur limitato principio attivo. Né si può ritenere che l'autorizzazione alla produzione di ‘‘alimenti'', prevista dalla legge del 2016, possa analogicamente ricomprendere – oltre ai semi ed alle farine eduli, da produrre nel rispetto della rigorosa disciplina di settore - qualunque sostanza destinata ad essere in qualunque modo ingerita dall'uomo. Le percentuali di THC indicate dall'art. 4 l. n. 242/2016 servono a valutare la liceità della coltivazione, e non certo la capacità drogante del prodotto finito; rivolgendosi ai produttori, e non ai rivenditori o ai commercianti, nulla dicono, né potrebbero mai dire, in relazione alla concreta attitudine di condotte di cessione al dettaglio dei derivati della cannabis light ad offendere i beni giuridici protetti dalla norma dell'art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990: è, dunque, palesemente errata l'apodittica affermazione della sentenza n. 4920/2019, secondo cui “lo 0,6% è la percentuale di THC al di sotto del quale la sostanza non è considerata dalla legge come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti” (errata non solo da un punto di vista giuridico, ma anche scientifico, se è vero che il 10 aprile 2018 il Consiglio Superiore di Sanità ha reso, al termine di una breve istruttoria, un articolato parere contrario alla commercializzazione dei derivati della cd. cannabis light, rilevando tra l'altro: che “la ritenzione per lungo tempo di Delta-9-THC nel sistema nervoso centrale ... sia uno dei motivi non solo della possibilità di tracciare, ben oltre l'assunzione, i metaboliti nelle urine dei fumatori abituali, ma anche dei deficit cognitivi che rimangono a lungo anche durante l'astinenza … L'associazione tra consumo di cannabis e impairment cognitivo è d'altra parte ben documentato e correlato all'intensità dell'assunzione, alla durata ma soprattutto all'età alla quale inizia il consumo, essendo l'uso in adolescenza uno dei fattori che contribuiscono ad alterare le connessioni funzionali corticostriatali. Alcune di queste funzioni, o compiti come l'apprendimento e la memoria, vengono recuperate con l'astinenza .., ma altri deficit sembrano persistere più a lungo e indipendentemente da fattori farmacocinetici o biomolecolari misurabili”. Dunque “la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di cannabis o cannabis light o cannabis leggera non può essere esclusa”, non essendo peraltro stato <valutato il rischio connesso al consumo di tali prodotti in relazione a specifiche condizioni, quali ad esempio età, presenza di patologie concomitanti, stato di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione, ecc., così da evitare che l'assunzione inconsapevolmente percepita come “sicura” e “priva di effetti collaterali” si traduca in un danno per sé stessi o per altri>).
L'esito dei giudizi di merito. Riassumendo quanto si è fin qui detto: - la cannabis sativa L. ed i suoi derivati (olio, infiorescenze, foglie, resine) continuano ad essere annoverati – al pari di ogni varietà di cannabis - nelle tabelle delle sostanze stupefacenti; - alcune condotte di coltivazione di cannabis sativa L. - in particolare quelle delle circa sessanta varietà della pianta elencate dal Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole - sono state sottratte all'area dell'incriminazione, prima per effetto dell'art. 26 cpv. del Testo Unico, poi per effetto della l. n. 242/2016; - la coltivazione di varietà di cannabis sativa L. diverse da quelle consentite è penalmente rilevante; - la coltivazione di varietà consentite di cannabis sativa L., che produca THC nella misura massima dello 0,2%, è priva di rilievo penale; - la coltivazione di varietà consentite di cannabis sativa L. che, per imprevedibili anomalie del ciclo produttivo, generi prodotto avente una percentuale di THC superiore allo 0,2%, è condotta potenzialmente illecita, ma in concreto non perseguibile per via della causa di non punibilità prevista per il coltivatore dall'art. 4 l. n. 242/2016; se il THC supera lo 0,6%, ferma restando la non punibilità del coltivatore, le piante possono essere sequestrate e distrutte dall'autorità giudiziaria; - l'impiego dei prodotti della coltivazione consentita della cannabis sativa L., per uno degli usi tassativamente indicati dall'art. 2 l. n. 242/2016 (fibre, carburanti, cosmetici, tessuti, ecc.), non è penalmente rilevante; - è tuttora vietato estrarre dalla pianta di cannabis sativa L. lecitamente coltivata prodotti da destinare ad uso ricreativo, quali ad esempio la marijuana (che si ricava dalle infiorescenze essiccate) e l'hashish (che si ricava dalla