La Cassazione alle prese con la configurabilità del metodo mafioso in relazione alle organizzazioni criminali autoctone

Lorenzo Cattelan
26 Maggio 2020

Ai fini della configurazione del metodo mafioso di cui al terzo comma dell'art. 416-bisc.p. alle associazioni criminali autoctone, ossia quei sodalizi privi di una qualsiasi...
Massima

Ai fini della configurazione del metodo mafioso di cui al terzo comma dell'art. 416-bisc.p. alle associazioni criminali autoctone, ossia quei sodalizi privi di una qualsiasi nomenclatura tradizionale, occorre valutare oggettivamente, tanto sul piano dell'offensività quanto su quello della proporzionalità d'insieme, se l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, rinvenibile nel compimento di atti che richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio; a tal fine, gli indici di mafiosità di una consorteria criminale “atipica” sono ravvisabili, a titolo esemplificativo, nell'intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, nella natura e nelle forme di manifestazione degli strumenti intimidatori, negli specifici settori di intervento e nella vastità dell'area attinta dalla egemonia del sodalizio, nelle molteplicità dei settori illeciti di interesse, nella caratura criminale dei soggetti coinvolti, nella manifestazione esterna del potere decisionale, nonché nella sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali.

Il caso

Con la sentenza in commento la seconda sezione penale della Cassazione pone un ulteriore tassello alla ricostruzione giuridica delle dinamiche criminali che hanno interessato il municipio di Ostia dal 2007, anno indicato dai giudici di merito quale momento di ascesa del clan facente riferimento a Carmine Fasciani.

La copiosità del materiale decisionale offerto dai giudici di merito e di legittimità richiederebbe un approfondimento ben più esaustivo di quello che, in questa sede, si è scelto di fornire. In ogni caso, la questione giuridica più interessante affrontata dalla Suprema Corte lo scorso 16 marzo 2020, da cui prende spunto il taglio redazionale del presente contributo, riguarda l'applicabilità del c.d. metodo mafioso alle organizzazioni criminali autoctone, ossia a quei sodalizi mafiosi sviluppati in contesti territoriali diversi da quelli tradizionali.

Pertanto, le considerazioni che seguiranno hanno il preciso scopo di accompagnare il lettore nella disamina delle soluzioni fornite in merito allo specifico punto di diritto suesposto, rimettendo per il resto alla sentenza, che si caratterizza per una prosa ordinata e per argomentazioni fluide e chiare.

Il clan Fasciani, pur nato alla fine degli anni '90 quale semplice associazione per delinquere, a seguito del mutamento degli specifici settori di intervento e dell'evolversi della metodologia attraverso la quale, nel corso del tempo, l'area del municipio di Ostia (ambito territoriale in cui risiedono circa 200 mila abitanti) ha finito per essere significativamente asservita agli scopi – in parte direttamente illeciti e, dall'altra, di tipo imprenditoriale gestorio – perseguiti dall'originaria compagine, ne ha determinato l'evolversi in associazione mafiosa. L'influenza egemone dei Fasciani è riuscita ad esprimersi in maniera così incontrastata su tutte le altre presenze criminali del luogo (fra cui il clan Spada) tanto che il periodo di reggenza della famiglia è stata caratterizzata da una sostanziale tranquillità, determinata proprio dalla soggezione e dal timore provocato da Carmine e i suoi sodali.

Elementi sintomatici dell'accennato cambiamento criminologico del clan sono i plurimi episodi di intimidazione ed il conseguente asservimento che ne è conseguito in ordine, per esempio, agli interessi che ruotavano attorno al principale cespite economico costituito dal Village (uno stabilimento balneare che, oggi, a seguito di confisca, è destinato ad un progetto di inclusione per gli anziani).

