Il profitto confiscabile nel reato di occultamento o distruzione di documenti contabili
09 Marzo 2020
Massima
Nel delitto previsto dal d.lgs.n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l'importo dell'evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 2-bis, con riguardo al tributo evaso e a eventuali sanzioni e interessi maturati sino al momento dell'occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta. Il caso
Il Tribunale di Vicenza ha respinto l'appello cautelare proposto dal pubblico ministero contro il provvedimento con cui il Gip aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto connesso al reato di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10, sì da non rendere possibile la ricostruzione dei redditi e del volume degli affari. Contro tale ordinanza ha proposto ricorso il pubblico ministero, lamentando, con il primo motivo, l'inosservanza del d.lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 e 12-bis, e dell'art. 240 c.p., per essere stato illegittimamente ritenuto che il delitto oggetto d'indagine non consentisse di ravvisare un profitto illecito suscettibile di confisca. Trattandosi di reato di pericolo, il ricorrente ha sostenuto che quando i verificatori, nonostante la condotta di ostacolo posta in essere dall'agente, riescano comunque a ricostruire il reddito e le imposte dovute, sarebbe quantificabile il vantaggio economico della condotta illecita e potrebbe dunque essere sottoposto a confisca, anche per equivalente, il corrispondente profitto. Si lamenta ancora il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui l'ordinanza impugnata, non correttamente richiamando una decisione di legittimità, ha ritenuto che la condotta punita dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10, sarebbe di per sè intraducibile in un risultato economico preciso, la cui individuazione dovrebbe invece passare inevitabilmente attraverso la diversa condotta di evasione. La questione
La questione sottoposta al Supremo Collegio èse sia configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 comma 2-bis c.p.p., in relazione al delitto di occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, punito ex art. 10 d.lgs. n. 74/2000. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, affermando un innovativo principio di diritto in tema di confisca e distruzione o occultamento dei documenti contabili. Ritiene il Supremo Collegio che da tale reato, contrariamente a quanto ritenuto in dottrina, possa derivare un profitto ricostruito dalla P.G. in capo al contribuente infedele, che a sua volta può essere oggetto di confisca e prima ancora di sequestro cautelare. Ed invero, è pur vero che dalla commissione dell'illecito, di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000, il contribuente infedele può sicuramente ricavare un vantaggio economico, in quanto la condotta incriminata consiste infatti nell'ostacolare l'attività di verifica fiscale nei confronti del contribuente, impedendo così l'emersione delle irregolarità tributarie, con la conseguenza che, quando tale comportamento ottenga il risultato di ostacolare l'opera degli organi accertatori, il profitto ottenuto sarà rappresentato dalla mancata emersione dell'evasione d'imposta, con conseguente omesso versamento dei relativi importi (e delle somme dovute a titolo di sanzioni ed interessi); ma è altrettanto vero che va registrata la difficoltà di definire l'ammontare del profitto, posto che, in presenza di una condotta di distruzione o occultamento dei documenti contabili, può essere impossibile determinare l'imposta evasa e quindi determinare il profitto ricavato dal contribuente. In relazione a quest'ultimo profilo, la decisione in commento presenta un significativo profilo di novità sostenendo che, se in alcuni casi, proprio a cagione della condotta del contribuente, non si può ricostruire, neppure in parte, il reddito ed il volume degli affari e quindi non è possibile individuare, nell'an o nel quantum, un'eventuale imposta dovuta, in altre ipotesi, invece, si riesce a determinare quale sia stata l'imposta evasa dal privato e allora in tali casi non v'è ragione di non applicare la regola generale che prevede la confisca del profitto del reato, anche nella forma per equivalente. La Suprema Corte ribadisce il suo recente pacifico orientamento secondo cui «il profitto costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato, esso può consistere anche in un risparmio di spesa (Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, dep. 2014, Riva Fi.re Spa e a., Rv. 257788), ciò che, nei reati tributari, coincide col mancato pagamento del tributo ed è di regola costituito, nei reati dichiarativi e di omesso pagamento, dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, non comprendendo anche le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (Sez. 3, n. 17535 del 06/02/2019, Antonelli, Rv. 275445; Sez. 3, n. 28047 del 20/01/2017, Giani e a., Rv. 270429). Laddove, per contro, la condotta consista nel sottrarsi al pagamento di un debito tributario già accertato, come nel caso del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 11, il profitto si estende anche al mancato pagamento degli interessi e sanzioni dovute (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami e a., Rv. 