Alla perquisizione illegittima non consegue l'inutilizzabilità derivata degli esiti del successivo sequestro

Giorgio Nicola
25 Gennaio 2021

Sono diversi i temi di interesse sottoposti all'attenzione della Corte Costituzionale. Oltre agli effetti pratici, invero limitati, della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, hanno specifica rilevanza le questioni afferenti all'utilizzabilità o meno degli esiti del sequestro in caso di perquisizione illegittima e delle dichiarazioni dibattimentali rese dagli operanti di polizia giudiziaria sul punto.
Massima

È costituzionalmente illegittimo l'art. 103 comma 3 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono dal pubblico ministero debbano essere convalidate.

Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.p. sollevate dal Tribunale di Lecce, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto “il legislatore ha inteso distinguere nettamente l'idoneità probatoria degli atti vietati dalla legge dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell'atto, vizio che peraltro resta soggetto ai paradigmi della tassatività e della legalità. In tale cornice, il petitum si traduce nella richiesta di una pronuncia fortemente "manipolativa", in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale) - come rivela lo stesso assunto del giudice a quo, evocativo della c.d. teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" - e discutendosi di una disciplina di natura eccezionale (quale quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale). Essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, in quanto componente del giusto processo, è solo la legge a stabilire - con norme di stretta interpretazione, in ragione della sua natura eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare”.

Il caso

Con la decisione in oggetto la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare l'eventuale illegittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.nella parte in cui - secondo l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente - non prevede che la sanzione dell'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori - compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato - degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge, ovvero non convalidati dal pubblico ministero con provvedimento motivato”. Il Tribunale di Lecce, che aveva sollevato le questioni di incostituzionalità, rappresentava ancora che l'inutilizzabilità doveva riguardare le perquisizioni esperite di iniziativa dalla polizia giudiziaria sulla base di fonti confidenziali, o in assenza di flagranza di reato, ovvero autorizzate verbalmente dal pubblico ministero senza che ne risultasse la motivazione. L'inutilizzabilità doveva inoltre estendersi, per effetto della richiesta dichiarazione di illegittimità costituzionale, anche alla deposizione testimoniale degli operanti sull'attività di perquisizione (illegittima) e sul conseguente sequestro.

La Corte Costituzionale è stata inoltre chiamata a valutare l'eventuale illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 3, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, in riferimento agli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU -, “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa consentire l'esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l'ha rilasciata”.

La questione

Sono diversi i temi di interesse sottoposti all'attenzione della Corte Costituzionale. Oltre agli effetti pratici, invero limitati, della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, hanno specifica rilevanza le questioni afferenti all'utilizzabilità o meno degli esiti del sequestro in caso di perquisizione illegittima e delle dichiarazioni dibattimentali rese dagli operanti di polizia giudiziaria sul punto.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia in esame rispolvera le vexatae quaestiones relative ai rapporti sussistenti tra perquisizione e sequestro e all'inutilizzabilità derivata.

I rapporti tra perquisizione e sequestro sono stati ampiamente dibattuti in dottrina e in giurisprudenza fin dalla nota sentenza Sala delle Sezioni Unite (Cass. SU 27 marzo 1996), in cui la Suprema Corte, in ipotesi di sequestro di stupefacenti disposto in seguito a perquisizione illegittima, pur sostenendo che “l'illegittimità della ricerca della prova del commesso reato non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire” stante la stretta connessione sussistente tra l'atto di perquisizione e il conseguente sequestro in quanto “la perquisizione non è soltanto l'antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro”, giungeva a conclusioni apparentemente distoniche con il comparto motivazionale affermando che “se è vero che l'illegittimità della ricerca della prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della Costituzione, non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, è altrettanto vero che allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, è lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorché nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un «atto dovuto»”. Le Sezioni Unite giungevano all'indicata conclusione anche rappresentando che la soluzione opposta dell'inutilizzabilità degli esiti del sequestro porterebbe “all'assurdo di consentire al giudice la confisca del corpo del reato e, nel contempo, di non tenerne conto ai fini della decisione conclusiva del processo”.

