Uso dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi: i principi della sentenza “Cavallo” si applicano anche ai procedimenti in corso
09 Giugno 2020
Massima
Il principio "tempus regit actum" si applica solo alla successione nel tempo delle leggi processuali e non anche al mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di queste ultime, sicché qualora si succedano, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo. Il caso
Il Tribunale di Napoli, Sezione riesame, ha confermato l'ordinanza con la quale era stata applicata la misura degli arresti domiciliari all'indagato per i reati di corruzione, falso in atto pubblico e truffa aggravata in concorso con un medico convenzionato INPS e con altre persone. Secondo questo provvedimento, il ricorrente, dipendente di un patronato, svolgeva funzioni di intermediario incaricato di gestire i rapporti con il medico che redigeva falsi certificati di invalidità in cambio del pagamento di somme di denaro, in genere coincidenti con l'importo delle prestazioni “arretrate” conseguiti dai beneficiari. Avverso questa sentenza, l'indagato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni perché disposte nell'ambito di altro procedimento penale, per il reato di usura ed altre fattispecie delittuose ascritte a persone diverse, rilevando che i reati a lui attribuiti non rientrano tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 380 c.p.p., è consentito l'arresto in flagranza. La questione
Autorizzate intercettazioni per la ricerca della prova di determinati reati, è frequente nella prassi che emergano altri reati. In questi casi, trova applicazione la disciplina dell'art. 270 c.p.p., come interpretato dalla sentenza delle Sezioni unite “Cavallo”, che di recente ha mutato l'indirizzo in precedenza prevalente. Qualora si succedano, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso dalla Corte può considerarsi legittimo? Può farsi ricorso anche in questo caso al principio "tempus regit actum" che regola la successione nel tempo delle leggi processuali? Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso illustrato, annullando con rinvio l'ordinanza impugnata. Nel caso di specie, invero, non è controverso che il materiale probatorio su cui si fonda il provvedimento impugnato è rappresentato dagli esiti di operazioni di intercettazione ambientale e telefonica in alcune delle quali è interlocutore è proprio il ricorrente. Queste intercettazioni sono state disposte in un procedimento a carico di una diversa persona, relativo ad una vicenda usuraia. Si pone, pertanto, la questione dell'utilizzabilità degli esiti delle captazioni e in particolare dell'applicazione della disciplina dell'art. 270 c.p.p. Al tema dell'interpretazione di questa norma, come è noto, sono state fornite risposte diverse dalla giurisprudenza di legittimità. Il contrasto è stato risolto da una recente sentenza delle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, 28 novembre 2019, n. 51, dep. 2 gennaio 2020, Cavallo ed altro). Secondo tale decisione, il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge. In motivazione, la Corte ha precisato che, al fine di non eludere il divieto di cui all'art. 270 c.p.p., la sussistenza del collegamento di cui all'art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., tra le indagini relative al reato per il quale le intercettazioni erano state disposte e quello ulteriore accertato in forza delle stesse, non vale a permettere l'utilizzazione dei risultati delle captazioni. Ai fini della definizione della formula procedimenti diversi, dunque, «si prescinde dal fatto che il reato per il quale sono state autorizzate ed effettuate le operazioni di intercettazione e l'ulteriore reato per il quale si pone il problema dell'utilizzabilità dei risultati di quelle operazioni, siano iscritti nel registro delle notizie di reato con un unitario numero di procedimento ovvero costituiscano oggetto di procedimenti recanti diversi numeri di iscrizione, essendo decisiva l'esistenza di una connessione qualificata tra quegli illeciti». In ogni caso, però, «indipendentemente dall'esistenza o meno di quella connessione, gli esiti delle disposte captazioni sono utilizzabili in relazione al reato “diverso” a condizione che per lo stesso le operazioni di intercettazioni disposte sarebbero state autonomamente autorizzabili». Facendo applicazione di questa interpretazione giurisprudenziale, l'ordinanza impugnata deve essere annullata perché il giudice di merito deve accertare se, tra i reati ascritti al ricorrente e quelli in base ai quali erano state disposte le intercettazioni, sussiste la connessione c.d. forte o sostanziale prevista dall'art. 12 c.p.p., la quale permette di ritenere che si versa nello stesso procedimento, escludendosi l'applicazione dell'art. 270 c.p.p. Deve essere rilevato, infatti, che la decisione