255036; Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Mazzieri, Rv. 253480». La giurisprudenza ha così superato l'impostazione dottrinale «secondo cui l'illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione” con la ulteriore conseguenza che “il profitto non potesse essere assoggettato a confisca diretta perché: 1) il valore sottratto, cioè l'imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo, non poteva considerarsi “provento da reato”; 2) era impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra res, cioè denaro risparmiato, e il reato» (P. SILVESTRI, Le confische, in AA.VV., Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamento delle sezioni penali, suppl. di Cass.pen., 2016, p.405; in argomento, per tutti, R.BRICCHETTI - P.VENEZIANI, La confisca, in R.Bricchetti - P.Veneziani (a cura di), I reati tributari, Torino, 2017, p. 465 e ss.). In relazione alla fattispecie di reato di cui all'art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000, va premesso che la stessa punisce chi, al fine di evadere le imposte, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. Trattasi, dunque, di «reato di pericolo concreto (Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018, Carestia, Rv. 274697; Sez. 3, n. 20786 del 18/04/2002, Russo, Rv. 221615) a dolo specifico (Sez. 3, n. 51836 del 03/10/2018, M., Rv. 274110), la cui ratio risiede nel tutelare l'attività di verifica fiscale che gli organi accertatori effettuano ai fini del controllo sull'osservanza degli obblighi dichiarativi e di pagamento delle imposte dovute al Fisco, sanzionandosi quelle condotte, finalizzate all'evasione, che impediscano od ostacolino l'accertamento di un'obbligazione tributaria ed il conseguente avvio della procedura di esazione del debito erariale e dei relativi accessori per interessi e sanzioni». Sotto tale ultimo aspetto, si rileva che «la natura di reato di pericolo e di mera condotta non è di ostacolo alla individuazione di un profitto confiscabile (Sez. 5, n. 25450 del 03/04/2014, Ligresti e aa., Rv. 260751), ciò che, con particolare riguardo ai reati tributari, è sempre stato ritenuto in relazione al delitto di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 11, pure questa fattispecie a consumazione anticipata (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 46975 del 24/05/2018, F., Rv. 274066; Sez. 3, n. 15133 del 17/11/2017, dep. 2018, Stassi, Rv. 272505; Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648). Rispetto a tale reato si è sempre affermato che il profitto, confiscabile anche nelle forme per equivalente, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il Fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all'Erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo del reato (Sez. 3, n. 33184 del 12/06/2013, Abrusci, Rv. 256850; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza e aa., Rv. 262754; Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust e a., Rv. 265036». Nè può ritenersi – prosegue la Suprema Corte –«che il profitto non sia configurabile perchè, nonostante la condotta illecita tenuta, gli agenti verificatori sono comunque riusciti a determinare il quantum dell'imposta evasa. Ed invero, la sussistenza di un profitto va valutata al momento dell'integrazione del reato, e non in un momento successivo. Ciò che ex post rileva, nei reati tributari, per ritenere che il profitto (anche precariamente) conseguito con la condotta illecita sia venuto meno e non sia quindi più suscettibile di confisca è soltanto il pagamento dell'imposta dovuta, come oggi si ricava dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, comma 2, che, sulla scia di una soluzione interpretativa già elaborata dalla giurisprudenza (cfr. Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015, Aumenta, Rv. 263409; Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016, Tomasi Canovo, Rv. 265843), afferma il principio secondo cui la confisca disciplinata dalla disposizione, nelle sue due, alternative, forme "non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro" (sul significato da attribuirsi a tale disposizione v. Sez. 3, n. 18034 del 05/02/2019, Castiglioni, Rv. 275951; Sez. 3, n. 6246 del 11/10/2018, dep. 2019, Budino, Rv. 274856; Sez. 3, n. 42470 del 13/07/2016, Orsi, Rv. 268384». In sostanza, dunque, secondo la Suprema Corte, a monte di una condotta di distrazione o occultamento di scritture contabile, vi è sempre una forma di evasione fiscale (senza la quale la sottrazione della documentazione non avrebbe ragion d'essere): in alcune ipotesi, non è possibile individuare i ricavi del singolo su cui non sono state versate le imposte ed allora in tal caso non può individuarsi un profitto da imputare alla commissione del reato di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000: in altri casi, invece, si può definire l'indebito vantaggio economico commisurato al debito d'imposta e di cui la condotta di occultamento o distruzione dei documenti contabili ha ostacolato la scoperta così consentendo al contribuente di evitarne l'accertamento e l'esazione ed allora in questo caso nulla impedisce l'applicazione della normativa di cui all'art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000. La tesi che la Corte di cassazione propone, nella decisione in commento, rileva con riferimento alle ipotesi in cui l'evasione fiscale occultata a mezzo del comportamento descritto dal citato art. 10 non ha rilevanza penale, perché non raggiunge le soglie di punibilità descritte dagli artt. 