In particolare, gli affari illeciti posti in essere da Carmine Fasciani e i suoi associati (Alessandro, Azzurra, Sabrina e Terenzio Fasciani unitamente a Bitti Luciano, Colabella John Gilberto, Bartoli Silvia Franca, Sibio Riccardo ed Inno Gilberto) comprendevano estorsioni, usura, traffico internazionale di stupefacenti e controllo delle concessioni balneari, oltre ad una serie di ristoranti, bar ed esercizi commerciali.

La configurazione mafiosa alla richiamata consorteria è stata attribuita, dai giudici di merito, dal momento in cui Carmine Fasciani viene chiamato ad assumere un ruolo nell'ambito delle dinamiche relative agli equilibri tra organizzazioni criminali presenti ad Ostia nel 2007, allorché, a seguito dei due attentati subiti da Vito Triassi, soggetto afferente alla mafia siciliana, viene incaricato di partecipare ad un summit in qualità di “paciere”.

In ogni caso, l'elevazione della caratura criminale non riguarda soltanto la singola persona ma anche quel substrato di carattere familiare che ne costituiva l'originario nucleo storico e che, successivamente, si verrà ad arricchire in ragione del consolidamento del clan e dell'espansione delle sue mire illecite. Così come si legge nella sentenza oggetto di commento, in sostanza, “il profondo radicamento sul territorio lidense acquisito dal sodalizio semplice sin dalla fine degli anni '90, con esercizio di condotte violente ed intimidatorie porta progressivamente a conoscere, temere e rispettare il nome di Carmine Fasciani, quale elemento di identificazione con il gruppo criminale omonimo, in virtù del compimento di successivi atti di intimidazione che emulano quelli dei clan mafiosi e dei metodi da essi utilizzati” (p. 75).

A riprova della significatività delle manifestazioni illecite realizzate dal gruppo mafioso, basti far riferimento alle violente modalità di acquisizione del Village, verificatasi attraverso ben sei atti incendiari e ripetute esplosioni di colpi da arma da fuoco contro l'abitazione di chi doveva vendere l'attività. Particolarmente evocativo, inoltre, è l'attentato ai danni di un esercizio commerciale posto in essere, oltre che con condotte di danneggiamento del locale, anche attraverso l'apposizione di vernice rossa come il sangue alle pareti e all'esposizione di una protesi in plastica riproducente una mano mozza. Si tratta, in sostanza, di incisive manifestazioni di violenza che hanno assunto, all'interno della ristretta comunità lidense di riferimento, notevole pervasività, peraltro accentuata dal riconoscimento della preminenza del clan anche da parte delle restanti organizzazioni criminali insistenti ad Ostia, a tal punto da attribuire a Carmine Fasciani il ruolo di “paciere” nelle loro contese.

La sentenza in commento, com'è noto, si iscrive in una complessa dinamica sia investigativa sia processuale, rappresentando l'epilogo dell'inchiesta Alba Nuova, coordinata dalla DDA di Roma sin dal luglio 2013. Più precisamente, la riconosciuta sussistenza in Ostia di un'associazione di stampo mafioso da parte della sentenza di primo grado, è stata smentita dalla pronuncia d'appello in ragione dell'assenza della prova della pervasività sia dell'associazione criminosa che del suo potere coercitivo e del conseguente stato di assoggettamento e di omertà. Quest'ultima decisione, su ricorso del P.G. presso la Corte d'Appello di Roma, è stata annullata con rinvio dalla Sesta sezione della Suprema Corte sul rilievo del carattere mafioso dell'associazione essendo la motivazione di secondo grado risultata “contraddittoria, quando non manifestamente illogica, rispetto alle acquisizioni probatorie date per conseguite dallo stesso giudice del merito” (p. 62).

La decisione in commento, quindi, si iscrive a seguito del ricorso avverso l'ulteriore sentenza di appello che, ripercorrendo la provvista probatoria già acquista agli atti, ha posto in rilievo la fondatezza della pronuncia di primo grado confermando la responsabilità penale di tutti gli imputati.