impugnata è intervenuta solo due giorni dopo la descritta sentenza delle Sezioni unite. Tale circostanza impone un approfondimento sia del contenuto della documentazione prodotta, sia degli atti che hanno disposto le intercettazioni, a carico del ricorrente e dei co-indagati, per verificare la sussistenza dell'ipotesi di connessione indicata. A tal proposito, non è decisivo che le conversazioni captate, secondo la ricostruzione della difesa, siano state eseguite nel corso di intercettazioni disposte in un procedimento che reca diverso numero di iscrizione rispetto a quello nel quale è stata adottata l'ordinanza impositiva rendendosi, viceversa, necessario accertare il tipo di connessione, se un legame sostanziale ovvero la esistenza di un collegamento meramente processuale, fra i reati per i quali si procedeva ad intercettazione e quello emerso a carico del ricorrente. A tal riguardo, in particolare, deve rilevarsi che, qualora si succedano nel tempo, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo alla stregua del principio "tempus regit actum", che riguarda solo la successione nel tempo di leggi processuali, ma non delle interpretazioni di queste ultime (cfr. di recente, Cass. pen., Sez. II, n. 44678/2019; Cass. pen., Sez. II, n. 19716/2010). Diverso, per fatti non connessi a quelli per i quali si procedeva a carico di altri, sicché non sarebbero utilizzabili nel presente procedimento non ricorrendo il requisito prescritto dall'art. 270 c.p.p. costituito dal fatto che si tratti di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Osservazioni
1. Con la sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” depositata nel gennaio del 2020, come è noto, la Corte di cassazione ha accolto l'impostazione che fa leva su una nozione “sostanziale” della nozione di “diverso procedimento” prevista dall'art. 270 c.p.p., la quale non coincide con un "diverso reato", né può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, come il numero di iscrizione nel registro della notizia di reato. Secondo le Sezioni unite, ricorre lo stesso procedimento – o, al contrario non è configurabile la diversità tra procedimenti presupposto per l'operatività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p. – anche quando si tratti di reati diversi, purché sussista un legame sostanziale tra di loro (Cass. pen., Sez. unite, 28/11/2019, n. 51, dep. 2/01/2020, Cavallo ed altro). Le Sezioni unite, tuttavia, hanno compiuto alcune precisazioni su quale sia il “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l'autorizzazione all'intercettazione è stata emessa e quello emerso grazie ai risultati di tale intercettazione che rende quest'ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con l'art. 15 Cost., che vieta "autorizzazioni in bianco". Tale legame, secondo la Corte, è quello che consiste in una connessione ex art. 12 c.p.p. Quest'ultima riguarda procedimenti tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche solo in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri: si tratta, come è noto, di ipotesi che il codice di rito pone a base di un criterio attributivo della competenza autonomo e originario (ex plurimis, Cass. pen., Sez. Unite, n. 27343 del 28/02/2013, Taricco, Rv. 255345). «La parziale coincidenza della regiudicanda, oggetto dei procedimenti connessi, e dunque 11 legame sostanziale e non meramente processuale, tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai "fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede” (Corte cost. sent. n. 366 del 1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell'intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale fra essi, infatti, esclude che l'autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un'intercettazione in bianco». Al fine di ritenere configurabile il medesimo procedimento che non permette l'operatività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p., invece, non può essere valorizzato il criterio del collegamento investigativo di cui all'art. 371 c.p.p. (fuori dei casi di connessione, naturalmente, pure contemplati da tale norma). Con specifico riguardo alle ipotesi previste da tale disposizione, infatti, si tratta di relazioni intercorrenti non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l'autorizzazione e quello messo in luce dall'intercettazione, ma tra le "conseguenze" del primo e il secondo ovvero di relazioni che si risolvono in una mera "occasionalità" tra la commissione dell'uno e dell'altro: si tratta, dunque, di relazioni "deboli", che comunque consigliano una indagine unitaria per ragioni di mera opportunità o “processuali”. Tale relazione, però, non potrebbe mai permettere di sostenere che l'autorizzazione a effettuare intercettazioni in relazione ad un determinato reato abbia implicato una valutazione anche concernente l'illecito collegato al primo.