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 74/2000. È evidente infatti che, invece, se prima ancora di accertare la sussistenza del delitto di cui al citato art. 10, è possibile contestare al contribuente la violazione delle suddette disposizioni di cui agli artt. 3, 4 e 5, allora i provvedimenti di sequestro e confisca potranno essere adottati con riferimento a tali illeciti, senza necessità di rinvenire - per dare corso all'ablazione del patrimonio del privato - un profitto da riferire specificatamente al delitto di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000. A supporto di tale impostazione sostiene la sentenza in commento che la «"novella" (d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158) che ha introdotto l'art. 12 bis, nel corpo del d.lgs. n. 74 del 2000, conferma la conclusione qui raggiunta. Diversamente da quanto prevedeva la L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, la citata disposizione ha infatti esteso la confisca del profitto per equivalente anche al reato di cui al precedente art. 10, e, ferma restando la sua inapplicabilità ai fatti commessi fino al 20 ottobre 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, stante la natura eminentemente sanzionatoria di detta confisca (Sez. 3, n. 15745 del 14/12/2018, dep. 2019, Lai Saifang, Rv. 275957), la modifica legislativa ne dà per scontata l'applicabilità anche alle condotte di occultamento o distruzione di documenti contabili». Va quindi affermato il seguente principio di diritto: nel delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l'importo dell'evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 2 bis, con riguardo al tributo evaso e ad eventuali sanzioni ed interessi maturati sino al momento dell'occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta. Osservazioni
Va ricordato che l'art. 10 d.lgs.n. 158/2015, introducendo l'art. 12-bis, ha non solo ricondotto nell'ambito del d.lgs.n. 74/2000 la disposizione contenuta nell'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), ma anche esteso la confisca del prezzo e/o del profitto ai casi di condanna (come sopra precisati) per tutti i delitti tributari previsti dal decreto. In precedenza, l'elencazione tassativa dei reati contenuta nell'art. 1 comma 143 cit. lasciava fuori proprio il delitto di distruzione od occultamento di documenti contabili, di cui all'art. 10 d.lgs.n. 74/2000. L'esclusione era logicamente spiegata con l'assenza di un profitto (perlomeno diretto) riconducibile alla realizzazione del delitto de quo, o quantomeno stante la difficoltà di quantificare il profitto stesso. Peraltro, visto che il fatto di occultamento/distruzione delle scritture contabili o di documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo tale da non permettere la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, può essere commesso anche al fine di consentire l'evasione a terzi, non si poteva escludere che il delitto venga commesso in cambio di un prezzo: il che poteva in astratto giustificare la scelta di comprendere anche detto modello criminoso nell'ambito dei delitti per cui, in caso di condanna, si deve procedere a confisca. Va tuttavia aggiunto che la legge di delega 11 marzo 2014, n. 23, non aveva conferito al Governo il potere di ampliare l'elenco dei delitti tributari per i quali è obbligatoria la confisca (diretta o per equivalente), né di inasprire le sanzioni (lato sensu intese) per il delitto di cui all'art. 10 (cfr. art. 8 della legge di delegazione). Del resto, nella Relazione governativa al d.lgs.n. 158/2015 si afferma che la norma «è stata riformulata senza modificarne la portata», senza dunque cogliere la (sia pur limitata) dilatazione della sfera di operatività della confisca. Sotto tale aspetto, è stato ipotizzato il vizio di eccesso di delega che inficia l'attuale previsione della confisca ex art. 12-bis con riguardo al delitto di cui all'art. 10 del medesimo decreto, in violazione degli artt. 76 e 77 comma 1 Cost. (R. BRICCHETTI - P. VENEZIANI, La confisca, cit., p. 465 e ss.). In ogni caso la previsione della confisca con riferimento all'art. 10 non può retroagire ai fatti di distruzione e/o occultamento commessi prima dell'entrata in vigore della riforma del 2015, avendo natura sanzionatoria (di certo con riguardo alla confisca per equivalente e nella sostanza anche per quanto concerne la confisca diretta). Ebbene, alla luce della struttura normativa del fatto tipico di cui all'art. 10 d.lgs. n. 74/2000, non appare ipotizzabile l'applicazione dell'art. 12-bis se non nei limiti del prezzo per aver consentivo l'evasione di terzi. L'impossibilità di ricostruire i redditi e il volume d'affari costituisce infatti uno snodo fondamentale nell'economia della norma incriminatrice, giustificando in chiave di proporzione l'elevata risposta sanzionatoria e il disvalore complessivo del fatto. L'impossibilità di ricostruire il volume d'affari e i redditi è un «evento che per un verso è legato ad un rapporto di causalità necessaria alla condotta tipica e, per l'altro, si allinea sul fuoco dell'offesa