La questione

La particolarità del caso di specie attiene, come si è detto, alla natura autoctona dell'associazione criminale giudicanda. La questione, pertanto, attiene alle modalità di accertamento del metodo mafioso – e dunque alla conseguente applicabilità della fattispecie associativa di stampo mafioso – con riferimento alle c.d. mafie senza nome, ossia quei sodalizi criminali che malgrado siano privi di un nomen e di una storia criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note.

Da questo punto di vista è evidente la diversità della questione sollevata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione con ord. 15 marzo 2019 (dep. 10 aprile 2019), n. 15768, che si è interrogata sulla configurabilità del reato di cui all'art. 416-bisc.p. “con riguardo ad una articolazione periferica (cd. locale) di un sodalizio mafioso, radicata in un'area territoriale diversa da quella di operatività dell'organizzazione madre, anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l'organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento”.

Le soluzioni giuridiche

I giudici della Seconda Sezione Penale sviluppano le proprie argomentazioni dipanando da generali considerazioni attinenti alla tecnica legislativa con cui, nel 1982, la legge Rognoni-La Torre ha introdotto la fattispecie di cui all'art. 416-bisc.p.

Lungi dal voler riservare la criminalizzazione in parola alle sole mafie storiche – limitandosi, in altri termini, a registrare un dato della realtà preesistente – e alle correlative articolazioni periferiche oramai sparse in tutto il territorio nazionale, il legislatore ha inteso riferirsi anche a quelle consorterie delinquenziali (anche straniere) che, malgrado la loro innominatività, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note.

Ed è proprio nell'analisi del concreto manifestarsi delle associazioni che non sono qualificate sotto il profilo storico che la Corte di Cassazione individua il fulcro della propria motivazione in diritto. In questo senso, “il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell'art. 416-bisc.p., colloca la fattispecie all'interno di una classe di reati associativi che parte della dottrina definisce a struttura mista, in contrapposizione a quelli puri, il cui modello sarebbe rappresentato dalla generica associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p.” (pag. 65). Aderendo all'indirizzo oramai prevalente, gli ermellini ritengono dunque che il quid pluris delle associazioni di stampo mafioso sia rappresentato dagli elementi oggettivi della concreta forza di intimidazione, del vincolo di assoggettamento e di omertà, che si esplicano in modo effettivo e perdurante in un determinato contesto storico e ambientale, sia pur in assenza di manifestazioni eclatanti (contra Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2015 (, n. 31666; Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2018,n. 28722). D'altronde, la stessa Corte di Cassazione con riguardo al clan Spada (sempre) di Ostia ha statuito che il reato di associazione di tipo mafioso è applicabile non solo alle mafie tradizionali – consistenti in sodalizi dall'alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti ed in grado di provocare assoggettamento ed omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo dell'incolumità delle persone – ma anche alle mafie senza nome e senza storia, costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che influenzano una limitata area territoriale o un settore produttivo avvalendosi del cd. metodo mafioso, senza che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento (Cass. pen, Sez. V, 13 giugno 2018, n. 44156; Cass. Pen., Sez. V, 13 novembre 2019, n. 6764; Cass. pen., Sez. II, 30 gennaio 2020, n. 7847).

Pertanto, la Suprema Corte, tramite il richiamo alla nozione di caratura oggettiva del sodalizio, perviene a sottolineare la necessità di individuare un sufficiente grado di offensività che sia tale, sul piano della proporzionalità, da giustificare la rigorosità sanzionatoria espressa dalla cornice edittale dell'art. 416-bisc.p. (in questo senso, rilevano: Corte cost., n. 236 del 2016; Corte cost.,n. 40 del 2019 e, in tema di sanzioni "punitive", la Corte cost.,n. 112 del 2019).