2. Con la medesima sentenza, le Sezioni unite hanno affermato pure che l'utilizzabilità dei risultati delle captazioni per l'accertamento di reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato, che siano emersi a seguito del suo espletamento, presuppone comunque che tali reati rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dall'art. 266 c.p.p. La Corte, pertanto, ha recepito un indirizzo che si era manifestato, tanto all'interno dell'orientamento che accoglieva la lettura “sostanziale” della nozione di diverso procedimento di cui all'art. 270 c.p.p. giudicata corretta dalle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. VI, n. 4942/2004; Cass. pen., Sez. I, n. 14595/1999), tanto in quello non accolto secondo cui qualora l'intercettazione sia legittimamente autorizzata all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento (Cass. pen., Sez. II, n. 1924 del 18/12/2015, dep. 2016, Roberti, Rv. 265989; Cass. pen., Sez. VI, n. 27820 del 17/06/2015, Morena, Rv. 264087; Cass. pen., Sez. VI, n. 53418 del 04/11/2014, De Col, Rv. 261838). In entrambi gli orientamenti contrapposti si era formato un indirizzo secondo cui l'utilizzo delle intercettazioni per reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte presuppone che rispetto agli illeciti emersi il controllo autorizzativo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi del medesimo art. 266 c.p.p. Questa seconda affermazione della Corte non può essere ritenuta un mero obiter dictum. Essa, infatti, appare costituire un punto centrale nell'interpretazione dell'art. 270 c.p.p. posto al vaglio delle Sezioni unite (anche se poi presenta conseguenze sulla lettura che deve essere data all'art. 266 c.p.p.). La conferma di tale giudizio si trae, oltre che dalle stesse espressioni adoperate dalla decisione (secondo cui si tratta di «un problema che contribuisce a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle sezioni unite …»), pure dal fatto che è espressamente contenuta nel principio di diritto contenuto nella stessa sentenza («… sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge»).
3. La sentenza illustrata si segnala perché costituisce una interessante applicazione della decisione delle Sezioni unite “Cavallo”. La Corte, in particolare, ha preso atto che la l'ordinanza impugnata è stata adottata solo due giorni dopo il deposito della sentenza delle Sezioni unite e che, dunque, verosimilmente non ha tenuto conto del mutamento dell'indirizzo giurisprudenziale in ordine ai presupposti per l'operatività del divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi di cui all'art. 270 c.p.p. In questo caso non può trovare applicazione del principio che regola la successione nel tempo delle norme processuali. Qualora si succedano nel tempo, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, pertanto, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo alla stregua del principio "tempus regit actum", che riguarda solo la successione nel tempo di leggi processuali, ma non delle interpretazioni di queste ultime.
4. Dopo la decisione delle Sezioni unite illustrata, la Corte di Cassazione ha precisato che l'applicazione dei principi affermati dalla sentenza “Cavallo” comporta di regola l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. Il giudice di merito, difatti, deve verificare la sussistenza del legale sostanziale tra il fatto – reato che ha giustificato il mezzo di ricerca della prova ed il reato emerso e, nel caso di insussistenza di una ragione di connessione ex art. 12 c.p.p., deve compiere la cd. “prova di resistenza”, verificando la possibilità di provare l'ipotesi accusatoria in forza degli ulteriori elementi probatori raccolti (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 15724 del 18/12/2020, dep. il 22/05/2020).
