La Magistratura di Sorveglianza alle prese con l'ermeneutica dell'emergenza

Lorenzo Cattelan
13 Maggio 2020

Un generico rischio da contagio da Covid-19 all'interno dell'istituto penitenziario non consente il rinvio dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 147 c.p...
Massima

Un generico rischio da contagio da Covid-19 all'interno dell'istituto penitenziario non consente il rinvio dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 147 c.p., presupponendo la norma una “grave infermità fisica” e non essendo la stessa (norma) suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.

Poiché le cause di inammissibilità sono insanabili e rilevabili ex officio in ogni stato e grado del procedimento, l'art. 666, comma 2, c.p.p., prevedendo la declaratoria di inammissibilità de plano da parte del Presidente del tribunale di sorveglianza, non esclude analoga pronuncia (de plano) da parte del collegio.

Il caso

L'attuale situazione di emergenza sanitaria, com'è noto, suscita particolare vivacità tra gli interpreti del diritto penitenziario, impegnati nella ricerca di un adeguato bilanciamento tra principi fondamentali del nostro ordinamento, quali il diritto alla salute e quello di legalità.

Con l'ordinanza in commento il Tribunale di Sorveglianza di Torino, chiamato a decidere un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica (art. 147 c.p.), ha tracciato un solco significativo a favore delle istanze legalitarie.

La vicenda in esame trae origine dalla richiesta di scarcerazione di Z. A. che, detenuto presso la casa circondariale di Alessandria, lungi dal rafforzare la propria istanza attraverso l'allegazione di una particolare patologia fisica, si è spinto a sostenere che la grave crisi sanitaria in corso nel Paese, unita al conseguente rischio di contagio all'interno degli istituti penitenziari per la carenza di strutture adeguate, giustifica un'estensione analogica dei presupposti tipici dell'istituto de quo.

Gli accertamenti compiuti ai fini della trattazione collegiale del procedimento in esame hanno confermato che le patologie dell'interessato (una banale cisti nucale ed occasionali odotalgie) non configurano la grave infermità fisica di cui all'art. 147 c.p.

Appare chiaro, da questo punto di vista, che il condannato, attraverso la propria istanza, chiede esplicitamente al collegio di sorveglianza di rivedere il consolidato orientamento secondo cui le norme penali redatte con chiara tecnica tassativizzante soggiacciono al divieto di interpretazione estensiva e, a maggior ragione, analogica ex art. 14 prel. e artt. 1 e 199 c.p.

La diffusione pandemica del virus Covid-19, secondo la posizione dei legali dell'interessato, avrebbe una incidenza così significativa (anche) sulla condizione fisica dei singoli detenuti, tutelata a livello costituzionale dall'art. 32, da giustificare un'interpretazione estensiva del preciso dettato legislativo e, conseguentemente, una maggiore amplificazione della (già ampia) discrezionalità dei giudici di sorveglianza. In altri termini, la propugnata impostazione, ritiene che il magistrato di sorveglianza abbia il compito di valutare, caso per caso, le singole istanze, ben potendo svincolarsi dai presupposti oggettivi richiesti dalle singole disposizioni penitenziarie, assunta la valenza preminente del diritto fondamentale alla salute sancito dall'art. 32 della Costituzione.

La questione

Dall'adozione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia) sino al recentissimo decreto legge 30 aprile 2020, n. 28 (c.d. decreto Rilancio) autorevoli commentatori si sono spesi nel fornire un quadro quanto più possibile chiaro e lucido delle possibilità offerte ai soggetti ristretti di ottenere una misura extramuraria in grado di attenuare il rischio di possibile contagio derivante dalla diffusione del Coronavirus presso le sovraffollate strutture carcerarie italiane.

Non pare dunque il caso di fornire nuovamente una panoramica descrittiva dei vari istituti offerti dalla multiforme normativa penitenziaria. Così come non pare la sede per esemplificare didatticamente i requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per la concessione del rinvio facoltativo ex art. 147 c.p.

