Intervento chirurgico in equipe: ripartizione della responsabilità tra primario e aiuto primario anziano
14 Luglio 2020
Massima
In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in equipe, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell'operato altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica conoscenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui. Il caso
La vicenda in oggetto riguardava il decesso di una paziente avvenuto a seguito di una “multi organ failure” da polmonite in presenza di un quadro clinico compromesso e per le complicanze di plurimi interventi per operazioni per colecistite cronica colesterolosica e calcolosa. La paziente era stata sottoposta ad un primo intervento chirurgico in data 19 dicembre 2011 di colecistectomia laparoscopica. Intervento seguito a pochi giorni di distanza da altre due operazioni chirurgiche di rafia di perforazione duodenale e toilette del cavo peritoneale per via laparoscopica eseguite per il sopraggiungere di complicanze dovute al primo intervento. Infine la paziente era stata sottoposta ad un ultimo intervento in data 2 gennaio 2012 a causa della presenza di una grave insufficienza epatica e compromissione generale multi organo conseguente alla peritonite, alla sepsi prolungata e ai ripetuti interventi chirurgici. A seguito dell'ultimo intervento si verificava un ematoma epatico che unito alla situazione clinica ormai compromessa portava al decesso della paziente. Venivano pertanto imputati di omicidio colposo i medici che l'avevano seguita nel decorso clinico, in particolare il primario del reparto di chirurgia che aveva eseguito tutti gli interventi, il suo aiuto anziano e l'aiuto giovane – primo operatore. Quest'ultimo veniva assolto in primo grado. Il primario e l'aiuto anziano, invece, venivano condannati in primo e secondo grado per omicidio colposo, con riferimento però solamente agli ultimi due interventi, non avendo la Corte d'Appello – contrariamente al giudice di prime cure - rinvenuto censure nello svolgimento dei primi due interventi. Il chirurgo che aveva rivestito il ruolo di “aiuto anziano” ricorreva per Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello fondando i propri motivi fondamentalmente su un'errata valutazione del ruolo effettivamente svolto dallo stesso nell'ambito dell'equipe medica. La questione
La questione su cui viene chiamata a pronunciarsi la suprema Corte nella sentenza in oggetto riguarda la problematica dell'individuazione delle singole responsabilità all'interno di un'equipe medica in considerazione dello specifico ruolo svolto ed alla luce anche del consolidato principio di affidamento e dei limiti allo stesso individuato dalla giurisprudenza. Le soluzioni giuridiche
Le doglianze formulate dall'imputato riguardavano principalmente il ruolo da lui svolto, quale aiuto anziano, all'interno dell'equipe medica. In particolare il ricorrente evidenziava come lo stesso primario avesse dichiarato nel corso dell'istruttoria dibattimentale di aver effettuato personalmente sia le scelte operatorie sia l'esecuzione materiale degli interventi. Inoltre, per ciò che riguardava la contestazione di omessa vigilanza rispetto all'operato dell'aiuto giovane – che secondo quanto emerso aveva posizionato in maniera errate i divaricatori nel quarto intervento – evidenziava come tale errore non poteva essere percepibile dall'imputato nel corso dell'intervento e quindi dallo stesso emendabile. La Corte, accogliendo le doglianze proposte dalla difesa dell'imputato, ripercorreva alcuni approdi della giurisprudenza in materia di responsabilità medica per lavoro in equipe o comunque in caso di cooperazione multidisciplinare, ove più sanitari concorrono, con interventi non necessariamente omologabili, nella cura di un singolo paziente. Evidenziava, infatti, la Corte come nei suddetti casi la verifica del giudice dell'eventuale responsabilità del singolo operatore debba essere particolarmente attenta, non potendosi mai configurare una responsabilità del gruppo in base ad un ragionamento aprioristico, ma accertando sia la sussistenza del nesso causale della singola condotta rispetto all'evento lesivo sia la rimproverabilità di tale comportamento sul piano soggettivo al soggetto agente. Nell'ambito dell'attività medica d'equipe, infatti, opera il principio di affidamento, in base al quale ciascun soggetto che sia titolare di una posizione di garanzia può legittimamente confidare nel fatto che gli altri contitolari della medesima posizione agiscano in maniera corretta e quindi andare esente da responsabilità quando l'evento dannoso sia conseguenza esclusiva della condotta altrui. Il principio di affidamento trova il suo limite nel dovere che incombe comunque su ogni sanitario di vigilare sulla correttezza della condotta altrui ed intervenire per emendare eventuali errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Nel caso di specie, evidenziava però la Corte, non poteva non rilevare il ruolo e il compito spettante all'imputato all'interno dell'equipe chirurgica. Nelle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono distinti, sottolineavano i supremi giudici, deve trovare applicazione il diverso principio di affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui. Diventa pertanto essenziale, affermava ancora la Corte, la verifica del ruolo effettivo svolto dal ricorrente tenuto conto da una parte dell'assunzione di responsabilità delle scelte operatorie effettuate e dell'esecuzione delle stesse da parte del primario e dall'altra non percepibilità dell'errore commesso dall'aiuto chirurgo più giovane – quindi “sottoposto” al controllo dell'imputato – nel posizionamento di divaricatori nel corso dello svolgimento dell'operazione. Alla luce di quanto evidenziato, la Corte annullava con rinvio la sentenza impugnata al fine di una nuova disamina dell'effettivo ruolo svolto dal ricorrente nello svolgimento delle due operazioni chirurgiche ritenute non correttamente svolte e quindi causa del decesso della paziente, rispetto alle imputazioni a lui mosse. Osservazioni