resina): si tratta di impieghi platealmente estranei ed incompatibili con le finalità della l. n. 242/2016, e sanzionati dal d.P.R. n. 309/1990; - le attività di estrazione, di commercializzazione a qualsiasi titolo e di detenzione a fini di cessione a terzi di hashish e marijuana, pur se la sostanza sia stata ricavata da una coltivazione di cannabis sativa L. legittimamente impiantata, integrano la fattispecie incriminatrice dell'art. 73, comma 4, del Testo Unico; la detenzione a fini di uso personale delle medesime sostanze, integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 75 del Testo Unico; - è onere dell'accusa provare la capacità drogante dei prodotti che si contesta essere stati illecitamente estratti, venduti, ceduti, detenuti a fine di spaccio; - in ossequio ai principi generali, ed in assenza di soglie predeterminate generali ed astratte, la concreta offensività della condotta è integrata ogni volta che possa dirsi che l'assunzione della droga oggetto di contestazione, nonostante il basso principio attivo, sarebbe stata in grado di provocare un effetto stupefacente, ossia un'alterazione dell'assetto neuropsichico dell'assuntore (sul punto, tra le più recenti, cfr. sez. III, 12 dicembre 2019 / 13 maggio 2020, n. 14735); - accertato l'elemento materiale del reato, dovrà essere provato anche l'elemento soggettivo nelle forme del dolo generico; in proposito, la stessa sentenza Castignani ha ricordato che “il giudizio sulla inevitabilità dell'errore sul divieto, cui consegue l'esclusione della colpevolezza, secondo il fondante insegnamento del Giudice delle leggi (Corte Cost. sent. n. 364 del 1988) deve essere notoriamente ancorato a criteri oggettivi, quali l'assoluta oscurità del testo legislativo, ovvero l'atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari”: dunque, il Giudice del caso concreto potrà mandare assolto l'imputato, “perché il fatto non costituisce reato”, ove l'imputato alleghi e dimostri di aver versato in errore inevitabile cagionato dalle rilevate “asimmetrie” tra le norme che governano la materia, e dall'interpretazione di favore sviluppatasi nella giurisprudenza di merito all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 242/2016. È stato proprio questo l'esito del procedimento oggetto della sentenza delle Sezioni unite n. 30475/2019: l'imputato è stato, invero, assolto dal reato di cui all'art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990, con sentenza n. 434 del 10 dicembre 2019 del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ancona, dott.ssa Moscaroli, divenuta irrevocabile a seguito di mancata impugnazione; nelle motivazioni si dà atto della sicura sussistenza dell'elemento materiale del reato, e della concreta offensività della condotta (la sostanza in sequestro, esaminata otto mesi dopo il sequestro dal perito nominato nel corso dell'incidente probatorio, esibiva ancora una percentuale media di THC superiore allo 0,5%, essendo dunque certamente “dotata di principio farmacologicamente attivo, idoneo a produrre effetti psicotropi”); il giudice ha, tuttavia, rilevato che gli imputati avevano tenuto la condotta loro contestata “nel periodo immediatamente successivo all'entrata in vigore della legge 242 del 2016, normativa di cui gli stessi hanno inteso avvalersi, con attività svolta in modo pubblico e trasparente, nella convinzione di non incorrere in violazioni penalmente rilevanti. L'esclusione della colpevolezza degli agenti può farsi discendere sia dalla scarsa chiarezza ed apprezzabile ambiguità del testo normativo, sia dai contrastanti provvedimenti dell'A.G., legati a differenti interpretazioni della legge, di rilievo tale da richiedere l'intervento del massimo organo nomofilattico”. Esito opposto ha avuto, in primo grado, il parallelo giudizio instaurato a carico del medesimo imputato presso altro Tribunale (la vicenda cautelare, come si è detto, era stata vagliata – con esito favorevole al ricorrente - dalla citata sentenza Cass. pen., n. 4920/2019 della Sesta Sezione della Suprema Corte): l'imputato è stato, invero, condannato in relazione al reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 (così riqualificata l'originaria imputazione, formulata in relazione al quarto comma della norma incriminatrice), con sentenza n. 165 del 16 giugno 2020 del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Macerata, dott. Manzoni; accertata la sussistenza dell'elemento materiale del reato e la concreta offensività della condotta (si contestava all'imputato di aver venduto, tra l'aprile ed il maggio 2018, a cinque avventori del suo esercizio