Falso nella cartella infermieristica. Quando il fatto è aggravato di pubblico servizio?

28 Maggio 2020

L'infermiere in ragione dell'attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell'art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla l. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un'attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.
Massima

L'infermiere in ragione dell'attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell'art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla l. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un'attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Nel momento in cui l'infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un'attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del P.U.

Il caso

Tribunale di Salerno del 20.06.2017 con cui F.G. e M.M. venivano condannati alla pena di mesi nove di reclusione, per i reati di cui agli artt. 81 cpv., 476 e 479 c.p. per avere entrambi, quali infermieri della casa di cura, Campolongo Hospital s.p.a., (il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore), attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonché il primo, sempre su istigazione del secondo, per aver apposto su tali schede anche la firma del secondo.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, lamentando:

  • con il primo motivo, l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p., avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che i due imputati fossero investiti di funzioni pubblicistiche rilevanti ex art. 357 c.p.. Tale qualifica, a detta del difensore, poteva valere per gli infermieri delle strutture pubbliche con riferimento alla compilazione delle cartelle cliniche, da considerarsi alla stregua di atti pubblici, ma non in relazione alle cartelle redatte dal personale di strutture non accreditate con il servizio sanitario nazionale, assimilabili a mere scritture private (redatte e conservate al fine di promemoria dell'attività svolta). Da ciò deriverebbe l'insussistenza del reato contestato, potendosi al più parlare del reato di cui all'art. 485 c.p., depenalizzato;
  • con il secondo motivo, la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1,lett. e) in merito alla prova posta a fondamento della motivazione.

Anche la Casa di Cura Campolongo Hospital s.p.a., a mezzo del difensore, depositava memoria con la quale chiedeva l'inammissibilità od infondatezza dei ricorsi.

La Suprema Corte, valutate le questioni sollevate dai ricorrenti, dichiarava i ricorsi inammissibili.

La questione

Due sono le questioni principali, sollevate nei motivi di ricorso, che la Suprema Corte ha chiarito con la sentenza in esame, conformandosi a orientamenti precedentemente espressi: ovvero la natura delle cartelle cliniche - redatte da un infermiere impiegato in una casa di cura privata - e il ruolo di incaricato di pubblico servizio che costui riveste.

La Corte, dunque, richiamando altre pronunce su questioni analoghe, ha ribadito come gli infermieri, in ragione dell'attività espletata – attività che persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale poiché tesa a garantire il diritto alla salute, individuale e collettivo - siano da considerarsi a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio.

Tale qualifica va infatti riconosciuta sia agli infermieri che agli operatori tecnici addetti all'assistenza del malato, che abbiano con esso un rapporto diretto e personale, e ciò indipendentemente dal tipo di struttura nella quale viene espletata tale attività sanitaria.

In poche parole, dicono i giudici di legittimità, tali soggetti rivestono il ruolo di incaricati di pubblico servizio, sia se operanti in strutture sanitarie private, private accreditate o pubbliche, in quanto ciò che conta è la finalità cui tende la propria attività, di indubbia rilevanza pubblica, ovvero la cura e l'assistenza del malato, e, in senso lato, la tutela della salute collettiva e individuale.

Da ciò ne deriva che l'infermiere, nel momento in cui redige la cartella infermieristica esercita un'attività amministrativa con poteri assimilabili a quelli del pubblico ufficiale; mentre l'attività svolta, se estranea alle attribuzioni d'ufficio ed al rapporto con il malato, ma compiuta comunque nell'esercizio della professione sanitaria, sarà da intendersi compiuta quale soggetto esercente un servizio di pubblica necessità.

Una differenza di non poco conto se si pensa agli effetti che una eventuale condotta di falso può a sua volta comportare in termini di pena edittale.

Il falso compiuto in veste di incaricato di pubblico servizio rientra infatti nell'alveo degli artt. 476 e 479 c.p., le cui ipotesi delittuose sono punite con una pena da uno a sei anni di reclusione; mentre quello compiuto nell'esercizio di un servizio di pubblica necessità, potrà essere contestato ai sensi dell'art. 481 c.p. e sanzionato con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 516 euro.

Dopo essersi dunque concentrati sulla qualifica rivestita dagli imputati e sulla loro inevitabile classificazione quali incaricati di pubblico servizio, i Supremi Giudici sono passati ad analizzare le fattispecie di reato ad essi contestati, anche in ragione della tipologia di documento su cui si è esercitata la condotta di falso.

Precisano i giudici che la cartella infermieristica, o le schede che la compongono (riportando dati, rilievi effettuati, informazioni raccolte, documenti di pertinenza di un determinato paziente, cui viene assicurato un piano di assistenza personalizzato), poiché confluiscono necessariamente nella cartella clinica, ne seguono la natura: ovvero diventano atti pubblici muniti di fede privilegiata circa la loro provenienza ed i fatti in essi attestati.

