Mobbing e atti persecutori: un'equazione ammissibile?
11 Dicembre 2020
Massima
Gli atti vessatori diretti a mortificare e isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro possono integrare gli estremi del delitto di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., quando ricorrano gli elementi costituivi del fatto reato e, in particolar modo, uno degli eventi alternativi previsti dalla norma incriminatrice. Il caso
In riforma dell'ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari, il Tribunale del Riesame di Torino ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. nei confronti dell'amministratore delegato di una società, accusato di aver sottoposto a plurime condotte persecutorie un dipendente, responsabile delle risorse umane. Contro l'ordinanza di riesame, l'indagato ha proposto ricorso per cassazione censurando, fra l'altro, l'erronea qualificazione giuridica del fatto reato. Più in particolare, secondo la difesa, il Tribunale avrebbe violato gli artt. 612-bis c.p. e 2087 c.c., ritenendo configurabile il reato benché la condotta non avesse interessato la vita privata della persona offesa, così come richiede lo stalking occupazionale, ma si fosse esaurita nell'ambito del rapporto di lavoro. L'ordinanza, inoltre, avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato di atti persecutori, operando una indebita delibazione dei profili giuslavoristici della vicenda e risolvendo la prova del dolo nella soggettiva percezione della persona offesa. La questione
La questione è se e a quali condizioni il delitto di atti persecutori previsto dall'art. 612-bis c.p. possa trovare applicazione alle pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione. Le soluzioni giuridiche
In motivazione, la Cassazione fa il punto dell'elaborazione giurisprudenziale in materia di mobbing, tracciando una rotta argomentativa che dalla definizione del fenomeno coniata in ambito giuslavoristico approda alle pronunce del giudice penale, che hanno opportunamente inquadrato la fattispecie nella cornice dei maltrattamenti in famiglia di cui all'art 572 c.p. Per prima cosa, la sentenza individua il tratto saliente del fenomeno nell'intendimento persecutorio che deve avvincere gli atti vessatori unificandoli in una condotta unitaria: perché ricorra un'ipotesi di mobbing – si osserva – non è sufficiente che il datore di lavoro maltratti ripetutamente il lavoratore ma occorre che quelle vessazioni rispondano a un disegno preordinato alla prevaricazione (di cui, beninteso, andrà fornita prova concreta). Il mobbing viene, dunque, identificato con la mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro. Quindi, la sentenza affronta la questione della rilevanza penale del mobbing, richiamando quel diffuso indirizzo interpretativo che riconduce il fenomeno nell'alveo del reato di maltrattamenti in famiglia, con cui il mobbing condivide il dato dell'abituale serialità delle condotte pretestuose, il dato della sistematicità e corrispondente strumentalità delle stesse in relazione all'effetto pregiudizievole voluto (in capo al soggetto bersaglio) e, non da ultimo, il dato dell'intenzionalità del contegno attuato che cementa e travalica i singoli episodi offensivi (cfr. VERRUCCHI, Rilevanza penale del mobbing, in Dir. pen. proc., 2008, 897). La sentenza aderisce, in particolare, alla più circoscritta opzione ricostruttiva secondo cui i maltrattamenti ex art. 572 c.p. si configurano solo quando le vessazioni si manifestino in un contesto lavorativo di tipo para-familiare: caratterizzato, cioè, da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre una posizione di supremazia (Cass. pen., Sez. IV, 6 febbraio 2009, n. 26594). La norma, beninteso, non punisce espressamente la discriminazione del lavoratore ma tutela il soggetto più debole dall'abuso di quegli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto di lavoro subordinato dalla parte datoriale, quanto i vincoli lato sensu (para)familiari. In quest'ottica, incentrata sulla tutela dell'integrità psico-fisica del dipendente esposto ai ripetuti atteggiamenti ostili e mortificanti assunti nei suoi confronti nel contesto lavorativo, la Cassazione non esclude – anzi, ritiene legittima – la contestazione del reato di atti persecutori, a condizione che le vessazioni producano nella vittima uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti in una delle tre forme previste dall'art. 612-bis c.p. (un perdurante e grave stato di ansia o di paura, un fondato timore per l'incolumità propria o di un proprio caro, l'alterazione delle proprie abitudini di vita). Invero, se il mobbing consiste in una serie reiterata di comportamenti prevaricatori destinati a incidere sul piano fisico e morale del lavoratore, la condotta potrà ragionevolmente integrare il reato di atti persecutori, il cui nucleo essenziale è costituito dalla lesione della libertà morale della vittima quale effetto della persecuzione ordita ai suoi danni. Del resto, conclude la sentenza, la condotta persecutoria parrebbe potersi esplicarsi in qualsiasi ambito della vita, ivi compreso quello lavorativo, dal momento che certe specifiche ambientazionielaborate dalla letteratura sociologica (stalking condominiale, giudiziario, occupazionale) hanno soltanto valore descrittivo. Osservazioni