La piena utilizzabilità degli esiti del sequestro conseguente a perquisizione illegittima è stata ribadita dalla successiva giurisprudenza. Così si è sostenuto, in ipotesi di perquisizione effettuata ai sensi dell'art. 103, comma terzo, d.P.R. n. 309 del 1990 apparentemente immotivata, che “l'illegittimità della perquisizione non invalida il conseguente sequestro” dello stupefacente “qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato o a questo pertinenti, dovendosi considerare che il potere di sequestro non dipende dalle modalità con le quali le cose, oggettivamente sequestrabili, sono state reperite, ma è condizionato unicamente all'acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema” (Cass. pen. Sez. IV 13/11/2019, dep. 27/01/2020, n. 3196). Ancora, in tema di perquisizione esperita ex art. 103 d.P.R. n. 309 del 1990 sulla base di una segnalazione anonima, che “la giurisprudenza di legittimità già da lungo tempo ha distinto il piano degli effetti della perquisizione illegittimamente disposta, ipotesi che nel caso in specie non ricorre trattandosi di legittima attività investigativa svolta sotto la garanzia dell'art.103 Dpr 309/90, rispetto a quello del sequestro probatorio che ne sia conseguito, dovendosi considerare che il potere di sequestro non dipende dalle modalità con le quali le cose, obiettivamente sequestrabili, sono state reperite, ma è condizionato unicamente all'acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema, divieti certamente non rinvenibili nella disposizione di cui all'art.333 cod.proc.pen. comma III, la quale pone un limite alla utilizzabilità nel processo della fonte confidenziale e non attiene ai limiti della sequestrabilità di beni la cui produzione e la cui detenzione, a certe condizioni, costituiscono reato” (Cass. pen. Sez. IV 5/11/2019, dep. 24/01/2020, n. 2849).

La giurisprudenza, pertanto, sembra motivare l'utilizzabilità degli esiti del sequestro, derivato da perquisizione illegittima, focalizzando l'attenzione sia sull'autonomia funzionale del sequestro rispetto alla perquisizione, sia sulla doverosità dello stesso in presenza del corpo del reato o di cose pertinenti al reato.

Quanto al tema dell'inutilizzabilità derivata, si premette che l'art. 191 c.p.p., come noto, è suscettibile di due diverse letture nella parte in cui afferma che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge sono inutilizzabili”. Come rappresentato dalla dottrina, l'espressione “prove acquisite” può essere intesa in due accezioni differenti: o come prove ammesse, oppure come prove ottenute o raccolte. Nella prima prospettiva, seguita dalla giurisprudenza maggioritaria, l'istituto dell'inutilizzabilità derivata non sembra avere fondamento nell'ordinamento. Per tale tesi il sequestro, disposto a seguito di una perquisizione illegittima, sarebbe valido perché l'art. 253, comma 1 c.p.p. lo prevede in rapporto al corpo del reato e alle cose pertinenti al reato. Nella seconda prospettiva, ad esser inutilizzabili sono “tutte le prove che derivino, sulla base di un rapporto di causa-effetto, da una violazione della legge”. Pertanto, secondo questa impostazione interpretativa, la cosa rinvenuta e sequestrata in una perquisizione illegittima sarebbe inutilizzabile perché ottenuta in violazione delle regole stabilite dalla legge a tutela del domicilio e della libertà personale.

La giurisprudenza pressoché prevalente ha sempre escluso, dopo la sentenza Sala, che il principio previsto per il vizio di nullità dall'art. 185 c.p.p., secondo cui “la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”, possa applicarsi anche con riferimento all'inutilizzabilità, in quanto “la decisione che si basi su prova vietata non è di per sé invalida, potendo al più ritenersi nulla per difetto di motivazione, qualora non sussistano prove, ulteriori e diverse da quelle inutilizzabili, idonee a giustificarla” (in tali termini Cass. pen. Sez. VI 30/04/2019, dep. 30/01/2020, n. 4119).

Infatti, per la giurisprudenza, non appare possibile trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente con riferimento alla categoria delle nullità, stante le differenze sistematiche tra i due istituti di invalidità, riguardati uno la prova e l'altro l'atto. Inoltre, l'inesistenza di un principio generale di inutilizzabilità derivata parrebbe desumersi, a contrario, dall'art. 202 c.p.p., che regola l'istituto, evidentemente di carattere eccezionale, esclusivamente con riferimento alle notizie coperte dal segreto di Stato. Si è ancora evidenziato che non sarebbe consentito il ricorso all'analogia trattandosi di materia informata al principio di tassatività.

Una delle principali obiezioni alla tesi prevalente risulta riportata anche dal giudice remittente, secondo cui “la disciplina stabilita dall'art. 191 cod. proc. pen. mirerebbe, in effetti, ad offrire una efficace tutela ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all'acquisizione della prova col prevedere l'inutilizzabilità dei relativi risultati. Ammettendo una "sanatoria" ex post di tali violazioni, legata agli esiti della perquisizione o dell'ispezione, si verrebbe, per converso, a negare la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia giudiziaria”.

La Corte Costituzionale aveva già affrontato la questione nella sentenza n. 219/2019 (del 22/05/2019, depositata il 15/07/2019, redattore MODUGNO), secondo cui “la tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei «frutti dell'albero avvelenato»”, imporrebbe alla Corte di procedere con una pronuncia additiva e manipolativa. “La richiesta di addizione, dunque, non soltanto mira ad introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità di ciò che l'ordinamento prescrive come attività obbligatoria (il sequestro del corpo del reato), ma si propone altresì di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria: preclusione, quest'ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost. Va da sé, peraltro, che se è vero quanto afferma il giudice a quo a proposito del fatto che le regole che stabiliscono divieti probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure volte anche a disincentivare possibili “abusi” – è noto, al riguardo, che nei sistemi di common law la finalità prevalente delle exclusionary rules è proprio quella di deterrence – è altrettanto vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito dall'ordinamento a traverso la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria, come d'altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità”.