5. La Corte di cassazione, inoltre, ha precisato che l'inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, per violazione dell'art. 270 c.p.p. non è sanata dalla scelta difensiva di accedere al rito abbreviato (Cass. pen., Sez. V, n. 11745 del 6/02/2020). In questo rito alternativo, infatti, rimane la possibilità di dedurre l'illegittimità patologica del mezzo di prova, come ha precisato una ormai risalente, ma fondamentale pronuncia delle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. Unite, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro).
6. Al fine di delimitare la portata dell'affermazione contenuta nella pronuncia delle Sezioni unite va rimarcato che la stessa Corte ha precisato che non è in discussione l'orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte attiene solo alla valutazione di tali esiti come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini (Cass. pen., Sez. II, n. 17759 del 13/12/2016, dep. 2017; Cass. pen., Sez.II, n. 19699 del 23/04/2010; Cass. pen., Sez.IV, n. 2596 del 03/10/2006, dep. 2007; Cass. pen., Sez.V, n. 23894 del 02/05/2003; Cass. pen., Sez.VI, n. 31 del 26/11/2002, dep. 2003). In questa prospettiva, essa sottende che il pubblico ministero sia attento a monitorare gli esiti del mezzo di ricerca della prova e sia pronto ad aggiornare iscrizioni delle notizie di reato e le richieste di autorizzazione di intercettazioni in base ai risultati che via via emergono dalle captazioni. Questo pare un impegno che, francamente, ci si possa attendere.
7. La sentenza delle Sezioni unite, poi, non esclude neppure l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni allorché la stessa conversazione o comunicazione captata integri ed esaurisca la condotta criminosa, costituendo “corpo del reato” unitamente al supporto che la contiene (Cass. pen., Sez.V, n. 5856 del 4/12/2018, dep. 2019; Cass. pen., Sez.III, n. 38822 del 16/06/2016; Cass. pen., Sez. Unite, n. 32697 del 26/06/2014, Floris). La nozione di corpo di reato ex art. 253 c.p.p., difatti, può assumere anche una valenza immateriale; le comunicazioni tra soggetti, possono costituire corpo di reato, allorché la stessa espressione linguistica impiegata sia lesiva di un precetto penale; essa imprimendosi, sul supporto magnetico, rende anche quest'ultimo corpo di reato (Cass. pen., Sez. VI, n. 8670 del 07/05/1993; Cass. pen., Sez. VI, n. 14345 del 27/03/2001; Cass. pen., Sez. VI n.15729 del 21/02/2003; Cass. pen., Sez. VI, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008; Cass. pen., Sez. VI, n. 13166 del 29/11/2011, dep. 2012; Cass. pen., Sez. VI, n. 32957 del 17/07/2012). «Pertanto in relazione a determinati reati, nei quali la condotta criminosa assume carattere dichiarativo (falsità ideologica; falsa testimonianza e falsità analoghe; calunnia; simulazione di reato ed altri), il supporto cartaceo o la registrazione che contiene l'elemento dichiarativo che integra una delle fattispecie criminose citate costituisce corpo di reato, in quanto tale soggetto al disposto di cui all'art. 235 c.p.p.» (così, Cass. pen., Sez. V, n. 5856 del 4/12/2018, dep. 2019, cit.). La conversazione oggetto di registrazione, peraltro, costituisce “corpo del reato”, unitamente al supporto che la contiene, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la fattispecie criminosa (così, Cass. pen., Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris) e non quando essa contenga un riferimento alla condotta criminosa o integri un frammento di un più ampio comportamento illecito, come accade, per esempio, quanto attesti “l'accordo” per commettere un reato, fuori dai casi in cui il patto stesso integri già il delitto (come avviene, per esempio, per i reati di corruzione). Qualora la conversazione intercettata costituisce corpo del reato, comunque, deve essere acquisita agli atti del procedimento, ai sensi dell'art. 431, comma 1, lett. h), c.p.p., e può essere utilizzata come prova nel processo penale. Del resto, l'art. 271, comma 3, c.p.p., prevede che “in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato”, dimostrando in tal modo che lo stesso legislatore ipotizza che la documentazione delle intercettazioni, in considerazione del loro contenuto comunicativo o dichiarativo, possa costituire corpo del reato (così, Cass. pen., Sez. V, n. 5856 del 4/12/2018, dep. 2019, cit.). In relazione a questo aspetto, però, nella sentenza in commento, la Corte di cassazione ha compiuto una interessante precisazione. Una conversazione può costituire “corpo del reato” se integra ed esaurisce la fattispecie criminosa, ma non quando presenta un valore puramente narrativo e descritti degli illeciti oggetto del dialogo. Questa seconda eventualità è molto frequente: si pensi, per esempio, al caso in cui i soggetti intercettati raccontino le modalità di una rivelazione di segreti d'ufficio.