Ancorché non ritenuta implausibile da una parte della dottrina (Cfr. MAUGERI, Lo Stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2011, 201 ss.), la soluzione di reprimere le prevaricazioni sul lavoro attraverso il reato di atti persecutori, peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito (Tribunale di Taranto, 7 aprile 2014, n. 176), suscita forti perplessità, che il contorto iter argomentativo della sentenza non aiuta certo a fugare. Per di più, tra le righe della motivazione traspare una certa insofferenza nei confronti di nozioni socio-criminologiche di cui, viceversa, sarebbe stato opportuno tenere conto. Molto discutibile appare soprattutto la confusione concettuale tra mobbing e stalking che, pur condividendo l'abitualità della condotta e il danno psicologico procurato alla vittima, sono fenomeni profondamente diversi nei moventi e nel modus operandi. L'ampia categoria del mobbing designa, come noto, la reiterazione nel tempo di comportamenti ostili e prevaricatori nei confronti di un lavoratore più debole, tenuti dai colleghi o dal datore di lavoro allo scopo di emarginarlo con conseguente danno al suo equilibrio psicofisico. Lo stalking, viceversa, consiste in una forma di persecuzione realizzata attraverso comportamenti intrusivi nella sfera privata, che si manifestano in forme di controllo, sorveglianza e ricerca di contatto con la vittima, che ne compromettono la libertà di autodeterminazione. In estrema sintesi, lo stalking rappresenta una degenerazione delle relazioni personali, che avvitandosi in una ossessiva escalation persecutoria può anche degenerare in reati più gravi. Il mobbing, invece, si estrinseca in una degenerazione del rapporto di lavoro, il cui scopo è la sostanziale espulsione dal contesto lavorativo. Come si vede, mobbing e stalking hanno motivazioni opposte, si realizzano in contesi diversi e si esplicano con modalità differenti: lo stalking è un crimine per lo più monosoggettivo, una persecuzione totale che lo stalker attua per costringere la vittima a un rapporto; il mobbing attiene al settore lavorativo, può essere realizzato da più persone e talvolta risponde a vere e proprie strategie aziendali di ridimensionamento o ringiovanimento degli organici (cfr. OLIVA, Mobbing: quale risarcimento? in Danno e resp., 2000, 28). Pur senza perdere la loro specificità, i due fenomeni s'intersecano, tuttavia, nel c.d. stalking occupazionale, espressione che designa, secondo la migliore dottrina, un'attività persecutoria che si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene invece dall'ambiente di lavoro (cfr. EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul luogo di lavoro, Milano, 2005, 109 ss.). Comunemente, i casi di stalking occupazionale sono correlati a precedenti casi di mobbing, di cui possono costituire una sorta di rinforzo esterno al contesto lavorativo mirato a ottenere l'emarginazione del lavoratore, oppure un'appendice qualora il tentativo di mobbing non sia andato a buon fine. Ma è altresì possibile che vittima di stalking occupazionale sia un datore di lavoro perseguitato da un dipendente animato da un forte risentimento o la lavoratrice che abbia rifiutato le avances sessuali del collega molesto (cfr. PUZZO, Stalking e casi di atti persecutori, Maggioli, 2014, 95). Si tratta, dunque, di un fenomeno che, a prima vista, parrebbe rafforzare l'impressione di una parentela tra mobbing e stalking ma che, ad una più attenta analisi, conferma l'irriducibile diversità di finalità, caratteristiche e contesti di riferimento dei due fenomeni. Proprio sulla differenza tra mobbing e stalking nella sua declinazione occupazionale si appuntavano, nel caso in esame, i rilievi difensivi circa la corretta qualificazione del reato contestato al datore di lavoro. In particolare, la difesa aveva sottolineato come il rapporto conflittuale fosse rimasto confinato nell'ambito lavorativo, senza mai invadere la sfera privata della persona offesa. Al rilievo la Cassazione ha replicato che l'ambiente lavorativo non è una zona franca dello stalking e che la determinazione del contesto in cui si è consumata la condotta è irrilevante allorché i reiterati comportamenti ostili abbiano