Il concorso del professionista negli illeciti fiscali del cliente sussiste anche quando non ha ottenuto vantaggi
22 Giugno 2020
Massima
Può rinvenirsi una responsabilità del commercialista in concorso con il proprio cliente quando il primo abbia agito scientemente e unitamente al contribuente, al fine di realizzare lo scopo da quest'ultimo prefigurato, essendo invece irrilevante che il professionista abbia o meno beneficiato della frode fiscale, elemento assorbito dall'istituto di cui all'art.110 c.p. per effetto del quale l'azione dell'autore materiale del fatto viene ricondotta all'estraneo (non effettivo autore dell'illecito), la cui responsabilità è affermata mediante la valorizzazione di condotte atipiche compiute dal medesimo, finalisticamente collegate al risultato finale che esprime ed attua l'accordo dei concorrenti.
Il caso
Nell'ambito di un procedimento per violazioni fiscali, in relazione alle quali a più soggetti era contestato anche il delitto di associazione a delinquere, veniva condannato, qualificando come amministratore di fatto della società beneficiaria dell'evasione, anche un soggetto che svolgeva, sotto il profilo formale, la funzione di commercialista e contabile dell'impresa coinvolta. In sede di cassazione, la difesa censurava questa decisione in primo luogo contestando la sussistenza della qualifica di amministratore di fatto. Per pervenire a tale conclusione, infatti, le sentenze di merito avrebbero valorizzato l'assistenza e la tenuta della contabilità da parte dell'imputato, nonché la delega rilasciato allo stesso ad operare sui conti correnti della società coinvolta; tuttavia, applicando tali principi, si qualificherebbero come "amministratore di fatto" tutti quei professionisti che prestano ausilio negli adempimenti operativi societari. In secondo luogo, si ritiene che la conclusione circa la compartecipazione dell'imputato nei reati fiscali commessi dai clienti in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che richiede la necessaria dimostrazione del concorso dell'imputato nella redazione dell'atto dichiarativo, sottoscritto nel caso di specie dall'amministratore societario, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 2d.lgs. n. 74 del 2000, non potendo il concorso nel reato tributario concretizzarsi in una mera attività preparatoria di acquisizione di fatture ed elementi fittizi, inseriti nelle scritture contabili, ovvero nella predisposizione di mezzi fraudolenti, richiedendo una concreta attività di determinazione alla presentazione della dichiarazione. La questione
È acquisizione pacifica che il commercialista di una società possa concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia a titolo di concorso materiale che a titolo di concorso morale (Cass. pen., Sez. IV, 16 novembre 2017, n. 1236; Cass. pen., Sez. I, 28 novembre 2014, n. 7643), dovendosi mantenere ferma tale conclusione anche quando non si fosse in presenza di un previo accordo fra il contribuente infedele ed il commercialista in ordine alla natura fraudolenta della dichiarazione che si va a presentare e ciò in quanto “è incontestato, e condivisibile, l'indirizzo secondo cui il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 2 d.lgs.10 marzo 2000, n. 74, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'IVA” (Cass. pen., Sez. III, 19 giugno 2018, n. 52411; Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 30492). Quanto ai presupposti per riconoscere tale ipotesi di concorso, un punto fermo ormai consolidato è che il professionista non ha un obbligo di veridicità né di correttezza verso l'Erario relativamente agli adempimenti fiscali posti in essere dal suo assistito – tanto con riferimento alle comunicazioni che questi rende all'Erario in sede di dichiarazione, quanto in relazione al mancato versamento delle imposte dovute -: ciò significa dunque che il commercialista che si limita a redigere una dichiarazione dei redditi inserendo nella stessa i dati fornitegli dal clienti, pur consapevole della mendacità e implausibilità degli stessi, non risponde del delitto – attribuibile, per l'appunto, al solo contribuente - di dichiarazione infedele. Ciò che invece fonda la possibile responsabilità del consulente fiscale è un intervento attivo dello stesso, una sua compartecipazione all'altrui attività criminosa. Anche in relazione a tale profilo la decisione in commento sembra adeguarsi all'orientamento prevalente laddove si fonda la ritenuta responsabilità del professionista sulla base della circostanza che questo avrebbe fornito “un contributo intenzionale e consapevole alla realizzazione dei fatti criminosi, agevolando e rafforzando il proposito criminoso dei concorrenti” (sulla necessità di un tale contributo attivo, in dottrina, cfr. PERINI, Osservazioni sul consiglio tecnico come forma di compartecipazione dell'estraneo nei reati propri: fra nuovi modelli penalistici ed incerti orientamenti giurisprudenziali, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2003, 719; APREA, Irrilevanza del consenso al patrocinio infedele prestato dal cliente, in Giur. It., 2012, 2636; ELIA, L'avvocato che consiglia al cliente di presentare una dichiarazione Iva non veritiera commette il reato di infedele patrocinio, in Fisco, 2012, 1639; SCIELLO, Concorso dell'extraneus e competenza per territorio nel delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, in Dir. Prat. Trib., 2002, 2, 1075; BOTTI, Il consigliere di frode risponde della bancarotta, in Dir. Giust., 2004, 48).