8. Ad avviso di scrive è diverso pure il caso in cui, all'esito delle captazioni, si deve procedere a una diversa qualificazione giuridica del “fatto – reato” per il quale sono state disposte le intercettazioni. L'ipotesi a cui si allude è quella in cui l'autorizzazione è stata adottata dal giudice per le indagini preliminari per la ricerca della prova di uno dei reati che rientra nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p. di cui, evidentemente, ha ravvisato la gravità indiziaria. I risultati delle intercettazioni, relativi al medesimo fatto storico presupposto dell'autorizzazione, tuttavia, dimostrano che la qualificazione giuridica di questo fatto debba essere diversa e, per giunta, “in melius” per l'indagato, essendo stato accertato un reato meno grave perché fuoriesce dai limiti di cui all'art. 266 c.p.p. Tali risultati sono comunque utilizzabili per la prova di questo fatto - reato. Le intercettazioni, dunque, autorizzate per la prova di un determinato fatto, qualificato provvisoriamente secondo una fattispecie di reato contenuta nell'art. 266 c.p.p., possono essere utilizzate come prova anche per la diversa fattispecie alla cui qualificazione si perviene all'esito delle operazioni, anche se questa non avrebbe consentito autonomamente l'adozione di un decreto di intercettazione (cfr. Cass. pen., Sez.I, n. 19852 del 20/02/2009; Cass. pen., Sez. VI, n. 50072 del 20/10/2009, P.M. in proc. Bassi; Cass. pen., Sez.I, n. 50001 del 27/11/2009; Cass. pen., Sez.I, n. 24163 del 19/05/2010; Cass. pen., Sez. VI, n. 24966 del 15/06/2011). Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova che è disposto nel corso delle indagini, in cui la contestazione è del tutto provvisoria e suscettiva di cambiamento. Risulta del tutto fisiologico che la qualificazione giuridica del fatto che ha permesso l'adozione dell'autorizzazione, dimostrato in forza di indizi gravi, cioè sulla base di quanto appurato fino a quel momento, possa evolvere, anche in positivo, nel corso delle indagini, man mano che vengono acquisiti elementi di prova, anche in forza delle intercettazioni. Se la prova del reato fosse stata già raggiunta, del resto, non dovrebbero essere disposte captazioni, perché non andrebbe cercata. L'art. 271 c.p.p. sanziona con l'inutilizzabilità le sole intercettazioni “eseguite fuori dei casi consentiti” o “senza l'osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268, comma 1 e 3, c.p.p.”, ponendo detta sanzione come conseguenza di vizi del momento genetico dell'attività di captazione. Ne deriva che è possibile eccepire e rilevare l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni perché non sussisteva, nel momento in cui è stato adottato il provvedimento autorizzativo, la gravità indiziaria di uno dei reati che rientrano nell'art. 266 c.p.p.