procurato un danno psicologico nei termini indicati dall'art. 612-bis c.p. L'argomento, però, non coglie nel segno e risente di una discutibile inclinazione a privilegiare il dato letterale della norma, sottovalutando le indicazioni fornite dalle scienze sociali nella ricostruzione di fenomeni complessi, che non si prestano a semplicistiche equazioni (in questi termini, PISANI, Il mobbing come stalking: prospettive e limiti, in dirittopenalecontemporaneo.it). Come si è detto, le vessazioni del mobber non si propongono di minare la libertà morale della persona offesa e, in particolare, la sua tranquillità individuale, come accade nello stalking. Esse mirano, piuttosto, a rendere ostile al lavoratore l'ambiente di lavoro circostante, compromettendo in primo luogo la sua dignità di lavoratore. Il contesto costituisce, dunque, un elemento di specificità del fenomeno, che non può essere ridotto – come propone la sentenza – a mera nota descrittiva. L'area fenomenica dell'illecito (ambiente lavorativo o sfera privata) consente, infatti, di lumeggiare la direzione finalistica dell'atto persecutorio, orientando di conseguenza la risposta penale (cfr. PISANI, cit.). Detto in termini forse più chiari: se le vessazioni e le prevaricazioni restano circoscritte all'ambiente di lavoro (e dunque sono animate da ragioni lavorative), non c'è nessuna ragione per discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale che associa il mobbing ai maltrattamenti in famiglia. D'altra parte, a favorire l'abbinamento concettuale tra il mobbing e il reato di cui all'art. 572 c.p. è proprio la natura del rapporto intersoggettivo tra datore di lavoro e lavoratore subordinato: un rapporto che, “essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti” (Cass. pen., Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 10090). Il catalogo dei soggetti passivi presi in considerazione dall'art. 572 c.p. non si limita, infatti, ai soli familiari o ai minori infraquattordicenni ma si estende a tutti coloro che siano sottoposti all'autorità del soggetto attivo o gli siano affidati per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte. I riferimenti alla famiglia, all'età e alle relazioni fondate su autorità e affidamento condividono il medesimo scopo: individuare sinteticamente i soggetti attivi e passivi del reato, mettendo in evidenza come il delitto di maltrattamenti presupponga una relazione interpersonale – talora di tipo familiare, talaltra fondata sull'autorità e la fiducia – destinata a protrarsi nel tempo (cfr. COPPI, Maltrattamenti in famiglia, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1975, XXV, 231). La natura di questo rapporto marca, dunque, la differenza tra mobbing e stalking e consente alla fattispecie prevista dall'art. 572 c.p. di rispecchiare in maniera più tassativa le condotte di mobbing contrassegnate dall'abuso della posizione di supremazia ricoperta dal superiore gerarchico. Per contro, il delitto di atti persecutori non richiede questo rapporto soggettivo tra l'agente e la vittima. La stessa giurisprudenza di legittimità ha, del resto, chiarito che il reato di maltrattamenti in famiglia “è un reato proprio che può essere commesso solo da chi rivesta un ruolo nel contesto familiare (coniuge, genitore, figlio) e soltanto ai danni di un soggetto che faccia parte dell'aggregazione familiare, lato sensu intesa, laddove invece il reato di stalking può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati e non presuppone l'esistenza di relazioni soggettive specifiche tra l'agente e il soggetto passivo del reato” (Cass. pen., Sez. VI, 15 novembre 2019 n. 46476) Omologando la risposta penale a fenomeni diversi, attraverso un controverso allineamento del rapporto lavorativo para-familiare alla tutela dell'integrità psichica, la Cassazione pare aver forzato i termini della questione, prospettando una soluzione che, a ben vedere, rasenta la violazione occulta del divieto di analogia. ALBERICO, Stalking; COPPI, Maltrattamenti in famiglia, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1975; DI FRESCO, Mobbing; DI FRESCO, Mobbing e maltrattamenti in famiglia: un automatismo giurisprudenziale da rivedere? In Foro it., II,2009, 534; EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul luogo di lavoro, Milano, 2005; MAUGERI, Lo Stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2011; OLIVA, Mobbing: quale risarcimento? in Danno e resp., 2000,28; PICCININI, Mobbing (lavoro privato e pubblico), voce dell'Enciclopedia giuridica Treccani, 2004, XX PISANI, Il mobbing come stalking: prospettive e limiti, in dirittopenalecontemporaneo.it; PUZZO, Stalking e casi di atti persecutori, Maggioli, 2014; VERRUCCHI, Rilevanza penale del mobbing, Dir. pen. proc., 2008. |