La sentenza in esame si pronuncia sul perimetro delle singole effettive responsabilità di ciascun operatore sanitario ogni volta che si verifichi un contesto di cooperazione multidisciplinare con esito infausto per il paziente. Nel caso di specie infatti, il decesso della paziente era stato conseguenza dell'erronea realizzazione di alcuni interventi chirurgici praticati in un quadro clinico già molto problematico. Venivano pertanto imputati i medici che aveva preso parte a tali interventi: il primario del reparto di chirurgia, il suo aiuto-anziano e l'aiuto-giovane. Quest'ultimo era stato assolto già in primo grado, mentre gli altri due sanitari venivano condannati per omicidio colposo in primo e secondo grado. L'aiuto-anziano ricorreva per Cassazione evidenziando proprio la non corretta valutazione da parte dei giudici di merito del suo ruolo all'interno dell'equipe operatoria. Come noto, ormai l'attività medica si realizza sempre più frequentemente con il necessario intervento di più sanitari nella cura del medesimo paziente. Tale intervento che può essere sincronico, come tipicamente avviene nel caso di un'equipe medico chirurgica, o diacronico quando i sanitari si succedono nella valutazione del caso clinico. Normalmente, inoltre, i compiti dei diversi sanitari coinvolti non sono tra loro omogenei, avendo gli stessi compiti, ruoli e spesso specialità differenti. La giurisprudenza consolidata ritiene applicabile in materia di cooperazione multidisciplinare o attività d'equipe in ambito medico-chirirgico il principio di affidamento. In base a tale principio, un soggetto che rivesta una posizione di garanzia può confidare che gli altri soggetti che rivestano una posizione di garanzia nei confronti del medesimo bene giuridico agiscano nel rispetto delle regole, in maniera corretta, perita e diligente. Il principio di affidamento è quindi posto a tutela del medico stesso e del paziente: in tal modo infatti ciascun sanitario può concentrarsi principalmente sul proprio operato senza dover continuamente controllare sull'operato altrui. Il principio di affidamento consente infatti di confinare l'obbligo di diligenza del singolo sanitario entro limiti compatibili con l'esigenza del carattere personale della responsabilità penale ex art. 27 Cost. La giurisprudenza, però, ha evidenziato due limiti all'applicazione di tale principio. In primo luogo rimane comunque un onere di vigilanza sulla condotta degli altri soggetti. Ciascuno infatti è tenuto ad intervenire per emendare gli errori posti in essere dagli altri componenti dell'equipe, purché tali errori siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'aiuto delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. In secondo luogo colui che versi in colpa non può confidare che gli altri soggetti che intervengono dopo di lui vadano ad emendare il suo errore. Egli sarà comunque chiamato a rispondere per la sua condotta ove da ciò derivi una lesione al bene tutelato, ossia la salute del paziente, salvo ovviamente che si sia verificata una causa sopravvenuta che abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia modifica in modo da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (si veda ad esempio Cass. pen., Sez. IV, 30 marzo 2016,n. 18780, relativa alla responsabilità di un medico ginecologo e di un ostetrico per lesioni gravissime causate con esiti permanenti ad un neonato per un'errata manovra compiuta dopo l'espulsione del capo). Inoltre, il principio di affidamento deve necessariamente essere parametrato all'effettivo ruolo ed alle competenze che ciascun soggetto riveste all'interno dell'equipe medica. Sarà diversa l'eventuale responsabilità di chi è chiamato a coordinare e prendere le decisioni all'interno dell'equipe rispetto ai meri esecutori, quindi ad esempio al ruolo del primario rispetto magari a quello dello specializzando. È chiaro, infatti, che il primario o il capo-equipe mantiene comunque un obbligo di verifica dell'operato degli altri membri dell'equipe che siano sottoposti al suo controllo e che siano tenuti ad eseguire le sue indicazioni. Occorre infatti distinguere durante lo svolgimento di un intervento le varie fasi, l'attività di equipe è corale, e quindi ognuno, nei limiti suddetti, esercita e deve esercitare il controllo sul buon andamento dello stesso rispetto a quelle in cui sono distinti nettamente in ruoli e i compiti di ciascun componete dell'equipe. In tale seconda situazione solo il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica può essere chiamato a rispondere dell'errore o dell'omissione (in tal senso Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 27314). Proprio tale aspetto è stato ritenuto fondamentale nella sentenza in commento. L'imputato infatti rivestiva all'interno dell'equipe medica chirurgica il ruolo di aiuto anziano. Sulla base di tale ruolo lo stesso era stato chiamato a rispondere, esattamente come il primario, per tutti gli interventi ritenuti realizzati in maniera imperita. Inoltre allo stesso era stata contestata una mancata verifica della condotta dell'aiuto chirurgo giovane, quindi a lui “sottoposto”, nel posizionamento dei divaricatori. La Corte ha evidenziato come non era stato adeguatamente valutato dai giudici di merito la circostanza che il primario avesse ammesso nel corso del dibattimento di aver preso lui tutte le decisioni terapeutiche relative alla paziente poi deceduta e di aver diretto tutti gli interventi eseguiti. Alla luce di tali considerazioni, quindi, la posizione del primario e quella dell'aiuto-primario non potevano essere aprioristicamente equiparate, ma occorreva una valutazione più approfondita dell'effettivo ruolo svolto dall'aiuto primario. Sotto un diverso profilo veniva invece evidenziato come l'errore commesso dall'aiuto-chirurgo giovane in fase di esecuzione dell'intervento non fosse immediatamente percepibile e come tale non potesse essere emendabile da parte dell'imputato. Pertanto la sentenza veniva annullata dalla Cassazione con rinvio alla Corte d'Appello.
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