Quest'ultimo riferimento al principio di offensività è il passaggio argomentativo che consente di cogliere l'assunto motivatorio secondo cui, per le mafie innominate, il giudice deve operare un vaglio rafforzato teso ad accertare, in concreto, il grado di pericolosità delle singole consorterie criminali. In quanto per esse non basta la parola mafia, dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, ponendo particolare attenzione alle peculiarità fattuali di volta in volta emergenti, assunto che non è consentito fare appello a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi praticati nei territori interessati da cosa nostra, camorra o ‘ndrangheta. Il rischio di un vulnus ai principi di tassatività e determinatezza della norma penale vengono, in questo senso, fugati dal richiamo che la Suprema Corte opera con riguardo alla dimensione oggettiva del metodo mafioso. In altri termini, le finalità mafiose perseguite dal sodalizio innominato devono andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il “tipo” normativo in connotazioni meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di “tipo d'autore”, oramai preclusi dal sistema (Cass. pen., Sez. II, 28 marzo 2017, n. 24850). Aggiunge poi la Corte che non è la “mafiosità” del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l'associazione; ma è il “modo di essere e di fare” che individua il tratto che rende quella associazione speciale rispetto alla comune associazione per delinquere, e che rappresenta il coefficiente aggiuntivo che giustifica – anche sul piano costituzionale – l'assai più grave trattamento sanzionatorio (p. 67).

Quali, dunque, gli indici sintomatici della presenza di un'associazione ex art. 416-bisc.p.? Secondo gli ermellini i risultati delle indagini storico-sociologiche devono essere prudentemente apprezzati alla luce dei seguenti elementi probatori (esemplificativi):

  • clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa compressione della autodeterminazione dei singoli) e di omertà;
  • natura e forme di manifestazione degli strumenti intimidatori;
  • specifici settori di intervento e vastità dei settori illeciti di interesse;
  • caratura criminale dei soggetti coinvolti;
  • manifestazione esterna del potere decisionale;
  • sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali.

Volendo esaminare più compiutamente i richiamati requisiti, è d'uopo evidenziare che la Cassazione ha assegnato agli elementi stessi una dimensione collettiva, rifiutando una deriva totalizzante (ossia coinvolgente l'intera popolazione di un dato territorio) ovvero minimizzante (e, quindi, afferente ad un'associazione che opera in una prospettiva poco più che individuale). Sul primo versante, infatti, la giurisprudenza ha già avuto modo di sostenere che il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza (Cass. pen., Sez. V, 20 maggio 2019, n. 26427). A maggior ragione, secondo i giudici della sentenza in commento, per le mafie atipiche non è il singolo atteggiamento a rilevare di per sé, bensì è la risposta collettiva a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione condizionante una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente sanciti dallo stesso art. 416-bisc.p. Sotto questo profilo, la forza intimidatrice dell'organizzazione mafiosa deve essere intesa come “a forma libera”, dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una flessibilità delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente la persona, con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà (p. 72).

Sulla base di quanto esposto la Corte ricava che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di cui all'art. 416-bis c.p., inizialmente individuato nel solo ordine pubblico, si è arricchito di altri interessi meritevoli di tutela, quali l'ordine pubblico economico l'esercizio di diritti e libertà costituzionalmente garantiti.

Osservazioni

L'impostazione argomentativa e sistematica dell'intera sentenza è identificabile nell'apprezzabile tentativo di inquadrare gli estremi della fattispecie di cui all'art. 416-bisc.p. in termini oggettivistici.

D'altronde è lo stesso legislatore a non essersi limitato a registrare realtà criminali già presenti sul territorio (e quindi dotate di un nomen e di una fama criminale) e, al contrario, ad essersi spinto nel perseguire compagini - pure straniere - che, malgrado la loro innominatività, utilizzino metodi e scopi corrispondenti alle associazioni mafiose già note. Tale dimensione oggettiva si manifesta proprio con riferimento al c.d. metodo mafioso, assunto che l'intimidazione e l'assoggettamento omertoso che ne possono derivare rappresentano in sé un fatto che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori danni scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine.