Semmai, è utile valorizzare la questione giuridica sottesa all'ordinanza in commento, così da poter dar conto della soluzione offerta che, come si vedrà, pone – finalmente, a mio avviso – un freno all'eccesivo orizzonte possibilista prepotentemente presente in dottrina.

La questione è riassumibile nei seguenti termini: se sia possibile, attraverso un'interpretazione di fatto estensiva o analogica, che un generico rischio da contagio da Covid-19 all'interno dell'istituto penitenziario integri i presupposti del rinvio dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 147 c.p.

Considerazioni in punto di analogia. Nonostante l'emergenza sanitaria, il nostro continua ad essere uno Stato di diritto e i Magistrati, pertanto, sono chiamati ad applicare le norme – ed i principi ad essi sottostanti – così come predisposte dal legislatore (ove, naturalmente, non contrastanti col dettato costituzionale o comunitario o convenzionale).

In questo senso, è solo il caso di accennare ai passaggi evolutivi che hanno inciso sugli attuali pacifici limiti di applicabilità del divieto di analogia in ambito penale.

Vigente il codice penale del 1865, era considerazione diffusa che il divieto di analogia in materia penale riguardasse solamente le norme incriminatrici e sanzionatorie con esclusione, dunque, di quelle di favore. Tale considerazione era confortata dalla assimilazione alle “leggi penali” di ogni altra legge restrittiva del libero esercizio dei diritti.

A seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice civile del 1942 e del richiamato art. 14 disp. prel. c.c. si è assistito al dibattito tra sostenitori dell'assolutezza del divieto e fautori dell'assunto della relatività dello stesso, non estensibile alle disposizioni di favore (c.d. analogia in bonam partem). Quanto ai primi, l'affermazione che “leggi penali” dovessero ritenersi tutte le norme aventi comunque contenuto di rilevanza penale era in un primo tempo argomentata con considerazioni di ordine formale o di interpretazione letterale, solo più tardi irrobustite con rilievi di ordine sostanziale, tra i quali l'asserita illogicità che il sistema penale, formante un complesso unitario, potesse essere retto da regole diverse, una dettata per le sole disposizioni che prevedono reati, penale, effetti penali e misure di sicurezza, ed altre dettate per le restanti norme. Le critiche di ordine teleologico basate su una rivisitata interpretazione del dato letterale, hanno consentito di interrogarsi sui reali limiti di invocabilità del procedimento analogico in bonam partem.

Nel dettaglio, sono tre i limiti che si frappongono all'applicabilità in via analogica delle disposizioni di favore.

Il primo è desumibile proprio dall'art. 14 prel. che, nel ridimensionare l'operatività del meccanismo di integrazione analogica ex art. 12 prel., fa riferimento non solo alle leggi penali, ma anche a tutte le norme “che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi”, le quali “non si applicano oltre i casi e i tempi in essere considerati”. Detto altrimenti, l'operazione analogica è esclusa con riguardo alle norme favorevoli dell'ordinamento penale che presentino il connotato della eccezionalità.

Il secondo si rinviene nel riscontro negativo delle condizioni essenziali normalmente richieste per il ricorso all'analogia, ossia allorché l'eadem ratio sia desunta da fonti sostanziali (e non già direttamente dalla disposizione scritta).

Utile passaggio argomentativo per l'emersione del terzo limite consiste nella statuizione per cui le disposizioni favorevoli devono presentare quel grado di determinatezza necessario perché se ne possa cogliere la ratio su cui poggiare il ragionamento di similitudine. Da ciò, infatti, si desume che l'opzione analogica risulta percorribile solo quando la contestata lacuna non rispecchi una intenzionale scelta di esclusione del legislatore, tradottasi in una regolamentazione compiuta e chiusa ad ogni sorta di integrazione da parte dell'interprete.