9. Il tema in esame, peraltro, è stato profondamente innovato dal legislatore. Il d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla legge n. 7 del 2020, ha modificato l'art. 270, comma 1, c.p.p., stabilendo che “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l'accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza e dei reati di cui all'art. 266, comma 1”. L'art. 270 c.p.p., quindi, anche dopo la riforma continua a prevedere un divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti. Essa ha disciplinato due distinte deroghe a tale divieto di utilizzazione. La prima riproduce la regola previgente e riguarda l'accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza; la seconda concerne i reati di cui all'art. 266, comma 1, c.p.p. L'utilizzabilità degli esiti delle captazioni realizzate aliunde, in altri termini, presuppone o che il reato sia tanto grave che per esso il legislatore ha previsto l'arresto obbligatorio in flagranza oppure che per il titolo di reato accertato sarebbe stato comunque possibile procedere autonomamente ad operazioni di intercettazione Per la prova di reati che rientrano nelle suddette deroghe, secondo la nuova formulazione della norma, i risultati delle intercettazioni sono utilizzabili anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state autorizzate se sono “rilevanti” e “indispensabili”. Questa locuzione, che aggiunge al carattere di indispensabilità, anche quello di rilevanza, presuppone una valutazione della consistenza del mezzo di prova, rimessa al giudicante e di difficilmente delimitabile. Accanto a questa interpretazione della nuova norma, secondo cui, dunque, l'utilizzo della congiunzione “e” indurrebbe ad ipotizzare la previsione di una doppia deroga al divieto di utilizzazione e rispetto alla quale si ravvisano tracce anche nei lavori preparatori, si potrebbe anche supporre una lettura alternativa alla cui stregua il legislatore richiederebbe, ai fini dell'utilizzabilità delle intercettazioni captate in altro procedimento, che il nuovo delitto in via di accertamento debba essere ricondotto tanto al catalogo dell'art. 380 c.p.p., quanto a quello dell'art. 266 c.p.p. Il legislatore, comunque, ha recepito solo una delle affermazioni della sentenza delle Sezioni unite “Cavallo”, quella secondo cui i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati per la prova dei reati diversi da quelli per i quali sono state disposte soltanto se tali reati siano comunque contenuti nel catalogo di cui all'art. 266, comma 1, c.p.p. La possibilità di questo utilizzo consegue solo dall'inserimento del reato nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p. (o in quello di cui all'art. 380 c.p.p.) e non deriva necessariamente dalla unicità del procedimento, desunta nella sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” dall'esistenza di un legame sostanziale tra i diversi fatti – reato, qualificabile come connessione ex art. 12 c.p.p.
10. L'art. 1 del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, modificando ulteriormente l'art. 9 del d.lgs. n. 216 del 2017, peraltro, ha stabilito che le nuove norme sulle intercettazioni si applicano “ai procedimenti penali iscritti dopo il 30 aprile 2020” e, quindi, non più “alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31 dicembre 2019”, come fissato in precedenza. Successivamente, l'art. 1 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, ha spostato la data dapprima indicata al 31 agosto 2020. Per effetto di queste disposizioni, è stato previsto una sorta di “doppio binario” quanto ai limiti temporali per l'applicazione della disciplina del mezzo di ricerca della prova, che dipende dalla data di iscrizione del procedimento penale. Una interpretazione letterale, infatti, conduce a ritenere che, per i procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, continui ad essere applicabile la disciplina previgente. La regola adottata per la determinazione dell'efficacia delle nuove norme pare è stata forse consigliata dall'intenzione di evitare la commistione di discipline diverse applicabili alle intercettazioni disposte nello stesso procedimento. Tale criterio, peraltro, potrebbe suscitare perplessità sul piano teorico, perché non fondato sul principio “tempus regit actum”, che invece fondava la precedente versione dell'art. 9 del d.lgs. n. 216 del 2017, cd. riforma Orlando la quale faceva riferimento all'epoca di adozione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, e comunque potrebbe far insorgere questioni di diritto transitorio, ad esempio, nel caso in cui all'iscrizione di un reato, avvenuta prima del 30 aprile 2020, ne seguano altre in epoca successiva aventi ad oggetto nuovi titoli di reato. |