commerciale, confezioni che, all'esito di consulenza tossicologica, si era accertato contenere foglie e infiorescenze di cannabis, con percentuale media di THC compresa tra lo 0,52% e lo 0,7%), il giudice ha ritenuto sufficientemente provato anche l'elemento soggettivo del reato, rilevando che “al soggetto che agisca professionalmente in un determinato settore incombe un onere di particolare attenzione ed approfondimento; la condotta appare scusabile ove il soggetto non si prospetti la possibile illiceità della condotta; ove invece agisca pur conscio di tale possibilità, non si ha errore inescusabile ma accettazione del rischio di commettere reato”, e ritenendo decisiva, per un verso, la circostanza che l'imputato avesse commercializzato in diversi esercizi a lui riferibili marijuana con principio attivo superiore allo 0,6% (“né in atti vi sono elementi dai quali desumere che ciò sia avvenuto per circostanze del tutto eccezionali e malgrado ogni attenzione .. nella scelta del proprio fornitore e nel controllo della merce acquistata”), e, per altro verso, la circostanza che le confezioni di marijuana light erano state commercializzate “con dissimulazione della natura degli stessi sui documenti di vendita” (gli scontrini rilasciati agli acquirenti identificati dalla polizia giudiziaria recavano causali quali “terricci”, “substrati”, “semi da collezione”), trattandosi di “profili tali da indurre a ritenere la sussistenza del momento psicologico del contestato reato, quanto meno sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale”. Infine, nei casi in cui possano dirsi provati l'elemento materiale e quello soggettivo del reato e la concreta offensività della condotta, l'esiguità del principio attivo potrà essere apprezzata, principalmente nei casi nei quali vengano in rilievo quantitativi modesti di sostanza, per ritenere il fatto non punibile ai sensi dell'art. 131 bis c. p., tutte le volte in cui sia possibile affermare, alla luce di tutti gli indicatori ricavabili dalla norma appena indicata, che l'offesa arrecata ai beni giuridici della salute, dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, pur se sussistente, sia stata connotata da particolare tenuità (nel caso oggetto della citata sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Macerata, la particolare tenuità è stata esclusa “attesa la sistematicità della condotta, iterata nel tempo”). Osservazioni
Le rigorose conclusioni della sentenza Castignani, ineccepibili in punto di diritto, e coerenti con l'attuale formulazione delle leggi che disciplinano la materia (ed invero, né l'intentio legis, né la sistematica disamina del quadro normativo consentono di ritenere che il legislatore abbia voluto liberalizzare le condotte finalizzate alla commercializzazione ad uso ricreativo dei derivati della cannabis sativa L), appaiono di difficile applicazione pratica: ed invero, le modalità di presentazione della canapa destinata ad usi leciti, e dell'hashish e della marijuana destinati allo spaccio possono essere quasi del tutto identiche. Si pensi ad esempio al florovivaismo, attività professionale di produzione e commercializzazione di fiori recisi e di piante in un complesso di serre e vivai: la Circolare del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali del 22 maggio 2018 (recante “chiarimenti sull'applicazione della legge 2 dicembre 2016, n. 242”), ha espressamente precisato che le infiorescenze della canapa, “pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242 del 2016 né tra le finalità della coltura né tra i suoi possibili usi, rientrano nell'ambito dell'articolo 2, comma 2, lettera g) .. ossia nell'ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo, purché tali prodotti derivino da una delle varietà ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, il cui contenuto complessivo di THC della coltivazione non superi i livelli stabiliti dalla normativa, e sempre che il prodotto non contenga sostanze dichiarate dannose per la salute dalle Istituzioni competenti”. Dunque, è perfettamente lecita la circolazione a scopi ornamentali di infiorescenze ricavate dalla cannabis sativa L., a nulla rilevando che in quei prodotti vi sia anche una percentuale di THC, minima ma comunque apprezzabile. Altre possibili interferenze potrebbero esserci tra la condotta sanzionata dall'art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990 e le “coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative”, anch'esse espressamente ammesse dalla l. n. 242/2016. La lecita presenza sul mercato – quantomeno a scopo ornamentale, nell'ambito di un'attività