La Prefettura non è parte del procedimento di prevenzione per l'applicazione del controllo giudiziario “volontario”
21 Luglio 2020
Massima
La parte pubblica del procedimento di prevenzione, titolare del potere di introdurre l'atto di impugnazione avverso una decisione terminativa del procedimento, è identificata dal legislatore nel Procuratore della Repubblica e nel Procuratore Generale con esclusione di altri soggetti pubblici. Né a conclusioni diverse può pervenirsi in riferimento al fatto che la Prefettura sia stata coinvolta nella trattazione preliminare della domanda della società destinataria della informazione interdittiva. Il caso
Il Tribunale di Lecce, Sezione per le misure di prevenzione, con ordinanza emessa in data 28 giugno 2019 applicava, su domanda di una S.r.l., la misura di prevenzione del controllo giudiziario ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 34-bis, comma 6 (e ss.mm.) per la durata di anni due, con prescrizioni. Dal provvedimento risultava che: a) in data 15 marzo 2019 la Prefettura di Lecce aveva adottato informazione antimafia interdittiva nei confronti della società ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 91; b) il provvedimento amministrativo era stato oggetto di impugnazione in sede di giurisdizione amministrativa da parte della società destinataria; c) prima della decisione del Tribunale di Lecce la Prefettura – in sede di trattazione preventiva della domanda – aveva chiesto, con memoria introdotta dall'Avvocatura dello Stato, il rigetto dell'istanza; d) gli argomenti introdotti dalla Prefettura erano stati oggetto di valutazione da parte del Tribunale. Avverso detta ordinanza interponeva ricorso per cassazione, tramite l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, la Prefettura–Ufficio Territoriale del Governo di Lecce, deducendo erronea applicazione della disciplina regolatrice ed in particolare del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 34, comma 6, e vizio di motivazione.
La questione
I supremi giudici hanno rammentato che il regime di impugnazione della decisione sulla domanda di ammissione al controllo giudiziario delle aziende – ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 34, comma 6 – è stato di recente delineato da Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2019 (dep. 19 novembre 2019, n. 46898), come evidenziato nella requisitoria scritta del Procuratore Generale, in sede di risoluzione di un contrasto interpretativo. In detta decisione si è affermato che: "le decisioni del tribunale sulle richieste in tema di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione all'amministrazione giudiziaria, legate con le prime in un unico sottosistema, debbano andare soggette al mezzo di impugnazione generale previsto dal d.lgs. n. 159 del 2011, art. 10 come già testimoniato, per le altre misure patrimoniali, dal richiamo contenuto nell'art. 27 e nell'art. 34, comma 6, u.p., e come del resto reso necessario dal dovere di sopperire a ingiustificate aporie normative, pur in presenza di effetti incisivi del tutto assimilabili su beni e interessi omogenei tutelati dall'ordinamento". Da ciò l'opzione decisoria introdotta dal Procuratore Generale, tendente alla qualificazione dell'atto di ricorso per cassazione in esame in appello, in applicazione del principio generale di conservazione degli effetti dell'atto di cui all'art. 568,comma 5, c.p.p. Tuttavia tale opzione non è apparsa percorribile ai Supremi giudici per le ragioni di seguito esposte. Le soluzioni giuridiche
È stato precisato in primis che il d.lgs. n. 159 del 2011, art. 10 attribuisce la titolarità del potere di proporre impugnazione nel modo che segue: "il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte di appello e l'interessato e il suo difensore hanno facoltà di proporre ricorso alla corte d'appello, anche per il merito". Nel sistema processuale delle misure di prevenzione si applicano, altresì, i principi generali in tema di impugnazione espressi nelle disposizioni di cui agli artt. 568/592 c.p.p., se non espressamente derogati, in forza dei contenuti della disposizione di rinvio di cui all'art. 10, stesso comma 4 (il rinvio, con riserva di compatibilità, è alle disposizioni in tema di ricorsi avverso le misure di sicurezza disposte in sede penale ed dell'art. 