Concorso apparente di norme e reati “complessi”: il rapporto tra atti persecutori e omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5.1 c.p.

Irma Conti
16 Dicembre 2020

Tra gli artt. 576, comma 1, n. 5.1, e art. 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell'art. 84, comma 1, c.p. e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l'omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie...
Massima

Tra gli artt. 576, comma 1, n. 5.1, e art. 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell'art. 84, comma 1, c.p. e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l'omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente nei confronti della medesima persona offesa.

Il caso

La sentenza in oggetto riguarda il caso di G.P. che, al termine di una relazione sentimentale, ha posto in essere una serie di condotte persecutorie, violente e asfissianti nei confronti della sua ex compagna, sfociate in un tentato omicidio. Per tale reato, aggravato ai sensi dell'art. 576 comma 1 n. 5.1. c.p. (ovvero quando è commesso dall'autore del delitto previsto dall'articolo 612-bis nei confronti della stessa persona offesa), l'imputato è stato condannato con sentenza passata in giudicato emessa dalla Corte di Assise di Cosenza nel 2015. Sempre nel contesto delle medesime condotte, G.P. è stato rinviato a giudizio e poi condannato in primo grado per i delitti di violenza sessuale, sequestro di persona, violenza privata, porto ingiustificato di coltello e furto aggravato. La Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto G.P. dal delitto di furto aggravato, di cui al capo C), perché il fatto non sussiste, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti del medesimo in relazione al reato di porto ingiustificato di coltello, contestato al capo A), perché estinto per prescrizione, e, per l'effetto, rideterminava la pena in dieci anni e sette mesi di reclusione, nel resto confermando la pronuncia di primo grado. L'imputato ha proposto pertanto ricorso lamentando la violazione delle lett. c) ed e) del primo comma dell'art. 606 c.p.p. con riferimento al principio del ne bis in idem per quanto attiene all'imputazione di atti persecutori che deve essere ritenuta assorbita dalla fattispecie di omicidio aggravato per la quale G.P. è già stato condannato con sentenza irrevocabile.

La questione

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ha dovuto affrontare l'ardua questione del concorso apparente tra norme ipotizzabile nel caso in cui ci si trovi di fronte a reati cd. “complessi” ai sensi dell'art. 84, comma 1, c.p. (che si realizzano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato).

In particolare, nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, l'imputato G.P., già condannato con sentenza definitiva per il delitto di tentato omicidio aggravato dalla circostanza che la condotta omicidiaria era avvenuta al culmine di molteplici condotte di stalking (ex art. 576, comma 1, n. 5.1 c.p.), è stato successivamente condannato per il delitto di atti persecutori (e per gli altri reati sopra elencati) dal Tribunale di Castrovillari.

La Corte ha pertanto dovuto prendere in considerazione l'aggravante introdotta dall'art. 576, comma 1, n. 5.1. c.p. al fine di valutare in che rapporto essa si ponga con il reato di cui all'art. 612-bis c.p. commesso ai danni della stessa persona.

E ciò al fine di valutare se tali fattispecie si pongano in rapporto di concorso materiale, o se sussiste un concorso formale tra norme con assorbimento della fattispecie di atti persecutori in quella di omicidio aggravato.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento rappresenta solo il secondo caso in cui è stata profilata la questione del concorso apparente tra le fattispecie di cui all'art. 612-bis c.p. e dagli artt. 575 e 576 comma 1 n. 5.1 c.p.

Nel corso della motivazione, infatti, la Corte ha evidenziato come esista un solo precedente della Corte di legittimità su tale tematica, ovvero la sentenza n. 20786 del 12/04/2019, dep. 14/04/2019, emessa dalla I Sezione che ha ritenuto insussistente il concorso apparente.

Nella sentenza in commento la Corte si è nettamente distanziata dalla precedente pronuncia, fondando il proprio iter logico giuridico su motivazioni diametralmente opposte e cercando di risalire a quella che è la ratio dell'aggravante dell'art. 576 n. 5.1. c.p. secondo l'interpretazione desumibile anche dai lavori preparatori.