Orbene, da questa breve digressione di stampo manualistico non si può far altro che constatare che la tecnica utilizzata dal legislatore con l'introduzione dell'art. 147 c.p. sia caratterizzata da evidente tassatività, determinatezza e chiusura. L'elencazione di cui al primo comma indica il numerus clausus delle ipotesi in cui è differibile l'esecuzione della pena (presentazione di una domanda di grazia, esigenze derivanti da condizioni di grave infermità fisica, contingenze legate alla situazione di madre di prole di età inferiore ai tre anni) e rappresenta il risultato del bilanciamento – di competenza del legislatore – fra diritto alla salute del condannato ex artt. 27 e 32 Cost. ed esigenze sicurezza pubblica e di difesa sociale rappresentate dal dovere statale di far espiare la pena comminata a seguito di regolare processo.

Richiedere al giudice di sorveglianza, come nel caso della vicenda in commento, di estendere la portata della locuzione “grave infermità fisica” ad un mero astratto pericolo di diffusione del virus all'interno dell'istituto e, conseguentemente, ad un altrettanto probabile rischio di contagio che, a livello ipotetico, nel caso di sintomaticità non latente, potrebbe comportare un serio pregiudizio alla salute del singolo individuo sembra davvero eccessivo.

In conformità con questa riflessione si pone il Tribunale di Sorveglianza di Torino.

Le soluzioni giuridiche

La richiamata impraticabilità dell'estensione analogica dell'istituto di cui all'art. 147 c.p. ha inevitabilmente condotto il giudice torinese a dichiarare inammissibile l'istanza presentata dal detenuto.

Peraltro, a sostegno della intenzionale tassatività delle ipotesi in cui è concedibile il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena, il collegio di sorveglianza richiama la nota sentenza della Corte Costituzionale, 20 febbraio 2020 (dep. 19 aprile), n. 99 “che non avrebbe dichiarato incostituzionale l'art. 47-ter, comma 1-ter, O.P., nella parte in cui non prevede la sua applicabilità anche all'ipotesi di infermità psichica sopravvenuta del detenuto, se fosse stata possibile un'interpretazione estensiva o analogica dell'art. 147 c.p., il quale è (al pari dell'art. 146 c.p.) espressamente richiamato dalla disposizione dichiarata parzialmente illegittima” (pag. 2). Particolarmente significativi, in questo senso, sono i passaggi motivazionali della citata sentenza 99/19 in cui si sottolinea che l'art. 147 c.p. “riguarda solo i casi di grave infermità fisica” e che “la norma non lascia margini per una diversa interpretazione”.

In aggiunta, i magistrati di sorveglianza rilevano che, proprio a fronte dell'emergenza sanitaria in corso, il Governo ha scelto di intervenire nel panorama delle possibilità dei singoli reclusi di ottenere misure extramurarie attraverso l'art. 123 d.l. 18 del 2020 (c.d. decreto Cura Italia). Che poi lo strumento introdotto sia inservibile e altamente criticabile è un altro discorso. Ciò che conta è che il legislatore, consapevole dell'eccezionale diffusione pandemica, ha scientemente messo a disposizione dei detenuti questo nuovo istituto e non ha minimamente voluto estendere i confini di applicabilità delle misure alternative già esistenti. Questa considerazione, che può apparire persino scontata, è utile per chiarire che ai Magistrati non è dato alcun potere di discostarsi dal principio di legalità, ai sensi del quale le funzioni pubbliche si esercitano “nei casi, nei modi e nei limiti previsti dalla legge e dalla Costituzione”. In sostanza, le pur condivisibili impostazioni etiche del singolo giudice non si possono sostituire alle scelte dei rappresentanti del popolo (art. 101, comma 2, Cost.), intese quali risultanze di complessi giudizi di bilanciamento fra valori costituzionali confliggenti; giudizi peraltro operati proprio con riferimento alla specifica situazione di emergenza. “In uno Stato costituzionale di diritto – afferma il Tribunale di Sorveglianza di Torino – non sono ammissibili interpretazioni speciali per situazioni eccezionali (così parafrasandosi quanto ha icasticamente scritto il 28 aprile 2020 il Presidente della Corte Costituzionale nella relazione sull'attività della Consulta nel 2019): situazioni eccezionali che vanno fronteggiate con strumenti normativi apprestati ad hoc dal Legislatore (quale è, per l'appunto, quello ex art. 123 cit.)” (pag. 3).