florovivaistica - di piante, parti di piante, fiori recisi e foglie di cannabis sativa L., rende all'atto pratico difficilmente sostenibile l'automatismo, prefigurato dalle Sezioni unite, tra la commercializzazione dei derivati della coltivazione consentita di cannabis sativa L. e la configurabilità del reato di cui al quarto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, perpetuando quella situazione di oggettiva incertezza che ha complicato il lavoro degli operatori del settore, moltiplicato gli interventi a volte indiscriminati delle forze dell'ordine e privato di prevedibilità e uniformità le decisioni dell'autorità giudiziaria (nulla quaestio se, invece, come spesso accade, le confezioni sequestrate dalla polizia giudiziaria esibiscono la dicitura “campione destinato ad uso tecnico” ovvero destinato a “collezionismo”: in tali casi è, invero, evidente che si è al di fuori di ogni impiego lecito riconducibile alla l. n. 242/2016, ed è, dunque, più facile – provata la concreta efficacia drogante – affermare la sussistenza quanto meno dell'elemento materiale del reato). Rende, sotto altro aspetto, impossibile, o comunque molto difficile, la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato in capo al commerciante sorpreso, ad esempio, a vendere un campione di infiorescenze di cannabis sativa L.: per condannarlo sarebbe, invero, necessario provare che egli sapesse dell'intenzione dell'acquirente di assumere la sostanza per uso ricreativo. Due, a questo punto, le possibili vie d'uscita: 1) sollevare, così come vanamente sollecitato dal Procuratore Generale nell'udienza del 30 maggio 2019 davanti alle Sezioni unite, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1, lettera b), del Testo Unico, nella parte in cui impone di annoverare nelle tabelle delle sostanze stupefacenti anche i derivati di coltivazioni consentite di cannabis sativa L. che esibiscano una percentuale di THC inferiore o pari allo 0,6%; 2) attendere, come invocato dalla stessa sentenza Castignani, un intervento chiarificatore del legislatore. In tal senso va segnalata la proposta di legge n. 2309, presentata alla Camera dei deputati il 19 dicembre 2019 da 60 onorevoli dei partiti che sostengono il Governo tuttora in carica, che intende modificare il terzo comma dell'art. 1 l. n. 242/2016 (inserendo tra le finalità ammesse della coltivazione della canapa non solo la coltivazione, ma anche la “trasformazione” e la “immissione in commercio” del prodotto), il capoverso dell'art. 2 della stessa legge (aggiungendo, all'elenco degli usi consentiti, una lettera g-bis, relativa a “prodotti e preparati, destinati a qualsiasi uso, contenenti cannabidiolo, il cui contenuto di tetraidrocannabinolo non è superiore allo 0,5 per cento, derivanti da infiorescenze fresche ed essiccate e oli”), ed infine l'art. 14 del Testo Unico, eliminando la disposizione del primo comma, lettera a, n. 6), che impone di collocare nella prima tabella le “sostanze ottenute per sintesi o semisintesi che siano riconducibili per struttura chimica o per effetto farmaco tossicologico al tetraidrocannabinolo”, e riscrivendo la disposizione del primo comma, lettera b, n. 1), relativa all'inserimento della cannabis nella tabella delle sostanze stupefacenti, in modo che risulti la seguente, meno ampia, formula: “la cannabis, compresi i prodotti da essa ottenuti, con una percentuale di tetraidrocannabinolo superiore allo 0,5 per cento, i prodotti ad essi analoghi e le sostanze ottenute per sintesi o per semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmacologico”. La declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 14, primo comma, lettera b, n. 1), ovvero l'approvazione di una norma del tipo di quella proposta nel dicembre 2019 (che, a tacer d'altro, avrebbe l'indiscusso pregio di far definitivamente cessare ogni dibattito su soglia drogante e principio di necessaria offensività), consentirebbero di escludere senza incertezze dall'area della incriminazione le condotte relative ai derivati della cannabis sativa L., ovvero, nel secondo caso, di depenalizzare ogni condotta relativa alla cannabis nella quale venga in rilievo una sostanza caratterizzata da una bassa percentuale di THC. AMATO G., Le Sezioni Unite scelgono il rigore per mettere ordine, in Guida dir., 2019, 32, 23. BRANCIA D., La legalizzazione della coltivazione e vendita della cannabis sativa supera il vaglio del giudizio di legittimità, ma ancora incombono le nubi della disomogeneità interpretativa della l. 242/2016, in Giust. Pen., 2019, II, 81. 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