Per giungere a tali conclusioni, la Corte ha prima preso in considerazione le condotte addebitate a G.P. nella prima sentenza della Corte di Assise di Cosenza e in quella di Castrovillari per poter verificare, sotto un profilo oggettivo e soggettivo, l'identità delle condotte da valutare ai fini della sussistenza del ne bis in idem.

Nella sentenza passata in giudicato G.P. è stato condannato anche per la contestata aggravante in quanto «sono emerse chiaramente le minacce anche di morte per il caso in cui fosse stato lasciato, la gelosia e la possessività abnormi, la tendenza a controllare ogni minimo spostamento della ex compagna, gli appostamenti per strada e nei pressi dell'abitazione, le molestie reiterate anche per mezzo di numerosissimi contatti telefonici, addirittura una violenza privata e una tentata violenza sessuale compiute in una zona isolatissima, boschiva e montana, di Saracena, tutte circostanze tali da provocare un perdurante stato d'ansia nella donna, elemento costitutivo del delitto in oggetto».

Nella sentenza di Castrovillari, invece, G.P. era imputato al capo B) di avere posto in essere «nei confronti della propria ex compagna C.G. ripetuti comportamenti assillanti e violenti, consistiti in frequenti appostamenti all'esterno dell'uscio di casa, sul solaio della stessa ovvero in un piccolo vano contigui all'abitazione ed adibito a legnaia ovvero nei luoghi frequentati dalla donna, nonché nel pretendere di accompagnare la C. in tutti i suoi spostamenti, come pure in costanti richieste alla donna di giustificare tutti i suoi spostamenti, nel porre in essere ripetute ed ingiustificate scenate di gelosia, nel telefonarle continuamente ed inviarle una moltitudine di sms in cui si informava dei suoi movimenti e le ripeteva in modo ossessivo che non doveva lasciarlo, nel minacciala che l'avrebbe ammazzata se avesse interrotto la loro relazione e nel percuoterla con schiaffi, creava nella predetta uno stato di paura e disagio emotivo, ingenerando in lei in timore per l'incolumità propria e dei propri congiunti e conviventi, così incidendo sul relativo modus vivendi e sul complessivo stato psichico».

Dal mero confronto delle due condotte, poste in essere nei confronti della medesima persona offesa, emerge l'assoluta identità della contestazione e quindi, ai fini del ne bis in idem una precisa convergenza tanto di carattere oggettivo, che soggettivo.

Tanto premesso, la Corte ha dovuto valutare se la medesima condotta ha integrato due diverse fattispecie o se quella di cui agli artt. 575 e 576 comma 1 n. 5.1. c.p. abbia assorbito quella di atti persecutori.

Nell'unico precedente di legittimità, la Corte aveva escluso la sussistenza di un concorso apparente su un'interpretazione estremamente restrittiva e letterale delle due norme.

In particolare, nella sentenza del 2019, la Corte di Cassazione aveva evidenziato che non si può sostenere che sussista un concorso apparente in quanto la «locuzione (contenuta nell'art. 576 n.5.1 c.p.) che allude a un'occasionalità esistente tra i fatti commessi» avrebbe una natura soggettiva e che la stessa non riguarda le condotte, ma il soggetto che le ha poste in essere. L'aggravante del delitto di omicidio di cui al n. 5.1., infatti, si applicherebbe con riferimento all'autore di quel delitto, al contrario di altre aggravanti, quale quella del n. 5m che si applica nel caso in cui la condotta omicidiaria sia stata posta in essere in occasione della commissione di alcuni reati.

In estrema sintesi, secondo la prima sentenza della Corte, tale aggravante «non appartiene alla condotta e alle sue modalità di commissione e quindi non si pone al centro di un rapporto di interferenza tra le fattispecie», tra le quali intercorre «una relazione di piena compatibilità perchè la commissione degli atti persecutori, reato di natura abituale e a condotta tipizzata, non involge in alcun modo la commissione del fatto di omicidio, reato di natura istantanea e causalmente orientato».