Altrettanto interessante, infine, è la tipologia di ordinanza adottata dal Tribunale di Sorveglianza torinese. Con la declaratoria di inammissibilità, infatti, i giudici mostrano di aderire al prevalente orientamento della Cassazione per cui in materia di esecuzione, la norma che attribuisce al Presidente del Tribunale di Sorveglianza la pronuncia di inammissibilità ai sensi dell'art. 666, secondo comma, c.p.p. delle richieste manifestamente infondate, non esclude la pronuncia de plano di analoghe decisioni da parte del collegio, sempreché ne ricorrano le condizioni e non vengano frustrati i diritti di difesa e di impugnazione dell'interessato (Cass. pen., Sez. I, 27 ottobre 2005, n. 43023, Troccoli, Rv. 232710; Cass. pen., Sez. I, 14 ottobre 1991, n. 3739, Franceschini, Rv. 188617; Cass. pen., Sez. I, 24 settembre 1993, n. 3601, Angelino, Rv. 195341; Cass. pen., Sez. III, 25 settembre 1995, n. 3039, Ivanovic, Rv. 202697; Cass. pen., Sez. I, 12 novembre 1997, n. 6330, Boccio, Rv. 209523; Cass. pen., Sez. V, 04 gennaio 2000, n. 9, Rotondi, Rv. 215975).

Ne deriva il disallineamento con quanto statuito nel 2017 dalla prima sezione della Suprema Corte, secondo cui il provvedimento di inammissibilità emesso de plano dal collegio in luogo del Presidente, configurando un'ipotesi di incompetenza funzionale, sarebbe affetto da nullità (Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio 2017, n. 17850, Castriotta, Rv. 270297). Le ragioni che hanno portato il Tribunale di Sorveglianza di Torino a superare tale precedente sono le seguenti:

  • la pronuncia del 2017 costituirebbe un orientamento assolutamente minoritario della giurisprudenza di legittimità;
  • le cause di inammissibilità, in quanto non soggette a sanatoria, sarebbero rilevabili, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del procedimento (Cass. pen., Sez. II, 10 luglio 2014, n. 40816, Gualtieri, Rv. 260359). A sostegno di questa tesi, peraltro, i giudici di sorveglianza riportano un passaggio motivatorio di Cass. pen., Sez. II, 14 luglio 2016, Fassih, Rv. 267500, in cui si esplicita che “l'inammissibilità, costituendo una patologia che riguarda esclusivamente gli atti di una parte processuale, nel caso di specie dell'imputato, deve potere essere rilevata d'ufficio fino al formarsi del giudicato, senza che possano verificarsi forme, non previste dalla legge, di sanatoria. Ne consegue, pertanto, che la causa di inammissibilità è deducibile e rilevabile in ogni stato e grado del processo cautelare e, dunque, anche in sede di giudizio di appello”.Ancora,Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 1998, n. 4225, Varriale, Rv. 211598, afferma che “le cause di inammissibilità sono sempre rilevabili anche di ufficio e il loro esame è preliminare e assorbente rispetto a ogni altra questione di ordine processuale”;
  • in realtà, l'orientamento del 2017 pare essere già stato autorevolmente superato dalle Sezioni Unite nel 2018 che, con riferimento proprio alla preclusione processuale ai sensi dell'art. 666, secondo comma, c.p.p., hanno statuito la legittimità della dichiarazione di “inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso la decisione esecutiva che l'abbia rigettata nel merito invece di dichiararla inammissibile” (Cass. pen., SS. UU., 19 aprile 2018, n. 40151, Avignone, Rv. 273650).
Osservazioni

A causa della crisi sanitaria, gli interpreti del diritto penitenziario sono chiamati ad affrontare quella che si può definire l'ermeneutica dell'emergenza.