680 c.p.p., il comma 3 contiene, a sua volta, il riferimento alle diposizioni generali in tema di impugnazioni nel processo penale). Non vi è dubbio, pertanto, circa il fatto che anche nel sistema della prevenzione sia da ritenersi vigente il generale principio di tassatività in punto di individuazione dei soggetti titolari del potere di proporre una impugnazione, ai sensi dell'art. 568 c.p.p., comma 3, con necessità di un'attribuzione legale del medesimo e fermo restando che se la legge non distingue tra le diverse parti tale diritto spetta a ciascuna di esse. Vi è dunque un primo, essenziale, aspetto da chiarire che risulta – a parere dei giudici di legittimità – preliminare rispetto alla operazione di diversa qualificazione dell'impugnazione proposta (ricorso per cassazione) in un mezzo diverso (appello), rappresentato dalla verifica della stessa esistenza – o meno – del potere di impugnare in capo al soggetto che ha introdotto l'atto contenente la critica. Le stesse Sezioni Unite, nella decisione n. 45371 del 31 ottobre 2001, Bonaventura, hanno affermato che lì dove la parte (e dunque un soggetto titolare del potere di proporre impugnazione) abbia introdotto un mezzo di impugnazione diverso da quello previsto, il giudice che riceve l'atto deve limitarsi a verificare l'effettiva volontà di impugnare e l'oggettiva impugnabilità del provvedimento, senza anticipare la valutazione dei contenuti o di altri aspetti formali dell'atto, che spetta al giudice ritenuto competente. Tutto ciò, tuttavia, presuppone che l'indagine sulla volontà di impugnare e sulla oggettiva impugnabilità della decisione, al mero fine di individuare il giudice competente secondo le attribuzioni legali, si ricolleghi ad un atto "proveniente" da un soggetto titolare del potere di stimolare una rivedibilità dei contenuti della prima decisione: " la regola di cui all'art. 568 c.p.p., comma 5 (..) attiene alla esatta qualificazione dell'atto che abbia esistenza giuridica come manifestazione di volontà avente i caratteri minimi necessari per essere riconoscibile in relazione al tipo funzionale" come precisato al par. 4 della citata decisione Sez. Unite. Bonaventura. Dunque lì dove ci si trovi in presenza di una manifestazione di volontà di impugnare non proveniente da un soggetto titolare dell'astratto potere di farlo, non può applicarsi la disposizione di legge di cui all'art. 568,comma 5, c.p.p., posto che viene meno il requisito essenziale perché possa parlarsi di un "atto" di impugnazione. Tutto ciò sposta l'indagine non già sul mezzo di impugnazione prescelto, ma sull'esistenza o meno del potere di proporre impugnazione in capo alla Prefettura, nel caso in esame, di Lecce. Detto potere non è stato ritenuto esistente. L'elencazione dei soggetti titolari del potere di impugnare, di cui all'art. 10, prima citato, va letta in rapporto alla distinzione tra parte pubblica – il procuratore della Repubblica ed il procuratore generale presso la corte di appello – e parte privata, cui è riferibile l'espressione di sintesi "interessato" nonché al difensore di questa ultima. In particolare l'avvenuto utilizzo, da parte del legislatore, del termine "interessato" consente di ricomprendere (già nel previgente modello normativo di cui alla l. n. 1423 del 1956, art. 4) tra i titolari del potere di impugnazione non soltanto il soggetto proposto per l'applicazione della misura di prevenzione ma anche i terzi, intesi quali soggetti incisi in diritti patrimoniali dalla pronunzia emessa all'esito del procedimento (si v., in particolare Cass. pen., Sez. II, 17 ottobre 2002, n. 40880, ove si è affermato che il procedimento di prevenzione ha istituzionalmente i suoi necessari referenti nel pubblico ministero e nel proposto, sicché l'omessa citazione del terzo, al quale sono intestati i beni ritenuti nella disponibilità del proposto, sia che si tratti di una mancata partecipazione sin dall'inizio del procedimento o di una mancata partecipazione solo,, ad alcune fasi del medesimo, non ne comporta la nullità e non invalida l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, ferma restando la facoltà dell'estraneo di esplicare le sue difese mediante incidente di esecuzione; nonché, quanto alla legittimazione degli eredi del soggetto pericoloso, v. Cass. pen. Sez. V, 14 ottobre 