La conseguenza pratica è rilevantissima: qualora venga in questione l'applicabilità dell'art. 416-bisc.p. con riguardo ad una mafia innominata ovvero ad una diramazione periferica di un'organizzazione tradizionale (cd. locale, ‘ndrina, et similia) i giudici sono chiamati a dar rilievo alla sequenza tipicità/offensività/proporzionalità. In altri termini, gli ermellini prendono una posizione nettamente contraria rispetto ai precedenti indirizzi giurisprudenziali (anche di legittimità) favorevoli alla configurabilità del metodo mafioso in termini anche solamente potenziali nonché alla verifica dell'insorgenza di un mero pericolo rispetto alla libertà morale dei consociati.

Nessuna scorciatoia, dunque. La Corte, infatti, statuisce chiaramente la necessità di ancorare il disvalore tipico delle associazioni di stampo mafioso al “fatto”. Ed è proprio l'impostazione oggettivistica-materiale che consente, secondo la convincente ricostruzione della Seconda Sezione, di superare le critiche in punto di fattispecie sociologicamente orientata, con le conseguenti ricadute in termini di determinatezza e di precisione della norma incriminatrice. La portata tendenzialmente assoluta del principio di riserva di legge ex art. 25, co. 2, Cost. – sulla base del quale la Corte Costituzionale ha già affermato che il principio di determinatezza non esclude l'ammissibilità di formule elastiche (Corte Cost., 27 settembre 2004, n. 302; Corte Cost., 11 giugno 2014, n. 172) – viene in questo senso rispettata, dal momento che i profili attinenti al substrato ambientale del territorio di riferimento dell'organizzazione criminale devono assumere i caratteri del fatto che a sua volta, naturalmente, deve costituire oggetto di prova adeguata.

In questo senso, assoggettamento ed omertà rappresentano gli eventi che devono scaturire dall'intimidazione: “fatti”, quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale (p. 69).

In aggiunta, è ulteriormente condivisibile l'assunto della Corte per cui solo aderendo all'orientamento suesposto si consente di evitare un'ingiustificata disparità di trattamento tra mafie atipiche e mafie tradizionali, giacché altrimenti sarebbero sottoposti alla disciplina di maggior rigore solo i sodalizi già noti e non quelli che perseguano gli stessi fini con gli stessi mezzi e realizzino, con ciò, il medesimo coefficiente di maggior disvalore rispetto alla semplice associazione per delinquere.

La questione è pertanto individuabile nel riconoscimento del carattere variabile – in ragione del contesto temporale e territoriale nonché dell'ampiezza della consorteria innominata – degli elementi del metodo mafioso e, in particolare, della forza di intimidazione dispiegata da organizzazioni criminali di ridotte dimensioni e senza un approfondito background sociologico.

A ben vedere, il descritto “effetto a fisarmonica” della fattispecie incriminatrice, lungi dal costituire un elemento di indeterminatezza legato ad un'operazione giurisprudenziale di adattamento, rappresenta il modo di essere dell'illecito in esame. Gli stessi indici fattuali isolati dalla Suprema Corte per vagliare la bontà della soluzione adottata nonché l'esatta composizione del “mosaico delle condizioni di applicazione della fattispecie”, confermano l'inevitabile plasticità di un ragionamento decisorio condotto tra diritto e prova adeguata.

L'aver scolpito il terzo comma dell'art. 416-bisc.p. in termini oggettivi, oltre ad aver assicurato il rispetto dei principi costituzionali, ha permesso di scansare i tentativi di descrivere la norma stessa come un esempio di fattispecie a “geometria variabile” o, comunque, “socialmente orientata”. Infatti, ogni indebita estensione della portata oggettiva della disposizione trova un limite nella necessaria effettività del metodo intimidatorio. Metodo che, riassumendo, è a forma libera – nel senso che può ben manifestarsi anche solo attraverso modalità silenti e non eclatanti, purché evocative della portata offensiva del sodalizio – ma che rimane pur sempre bisognoso di verifica empirica attraverso prove adeguate.

In conclusione, così come confermato dalla Cassazione, si può legittimamente affermare che la città di Roma ha conosciuto l'esistenza di una presenza “mafiosa” sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento.

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