Le soluzioni giuridiche
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. In proposito, la decisione in commento ricorda che si ritiene configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 2 d.lgs.n. 74 del 2000 di coloro che, pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società a cui si riferisce la condotta illecita (rectius dichiarazione fraudolenta), abbiano partecipato, in qualsivoglia modo, a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito all'amministratore della società, sottoscrittore della dichiarazione, di avvalersi della documentazione fiscale fittizia (Cass. pen, Sez. III, 10 marzo 2016, n. 28720; Cass. pen., Sez. III, 2 dicembre 2015, n. 9853; Cass. pen., Sez. fer., 1 agosto 2012, n. 35729). In effetti, il reato consistente nella presentazione di una dichiarazione c.d. fraudolenta configura un reato proprio, ossia, per usare una definizione coniata dalla dottrina, "a soggettività ristretta" e soggetto attivo del reato può essere soltanto il contribuente obbligato nei confronti dell'Amministrazione fiscale, considerato che l'obbligo dell'adempimento costituisce il presupposto della condotta tipica sanzionata dalle norme contenute nel testo legislativo sopracitato. Tuttavia, anche soggetti diversi dal contribuente (ad es. i commercialisti, i consulenti contabili nonché gli avvocati e in generale quei soggetti che prestano assistenza in materia tributaria) possono occupare una posizione penalmente rilevante relativamente ai soggetti "qualificati" a favore dei quali prestano la propria attività professionale, purché l'apporto prestato sia intriso di volontà fraudolenta finalizzata all'evasione (in sostanza occorre che il terzo condivida il dolo specifico di evasione del contribuente). Secondo la Cassazione, dunque, il punto di riferimento per rinvenire, nell'ambito dei reati proprio, il concorso di terzi soggetti privi della qualifica soggettiva richiesta (i cd. extranei) resta sempre l'azione conforme al tipo legale dell'autore materiale del reato, essa costituendo la base comune di imputazione dell'evento a tutti coloro che, in un modo o nell'altro, hanno materialmente e volontariamente concorso a produrlo (Cass. pen., Sez. III, 30 novembre 2016, n. 14815). Ciò significa che può rinvenirsi una responsabilità del professionista che abbia agito scientemente ed unitamente al cliente, al fine di realizzare lo scopo da quest'ultimo prefigurato, essendo invece irrilevante che il professionista abbia o meno beneficiato della frode fiscale, elemento assorbito dall'istituto di cui all'art.110 c.p. per effetto del quale l'azione dell'autore materiale del fatto viene ricondotta all'estraneo (non effettivo autore dell'illecito), la cui responsabilità è affermata mediante la valorizzazione di condotte atipiche compiute dal medesimo, finalisticamente collegate al risultato finale che esprime ed attua l'accordo dei concorrenti. La decisione poi si sofferma su diverse ipotesi esemplificative in presenza delle quali si può dubitare della responsabilità del professionista in relazione agli illeciti fiscali commessi dal suo cliente ed a cui il primo ha, sotto il profilo materiale, in qualche modo contributo. In proposito, la decisione esclude la responsabilità a titolo di concorso:
È invece possibile concepire in capo a un extraneus il concorso nel reato proprio in caso di determinazione od istigazione alla presentazione della dichiarazione, non apparendo ostarvi, in via di principio, la natura di reato istantaneo (Cass. pen, Sez. III, 10 ottobre 2016, n. 14497; Cass. pen., Sez. III, 27 aprile 2012, n. 23229). Questa conclusione non è in contrasto con la consolidata giurisprudenza secondo cui il reato di dichiarazione fraudolenta si consuma nel momento di presentazione della dichiarazione, con esclusione della rilevanza penale dell'attività che sia meramente preparatoria (Cass. pen., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 52752): la responsabilità a titolo concorsuale infatti può essere fondata anche su una condotta precedente la presentazione della dichiarazione, preparatoria rispetto ad esse e penalmente irrilevante, la quale diviene ex post oggetto di valutazione del giudice non al fine di affermare meramente la punibilità di tali condotte ex se considerate, bensì per accertare il concorso (materiale o morale) ai sensi dell'art. 110 c.p. nell'illecito del contribuente, unico fatto punibile (il che, secondo i giudici di merito, era proprio quanto accertato nel caso di specie, considerato che nell'abitazione e nello studio del professionista imputato era stata rinvenuta documentazione rilevante per la commissione degli illeciti contestati: trattasi in effetti di condotta precedente alla effettiva consumazione del delitto la cui rilevanza penale, tuttavia, viene in rilievo non in quanto isolatamente considerata, ma al fine di valutare l'apporto dell'imputato nella commissione dell'illecito, venendo essa assorbita nella fattispecie di cui all'art. 110 c.p.). Osservazioni