2015, n. 136). In altre parole, la parte pubblica del procedimento di prevenzione, titolare del potere di introdurre l'atto di impugnazione avverso una decisione terminativa del procedimento (ed ammesso che la decisione con cui si apre la fase del controllo giudiziario possa essere ritenuta tale, aspetto non dirimente ai fini della presente motivazione), è identificata dal legislatore nel Procuratore della Repubblica e nel Procuratore Generale con esclusione di altri soggetti pubblici. Nè a conclusioni diverse può pervenirsi in riferimento al fatto che la Prefettura sia stata, nel caso in esame, coinvolta nella trattazione preliminare della domanda della società destinataria della informazione interdittiva. Tale aspetto, derivante da valutazioni compiute dal giudice del merito investito dalla domanda della parte privata, si ricollega alla generale necessità cognitiva sulle condizioni preliminari di ammissibilità della domanda medesima e non ha alcun effetto quanto al regime delle impugnazioni, non potendosi sostenere che la Prefettura assuma – per ciò solo – la qualità di parte del procedimento. Gli interessi pubblici sono espressamente e unicamente affidati dal legislatore alla cura del Procuratore distrettuale competente e l'eventuale ammissione al controllo su domanda non si risolve certo in un esame dei contenuti del provvedimento amministrativo, posto che ciò dipende da una complessiva disamina – da parte del Tribunale – della tipologia e della graduazione del condizionamento portato verso l'impresa dai soggetti individuati come portatori di pericolosità (su tali aspetti si v. Cass. pen., Sez. I, 7 maggio 2019,n. 29487) al fine di realizzare, con l'ammissione al controllo, per stare alle parole utilizzate dalle Sezioni Unite, lì dove possibile "un recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza, a seguito di un percorso emendativo". Conclusivamente, in caso di ammissione dell'azienda è la legge a prevedere la sospensione degli effetti dell'interdittiva prefettizia (art. 34-bis, comma 7), ma tale effetto legale si rapporta all'esistenza dei penetranti poteri di controllo governati dal Tribunale, sicché, ad avviso della S.C: non è dato intravedere, peraltro, alcun ragionevole interesse della Amministrazione alla critica del provvedimento di ammissione. Osservazioni
La sentenza mostra l'indubbio favor che i giudici penali attribuiscono al percorso emendativo intrapreso dalle società sottoposte a controllo giudiziario “volontario”, ciò in piena conformità con gli obiettivi che hanno ispirato la riforma di cui alla l. n. 161 del 2017. Tale “virtuosa” posizione è stata recentemente confermata, in sede di merito, da Trib. Milano, Sez. mis. prev., decr. 28 maggio 2020, n. 9, Pres. Roia, Uber Italy s.r.l., sia pure con riferimento al “vicino” strumento dell'amministrazione giudiziaria. Si tratta di un decreto che ha avuto ampia eco sulla stampa, non solo quella specializzata. In questa sede preme rammentare che il Tribunale ha disposto che l'amministrazione giudiziaria cui è stata sottoposta la società dovrà essere finalizzata ad “analizzare i rapporti esistenti con le altre società della galassia Uber – sempre nel perimetro della gestione dei c.d. riders – e con i lavoratori operanti nel settore della distribuzione a domicilio e ciò per verificare se esistano altre forme di sfruttamento di lavoratori esterni, nonché a verificare l'esistenza e l'idoneità del modello organizzativo previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 per prevenire fattispecie di reato ricollegabili all'art. 603-bis c.p. e quindi disfunzioni di illegalità aziendale come quelle nel caso in esame il accertate” (cfr. p. 58). Il decreto ha dunque applicato alla società la misura dell'amministrazione giudiziaria per la durata di un anno, senza una effettiva immissione in possesso dei beni aziendali a favore dell'amministrazione giudiziario designato, il quale è stato innanzitutto incaricato – in linea con le finalità sopra esplicitate – di esaminare l'assetto della società con particolare riferimento ai rapporti intercorrenti con le altre compagini sociali del gruppo Uber, accertandone modello organizzativo e gestionale ex art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231 del 2001, ai fini della valutazione dell'idoneità dello stesso modello “a prevenire reati della specie di quello verificatosi” nello specifico settore del rapporto con i “rider”. Pare opportuno ricordare che il rilievo assunto, in tale sede, dal Modello Organizzativo di Gestione e Controllo, c.d. MOG, trova fondamento in una precisa disposizione normativa: comma 3 art. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede che con il provvedimento di cui alla lettera b) del comma 2, il tribunale stabilisce i compiti dell'amministratore giudiziario finalizzati alle attività di controllo e può imporre l'obbligo: d) di adottare ed efficacemente attuare misure organizzative, anche ai sensi degli articoli 6,7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni. Nonostante la chiara lettera della legge, ben presente ai giudici penali, quelli amministrativi paiono refrattari a riconoscerne il rilievo. Cfr. in tal senso Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, (Sezione Prima) ordinanza 28 febbraio 2020: “Il Collegio reputa inoltre che le misure di contrasto all'illegalità, adottate dalla società ricorrente prima dell'emanazione del provvedimento impugnato, quali la sostituzione dell'amministratore unico in seguito a dimissioni e l'adozione di un modello organizzativo e gestionale ai sensi dell'articolo 6 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non siano sufficienti a neutralizzare il rischio di condizionamento mafioso, atteso che la proprietà delle quote societarie risulta attualmente intestata ai familiari dell'amministratore unico dimissionario”. Posizione già in precedenza espressa dal Consiglio di Stato, Sezione Prima, Adunanza di Sezione del 24 luglio 2019 e del 9 ottobre 2019: “Non persuade altresì la censura di parte ricorrente secondo la quale sarebbe illegittima la valutazione negativa espressa dalla Prefettura circa i provvedimenti previsti dal d.lgs. n. 231 del 2001 adottati dalle società ricorrenti al fine di garantire un controllo interno sulla gestione societaria e per scongiurare la commissione di reati societari. Osserva in proposito la Sezione che l'adozione tali misure, previste dalla legge, che attengono alla configurazione organizzativa della società, ma non alla sua concreta gestione, non implica in alcun modo un automatico effetto di esclusione di quei rischi di tentativi di condizionamento che la disciplina antimafia mira a prevenire. Si tratta, certamente, di misure organizzative e di controllo (“Modello Organizzativo di Gestione e Controllo”, organismo di vigilanza, codice etico di gruppo, etc.) che potenzialmente possono rafforzare la capacità di un ente di resistere contro eventuali tentativi di infiltrazione e condizionamento, ma che non sono di per sé sufficienti a far mutare il giudizio interdittivo formulato dall'amministrazione solo tre anni prima (e ciò indipendentemente dal sospetto sollevato dalla Prefettura circa un intento elusivo di tali misure rispetto alle pregresse responsabilità)”. La “grammatica probatoria” sottesa al ragionamento dei giudici amministrativi è stata recentemente espressa da Cons. St., sez. III, 8 giugno 2020, n. 3641, Pres. Frattini, Est. Ferrari: “la verifica della legittimità dell'informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un'ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d'altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell'inferenza logica, sicché, in definitiva, l'interprete è sempre vincolato a sviluppare un'argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l'ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). La giurisprudenza amministrativa pare di dubbia compatibilità con in principi espressi da CEDU, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, par. 143. La Corte di Strasburgo, esaminando il ricorso del De Tommaso – soggetto cui era stata applicata da parte del Tribunale di Bari nel 2008 una misura di prevenzione personale ai sensi dell'art. 1 l.n.1423 del 1956 (c.d. pericolosità generica) – ha ritenuto sussistente la violazione dell'art. 2 Prot. 4 Conv. EDU (disposizione che tutela la libertà di circolazione). In particolare, la violazione è stata ricollegata al giudizio negativo sui contenuti della previsione regolatrice interna, essendosi rilevato un deficit di chiarezza tale da determinare scarsa prevedibilità – in capo ai destinatari – delle conseguenze