Tale interpretazione è stata completamente rigettata dalla sentenza in commento, partendo da una constatazione tanto semplice, quanto efficace.

La Cassazione, infatti, ha evidenziato come non si possa attribuire all'aggravante una natura “soggettiva” sulla sola base della litera legis (“dall'autore del delitto previsto dall'articolo 612 bis”) in quanto «l'infelice e incerta formulazione della norma non può giustificarne un'interpretazione soggettivistica, incentrata sul tipo di autore, senza considerare che la pena si giustifica non per ciò che l'agente è, ma per ciò che ha fatto».

Partendo da questa sintetica ed efficace sintesi, la Corte ha elaborato pertanto un principio di diritto di segno diametralmente opposto a quello della sentenza del 2019, partendo dal concetto di reato complesso.

Secondo la Corte, infatti, l'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, deve essere considerato, a tutti gli effetti, un reato complesso in senso stretto ai sensi dell'art. 84 c.p., comma 1, norma che esclude l'applicazione delle disposizioni sul concorso di reati «quando la legge considera (...) come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé
stessi, reato».

Sulla base del rigetto della tesi soggettivistica e in forza all'affermazione dell'esistenza di un reato complesso, anche in considerazione della ratio sottesa all'introduzione della norma, la Corte ha pertanto evidenziato come una diversa risoluzione comporterebbe una palese violazione dei criteri dell'art. 84 c.p. con la conseguenza che l'autore materiale del reato verrebbe punito due volte.

La Corte ha infatti evidenziato che seguendo la tesi della precedente sentenza di legittimità «gli atti persecutori sono addebitati all'agente due volte: come reato autonomo, ai sensi dell'art.612-bis c.p., e come specifica circostanza aggravante dell'omicidio, ai sensi dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, sebbene il disvalore della condotta sia già integralmente ed adeguatamente considerato da quest'ultima norma, che commina la pena dell'ergastolo».

Sulla scorta di tale, apprezzabile, iter logico giuridico, la Corte ha sancito il principio di diritto secondo il quale tra gli art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, e art. 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell'art. 84 c.p., comma 1, e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l'omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente nei confronti della medesima persona offesa.

Osservazioni

La sentenza in esame non solo è di grande interesse in quanto rappresenta uno dei pochissimi casi in cui è stato affrontato lo spinoso tema del concorso apparente tra l'art. 576 comma 1 n. 5.1. c.p. e 612-bis c.p., ma in quanto la Corte abbandona, in modo encomiabile, una rigida e troppo formalistica visione del rapporto apparente tra norme per arrivare all'elaborazione di un nuovo principio di diritto assai più coerente con quella che è la ratio sottesa all'introduzione della summenzionata aggravante.

Come è stato sopra evidenziato, infatti, è assolutamente immotivato attribuire all'aggravante una natura soggettiva solo in considerazione della litera legis e di una formulazione che la stessa Corte di Legittimità reputa “incerta ed infelice”.

Come è stato magistralmente evidenziato in sentenza, infatti, l'aggravante della pena dell'ergastolo non viene applicata perché l'agente è uno stalker e quindi in forza di una qualifica soggettiva, ma in quanto l'omicidio è stato preceduto da condotte persecutorie che siano culminate con la soppressione della vita della persona offesa.

Tale concetto trova conferma anche alla luce dei lavori preparatori alla l. 23 aprile 2009, n. 38 (che ha introdotto l'aggravante in parola) e ciò in quanto, come evidenziato in sentenza, in essi «si è unanimemente riconosciuta la necessità di una connessione tra i due fatti tale da giustificare la severa pena dell'ergastolo, con l'introduzione dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, la volontà del legislatore è proprio quella di reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento il numero di omicidi consumati ai danni delle vittime di atti persecutori, obiettivo è stato perseguito con l'introduzione di una specifica aggravante che comporta la pena dell'ergastolo».

Per tali ragioni, l'approccio avuto dalla Corte nella sentenza in commento risulta essere sicuramente più coerente con la ratio legis e costituisce un importante risultato dal punto di vista ermeneutico per le successive pronunce in tema di concorso apparente tra norme.

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