Dunque l'operatore sanitario che li compila esercita poteri certificativi, in quanto il documento rilasciato ha, senza dubbio, efficacia probatoria e, ai sensi dell'art. 493 c.p., tali atti (redatti in veste di incaricato di un pubblico servizio), costituiscono atti pubblici a tutti gli effetti.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in oggetto si pone all'interno di un indirizzo consolidato, in tema di falso ideologico, commesso dall'incaricato di pubblico servizio, su cui sia la Quinta che la Sesta Sezione penale della Cassazione si sono di recente pronunciate.

Nella più recente sentenza (Cass. pen., n.45146/2019), il Supremo Collegio ha infatti analizzato il delitto di falsità ideologica del pubblico ufficiale, in atto pubblico fidefacente, dal punto di vista del medico che redige un certificato con false attestazioni.

Gli stessi giudici hanno qui ribadito come l'atto pubblico, oltre ad attestare fatti appartenenti all'attività del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua percezione, nasca proprio con la funzione e l'obiettivo di provare tali fatti – all'esterno - e di garantire che l'attestazione venga da un pubblico ufficiale autorizzato, nell'esercizio di una speciale funzione certificatrice.

In analoga sentenza della Sezione V, (Cass. pen., n. 41609/2014) è stato ribadito come la cartella infermieristica sia da considerarsi parte integrante della cartella clinica e, quindi, con natura di atto pubblico. Conseguentemente, integra il delitto di falso ideologico ex art. 479 c.p. l'annotazione sulla cartella infermieristica di un dato clinico che rappresenta una circostanza non veritiera perché contraria alla realtà dei fatti.

Dello stesso tenore è la pronuncia (Cass. pen. n. 12401/2010) con cui la Sezione VI ha evidenziato come integri il delitto di falsità ideologica, commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico fidefaciente, la condotta del medico ospedaliero che redige un referto con false attestazioni diagnostiche, in quanto la diagnosi riportata nel referto ha natura di fede privilegiata, essendo preordinata alla certificazione di una situazione caduta nella sfera conoscitiva del pubblico ufficiale, che assume anche un rilievo giuridico esterno alla mera indicazione sanitaria o terapeutica .

Osservazioni

Con l'odierna sentenza, la Suprema Corte ha inteso ribadire la linea di fermezza e rigore manifestata in precedenti (e recenti) pronunciamenti, in quanto, l'obiettivo sotteso resta quello di garantire la massima estensione al diritto alla salute, nella sua accezione pubblica e individuale.

E allora non può stupire che i Supremi Giudici evidenzino con forza come il ruolo dell'infermiere (e la triste cronaca di questi giorni di emergenza per il COVID-19 lo sta dimostrando) sia di primaria importanza in un sistema sanitario teso a salvaguardare, prioritariamente, la salute, e la vita, dei cittadini, e come le attestazioni riportate nella cartella infermieristica, tutt'altro che secondaria, confluiscano totalmente nella cartella clinica del medico, divenendone parte integrante anche al fine dell'individuazione e della personalizzazione della cura del singolo paziente, nonché della corretta somministrazione di farmaci o di altri presidi medici.

Pertanto, seppur nella sentenza in esame il focus sia necessariamente concentrato sulle fattispecie di falso ideologico, è indubbio, però, come ai giudici di legittimità premesse attirare l'attenzione e rimarcare il principio cardine sotteso al ruolo e alla funzione istituzionale rivestita dai soggetti imputati, richiamandone i doveri, sia che agiscano come di incaricati di pubblico servizio, sia come pubblici ufficiali o come esercenti un'attività di pubblica necessità: gli infermieri esercitano dunque i poteri certificativi loro attribuiti dalla legge nell'ottica più ampia di impedire che uno sviamento o un cattivo impiego di tale potere porti nocumento ad un bene di rango primario e superiore, quale è, lo ribadisce ancora una volta, quello della salute pubblica.

E il fatto che il proprio ruolo sia esercitato all'interno di strutture private o pubbliche, non può cambiare la ratio della norma né l'obiettivo di tutela del bene a cui è tesa: e ciò perché, il paziente, indipendentemente dalla struttura medica cui si rivolge per la cura della propria patologia, ha diritto sempre ad una prestazione di livello e di qualità.

Stesso discorso vale per l'attività del medico, il quale, a prescindere dalla tipologia di struttura in cui opera (che può tutt'al più comportare delle differenze in termini amministrativi, assicurativi o economici), non muta nella sua essenza né nella prioritaria finalità di cura ai pazienti.

Non a caso dunque i Giudici hanno citato l'art 1 della L.251/01 per rimarcare l'importanza di coloro “che con autonomia professionale esercitano attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva”: attività di cui Stato ne favorisce la valorizzazione e la responsabilizzazione poiché si tratta di funzioni e di ruoli che contribuiscono alla realizzazione del diritto alla salute, al processo di aziendalizzazione nel Servizio sanitario nazionale, all'integrazione dell'organizzazione del lavoro della sanità in Italia con quelle degli altri Stati dell'Unione europea.

Insomma, un ruolo di centralità che, teso alla tutela di un valore costituzionale così alto come quello dell'art 32, non può permettersi di snaturarsi in base ai singoli contesti sanitari in cui viene esercitato, né di piegarsi a logiche di settore dettate da diversi bisogni o necessità.

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