È doveroso premettere che la portata fondamentale del diritto alla salute comporta che lo spazio carcerario non possa essere sottratto alla tutela di tale diritto. In questo senso, la risposta alle necessità di cura del soggetto ristretto non può essere differenziata rispetto alla risposta generale. Ne è riprova la scomparsa della sanità penitenziaria e la sua riconduzione alla sanità generale, ovvero a quella regionale.

A livello di considerazione generale, prima di passare alla disamina più prettamente tecnica, appare singolare che nel nome del diritto alla salute mentre alla popolazione generale s'impone il confinamento, chi è di per sé confinato venga fatto uscire, magari per andare da un luogo preservato a luoghi a rischio.

In ogni caso, le norme messe a disposizione dal legislatore a favore dei reclusi, nonostante l'emergenza in atto, sono quelle che tutti noi conosciamo, niente di più e niente di meno. Le norme esistenti, in altri termini, non hanno una geometria variabile. E (anche) su queste norme, gradite o meno che siano, deve basarsi il l'assoggettamento del giudice alla legge. Anzi, si può pure dire che esse costituiscano l'indipendenza stessa del magistrato, fermo restando – come già ribadito – il controllo incidentale di costituzionalità, al netto dell'immediata disapplicazione di norme manifestamente illegittime o in conflitto con la Convenzione EDU.

Oramai è chiaro che il moderno diritto penale si basi su giudizi di bilanciamento fra principi inevitabilmente in conflitto. L'imparzialità del giudice, in questo contesto, non può divenire indifferenza rispetto ai valori confliggenti ma neppure può rivelarsi strumento teleologicamente diretto alla manipolazione degli stessi. In ciò si fonda il divieto di analogia delle norme di cui si discute.

Nel dettaglio, poi, l'analisi degli artt. 684, comma secondo, c.p.p. e 147 c.p. fa emergere con chiarezza quanto sino ad ora sostenuto.

L'art. 684, comma secondo, c.p.p., affidando al magistrato di sorveglianza la valutazione prognostica della valutazione di rinvio dell'esecuzione della pena riservata al tribunale, laddove menziona il grave pregiudizio per il condannato derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, non fa di certo riferimento ex se al rischio da contagio né, tantomeno, alla carenza trattamentale che l'attuale condizione sanitaria determina all'interno delle carceri.

Il requisito della grave infermità fisica di cui all'art. 147 c.p., infatti, richiede la presenza di una significativa patologia fisica in essere che, scientificamente, in relazione ad un comprovato rischio – maggiore di quello extramurario – abbia l'attitudine attuale a divenire, di per sé, grave o irreparabile nel caso in cui scattasse il contagio. Com'è già stato autorevolmente notato, in tutti gli altri casi, compreso quello del detenuto che abbia contratto il coronavirus ma sia asintomatico nonché privo di altre rilevanti patologie e pertanto, nel concreto momento, compatibile con la condizione carceraria, l'unico rimedio è costituito dall'isolamento intramurario.

A quanti ribattono facendo leva sulla oggettiva difficoltà delle strutture penitenziarie di attuare il disposto di cui all'art. 11, comma undicesimo, ord. penit. rispondo richiamando un noto brocardo: adducere inconveniens non est solvere argumentum.

In chiusura, la tutela del diritto alla salute, non irragionevolmente ritenuto prevalente al dovere di esecuzione della pena detentiva e alle esigenze cautelari, nelle ipotesi di cui all'art. 147 c.p., nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, esige nelle ipotesi di non attualità di un grave pregiudizio alla salute del singolo detenuto il rafforzamento della risposta amministrativa e la predisposizione di ulteriori spazi carcerari deputati all'isolamento sanitario.

Guida all'approfondimento

G. TAMBURINO, Epidemia – Salute – Carcere, in Giustizia insieme, 5 maggio 2020;

F. FIORENTIN, Decreto legge “Cura Italia”: le misure adottate dal Governo per affrontare l'emergenza COVID-19 in materia penitenziaria, in questa Rivista, 20 marzo 2020.

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