La sentenza della Cassazione si presenta decisamente equilibrata nel definire quello che è il tema centrale circa la configurabilità di un concorso del commercialista con gli illeciti tributari del suo cliente ovvero - posto che come detto non è necessario un previo accordo fra professionista e contribuente in ordine alla commissione del delitto, né occorre che il commercialista sia assolutamente consapevole della falsità delle fatture che va ad utilizzare per abbattere l'imponibile del cliente, essendo sufficiente che sia consapevole della possibilità di una tale circostanza – in cosa deve concretarsi il concorso morale o materiale del commercialista per potersi affermare la sua responsabilità ai sensi dell'art. 110 c.p. Sicuramente fonda la possibile responsabilità del consulente fiscale un suo intervento attivo, una sua compartecipazione all'altrui attività criminosa (Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2015, n. 19335, ove si riconosce la responsabilità del professionista sulla base della circostanza che questo avrebbe fornito “un contributo intenzionale e consapevole alla realizzazione dei fatti criminosi, agevolando e rafforzando il proposito criminoso dei concorrenti”), che può consistere anche un semplice rafforzamento dell'intenzione criminosa del suo assistito, così come è parimente pacifico che il professionista non abbia un obbligo di veridicità né di correttezza verso l'Erario relativamente agli adempimenti fiscali posti in essere dal suo assistito – tanto con riferimento alle comunicazioni che questi rende all'Erario in sede di dichiarazione, quanto in relazione al mancato versamento delle imposte dovute -: ciò significa dunque che il commercialista che si limita a redigere una dichiarazione dei redditi inserendo nella stessa i dati fornitegli dal clienti, pur consapevole della mendacità ed implausibilità degli stessi, non risponde del delitto – attribuibile, per l'appunto, al solo contribuente - di dichiarazione infedele (Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2015, n. 19335, ove si censura l'attribuzione al professionista “di una mera responsabilità "di posizione", ossia solo per la veste di consulente fiscale e tenutario delle scritture contabili”). Riconosciuto dunque che intanto il professionista risponde in concorso con il suo cliente per gli illeciti fiscali di quest'ultimo in quanto abbia dato un contributo causale effettivo alla realizzazione di tali violazioni – contributo che non può esaurirsi nella semplice redazione della dichiarazione dei redditi o comunque nello svolgimento di quelli che sono gli ordinari compiti di un commercialista o di un consulente fiscale -, occorre individuare quando ricorra questa significativa partecipazione dell'extraneus al delitto del contribuente. In proposito, la tesi che pare preferibile – ed a cui sembrerebbe aderire la decisione in commento – è quella, sostenuta da una giurisprudenza risalente, secondo cui il concorso del professionista deve estrinsecarsi nell'adozione di condotte materiali di particolare spessore (ad esempio la Cassazione in qualche occasione ha affermato che “il legale che indica al cliente il mezzo per sottrarre i beni alla garanzia dei creditori viola l'obbligo della correttezza professionale, non anche la norma penale … concorre con [l'imprenditore invece] nel delitto di bancarotta fraudolenta se, oltre a consigliare il cliente sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori, lo assiste nella stipulazione dei relativi negozi giuridici simulati”: Cass. pen., Sez. V, 19 aprile 1988, Ferlicca, in Cass. Pen., 1989, 680), mentre in altre occasioni sono state valorizzate comportamenti del commercialista che dimostrano come lo stesso avesse materialmente reso possibile (nel senso di ostacolare l'attività di accertamento circa la falsità delle fatture) la commissione del reato da parte del suo cliente. Ciò che rileva, in ogni caso, è che il fondamento del concorso dell'extraneus nel reato proprio va rinvenuto nella contribuzione causale alla violazione penale, occorrendo che venga tenuta una condotta che – unitamente al comportamento del soggetto qualificato – determini la lesione del bene giuridico protetto dalla norma. Perciò non potrà parlarsi di responsabilità del professionista che si sia limitato a svolgere il suo ordinario compito di tenuta della contabilità, redigendo una dichiarazione in cui compaiono – essendo il commercialista pienamente consapevole di ciò – fatture relative ad operazioni inesistenti: occorre sempre evitare infatti di rinvenire in capo al professionista un obbligo – dalla valenza eccessivamente “eticizzante” – di veridicità degli atti e dei documenti che egli va a redigere sulla scorta dei dati che il cliente gli comunica. |