Nella sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha precisato che il vizio di inutilizzabilità resta soggetto, come la nullità, ai paradigmi di tassatività e legalità. Pertanto, “è solo la legge a stabilire - con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, «in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare»”. Di qui l'impossibilità, ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, “di riferire all'inutilizzabilità il regime del "vizio derivato", che l'art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità”. D'altronde, per la Corte Costituzionale, “lo stesso assunto del giudice a quo - evocativo della cosiddetta teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" - secondo il quale la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole "non paganti"), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore. L'obiettivo di disincentivare possibili abusi risultava, peraltro, perseguito dall'ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta "abusiva" della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità”.

Quest'ultimo assunto – da cui è lecito desumere che se la Corte avesse affrontato nel merito la questione l'avrebbe dichiarata infondata – sembra “convalidare” l'interpretazione della giurisprudenza prevalente sull'inapplicabilità del principio desumibile dall'art. 185 c.p.p. al regime dell'inutilizzabilità.

Pertanto, anche in ipotesi di perquisizione illegittima, saranno pienamente utilizzabili gli esiti del sequestro ove di per sé legittimo. Detto assunto è evidentemente sostenibile anche nell'ipotesi di cui all'art. 103 comma 3 d.P.R. 309 del 1990 in cui all'autorizzazione orale del pubblico ministero non sia seguita una convalida motivata della perquisizione nelle successive 48 ore. Lo stupefacente legittimamente sequestrato in quella occasione potrà essere esaminato e gli esiti potranno essere validamente utilizzati nel procedimento.

Quanto alla testimonianza degli operatori di polizia giudiziaria in caso di perquisizione illegittima, già le Sezioni Unite, nella sentenza Sala, avevano rappresentato che gli stessi “potevano legittimamente offrire il contributo conseguente alla loro diretta partecipazione al procedimento acquisitivo del corpo di reato, soggetto, per la sua intrinseca illiceità penale, a confisca obbligatoria”.

L'assunto sull'utilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali degli operanti di polizia giudiziaria pare confermato, seppur indirettamente, dalla Corte Costituzionale nella sentenza in commento: “la conclusione valeva a fortiori in rapporto alla richiesta "collaterale" del rimettente di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla polizia giudiziaria in ordine alle attività compiute: «preclusione, quest'ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost.»”.

Osservazioni

C'è da chiedersi se le motivazioni utilizzate dalla Corte Costituzionale n. 252/2020 per dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell'art. 191 c.p.p. influenzeranno la giurisprudenza di legittimità. Se si sostiene che il principio di inutilizzabilità derivata non è previsto nel nostro ordinamento, si può giungere a ritenere utilizzabile quanto legittimamente sequestrato senza scomodare la doverosità del sequestro ex art. 253 comma 1 c.p.p. perché altrimenti si finirebbe nella tautologia. La sentenza Sala, del resto, aveva richiamato l'art. 253 comma 1 c.p.p. perché in caso contrario “l'illegittimità della ricerca della prova” avrebbe diffuso“i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca”, rendendo invalidi gli esiti del sequestro. Il negare validità al principio dell'inutilizzabilità derivata finisce tuttavia per rendere utilizzabili gli esiti dei sequestri di qualsivoglia bene sequestrabile, e non esclusivamente di quei beni suscettibili di confisca per cui il sequestro risulta doveroso. Per restare in tema di stupefacenti, saranno sicuramente utilizzabili, anche in caso di perquisizione illegittima, lo stupefacente sequestrato e gli strumenti atti al confezionamento o alla preparazione dello stupefacente, quali bilancini di precisione, buste per la preparazione delle dosi o strumenti necessari per il taglio della sostanza stupefacente. Ma che dire del telefono cellulare del perquisito, in cui talvolta possono reperirsi messaggi o chat da cui emerge la cessione a terzi di stupefacente? Lo stesso può essere considerato cosa pertinente al reato esclusivamente in presenza del necessario nesso strumentale di asservimento tra cosa e reato, ovvero se sia stato utilizzato per commettere il delitto di cui all'art. 73 d.P.R. 309 del 1990. Tuttavia, al momento del sequestro, la polizia giudiziaria non ha di regola elementi per sostenere la sussistenza di detto asservimento, perché le conversazioni, ove esistenti, possono essere estrapolate – nella maggior parte dei casi – esclusivamente all'esito di un accertamento tecnico successivo. C'è da chiedersi, in caso di perquisizione inutilizzabile, se i dati informatici estrapolati dal telefono sequestrato possano essere utilizzati. Se la circostanza poteva essere controversa secondo l'impostazione della sentenza Sala, non sembrano sorgere dubbi sull'utilizzabilità alla luce della giurisprudenza successiva e dell'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 252 del 2020.

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