sfavorevoli delle proprie azioni, con eccesso di discrezionalità del giudice in sede di delibazione dei presupposti applicativi delle misure di prevenzione: “[..] La Corte osserva che, nonostante il fatto che la Corte costituzionale sia intervenuta in diverse occasioni per chiarire i criteri da utilizzare per valutare se le misure di prevenzione fossero necessarie, l'applicazione di tali misure resta legata a un'analisi prospettica da parte dei tribunali nazionali, dato che né la Legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione. La Corte ritiene pertanto che la Legge in questione non contenesse disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società”. La regola probatoria espressa dal giudice amministrativo, anche nella sua più autorevole composizione, del “più probabile che non”, ovvero “del 50% + 1” di possibilitàche l'ipotesi intorno a “quel fatto” sia più probabile di tutte le altre messe insieme, è alquanto distante dalle “prove fattuali” di cui alla sentenza della CEDU. La stessa Corte costituzionale, sentenza n. 57 del 2020, udienza pubblica del 14 gennaio 2020, depositata in Cancelleria il 26 marzo 2020, pur avendo “salvato” l'interdittiva antimafia in quanto non irragionevole né lesiva del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica tutelato dall'art. 41 Cost., ha ricordato che la grave compromissione della libertà di iniziativa economica che essa comporta può ritenersi giustificata a condizione che le circostanze a fondamento dell'interdittiva si inseriscano in un quadro indiziario chiaro, completo e convincente, periodicamente sottoposto a riesame da parte del Prefetto, in coerenza con la natura provvisoria della misura e con la necessità di scongiurare il rischio del pregiudizio «irreversibile» che deriverebbe al privato dalla persistente applicazione di un provvedimento non più giustificato e dunque inattuale. Per questi motivi la decisione del supremo collegio in commento si mostra di particolare pregio: la prosecuzione dell'attività d'impresa è un bene imprescindibile, soprattutto nell'attuale contesto di gravissima crisi economica, e meritevole di salvaguardia attraverso l'idonea valutazione degli sforzi compiuti dalla società attinta dal provvedimento interdittivo mediante strumenti quali il MOG che, giova ricordarlo, deve essere adottato ed efficacemente attuato, non potendo essere riduttivamente considerato come mezzo elusivo. La sentenza della S.C. invita, inoltre, indirettamente a ragionare sulla opportunità di valutare un possibile ripensamento della procedura da seguire per l'adozione delle informative antimafia negative e/o del controllo giudiziario volontario. L'attuale scenario propone, infatti, una situazione non del tutto razionale, in cui (oltre a crearsi incertezze sui poteri di entrambi i giudici, sull'efficacia delle relative decisioni e sulla pregiudizialità del giudizio penale rispetto a quello amministrativo ecc.) l'adozione del provvedimento più invasivo seppure di tipo formalmente preventivo-cautelare – quello che dispone l'interdittiva antimafia con i suoi effetti demolitivi per l'esistenza stessa di un'azienda che opera nel settore degli appalti e dei servizi pubblici – è disposta in via amministrativa dal Prefetto che è anche parte inquirente in assenza di un contradditorio obbligatorio con il destinatario (la sua audizione è solo un'eventualità, anche se da ultimo è stato sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea per valutare la conformità dell'art. 93 del codice antimafia al diritto euro-unitario (si v. TAR Puglia, Sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28 ord.), mentre l'adozione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario, che ha la funzione di mitigare il rigore dell'interdittiva antimafia, è disposta da parte di un giudice terzo, il giudice di prevenzione, in un giudizio camerale che garantisce sempre un contraddittorio tra le parti.
F. CAPITANI, Dalle Sezioni Unite un assist al controllo giudiziario delle imprese in odor di mafia, in IlPenalista.it, 21 Novembre 2019. G. AMARELLI, Interdittive antimafia e controllo giudiziario volontario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture?, in www.sistemapenale.it, 10 Aprile 2020. A. QUATTROCCHI, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6. |