all'interesse protetto: caratteristiche, queste, generalmente incompatibili con lo schema della condizione di punibilità» (INGRASSIA, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, in R. BRICCHETTI - P. VENEZIANI (a cura di), I reati tributari, Torino, 2017, p. 289 e ss.; Lanzi- Aldrovandi, Diritto penale tributario, Padova, 2017, p. 391 ss.; Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, p. 132 ss.). L'esito pratico è che tale impossibilità debba essere in concretocagionata dalla condotta dell'autore e coperta dal dolo. Il punctum dolens è rappresentato, poi, dall'esatta definizione delconcetto e dai suoi criteri di accertamento processuale (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). La giurisprudenza consolidata afferma che per integrare l'illecito non sia necessaria una radicale impossibilità di ricostruire i redditi o il volume d'affari, ma sia invece bastevole «un'impossibilità relativa ovvero una semplice difficoltà di ricostruzione» (Cass., Sez. III, 1 dicembre 2011, n. 2698; Cass., Sez. III, 16 marzo 2016, n. 20748). Sulla base di questa impostazione, risulterebbe possibile la ricostruzione del profitto confiscabile. Peraltro, la base conoscitiva, su cui valutare la presenza di difficoltà di ricostruzione, è limitata alla contabilità fiscale reperita presso il soggetto sottoposto ad accertamento, per cui resta integrato il delitto anche se al calcolo del volume d'affari e dei redditi si possa effettivamente addivenire e vi si sia in effetti pervenuti, con documenti aliunde reperiti. In un'unica decisione la Suprema Corte ha assunto una posizione più rigorosa nella definizione dell'evento, richiedendo un'elevata difficoltà di ricostruzione dei redditi e del volume d'affari, ma limitando, comunque, la base del giudizio ai documenti reperiti presso il contribuente (Cass., Sez. III, 18 dicembre 2007, n. 5791). Tale ultima impostazione è invece sviluppata dalla dottrina in quanto ritenuta conforme ad una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). Si afferma così che non può considerarsi sufficiente una semplice difficoltà ricostruttiva, essendo, invece, necessaria una impossibilità radicale di addivenire ad un calcolo dei redditi o del volume d'affari (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). A favore di tale impostazione milita un argomento di ordine letterale-sistematico(Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.), in quanto «mentre, infatti, la fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici impone che la condotta, per essere tipica, ostacoli l'accertamento, il delitto in commento utilizza la locuzione normativa “non consentire la ricostruzione”, concetto decisamente più stringente, che richiama una rigorosa impossibilità e non una semplice difficoltà-ostacolo» (INGRASSIA, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). Tale orientamento precisa che non convince l'obiezione per cui sarebbe possibile sempre addivenire ad una ricostruzione dell'imposta evasa, seppur attraverso un accertamento sintetico-induttivo, con il ricorso a presunzioni, in quanto, in questa prospettiva, si perverrebbe ad una sostanziale abrogazione della fattispecie; il punto è che ciò che letteralmente «la condotta tipica impedisce è la ricostruzione analitica dei redditi e del volume d'affari, costringendo gli accertatori a ricorrere alle presunzioni tributarie che, tuttavia, per le peculiarità processuali del rito criminale (su tutte, la collocazione dell'onere della prova in capo all'accusa), non dovrebbero avere capacità dimostrativa nell'accertamento dei delitti fiscali» (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). A favore di quest'impostazione, che valorizza l'offensività concreta del fatto, milita, ancora, una ragione di ordine testuale (INGRASSIA, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.), in quanto «l'art. 10 ricollega l'evento indistintamente alla distruzione o all'occultamento tanto parziale che totale, particolare questo, dal quale sembra legittimo inferire che (…) la soppressione o e il nascondimento totale della documentazione non determinano necessariamente, nel pensiero del legislatore – inteso come legislatore razionale e “non ridondante” – l'evento offensivo enunciato dalla norma» (INGRASSIA, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.); al contrario “se questo avviene è proprio in contemplazione dell'eventualità che i dati desumibili dalla contabilità possano essere efficacemente surrogati da quelli ricavabili da altre fonti” (INGRASSIA, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.). Tale ricostruzione, fedele alla lettera della legge e ragionevole dal punto di vista del rigore sanzionatorio, non consente in la ricostruzione aliunde del profitto confiscabile, venendo meno in tal caso probabilmente la stessa tipicità del fatto: detto altrimenti, non sarebbe possibile definire l'indebito vantaggio economico commisurato al debito d'imposta e di cui la condotta di occultamento o distruzione dei documenti contabili ha impedito la ricostruzione. Non a caso, le note modali della condotta devono essere tali da “non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari” e non già da inibire la scoperta dell'evasione. Se la norma fosse stata strutturata in tale ultimo senso, allora sarebbe stata ipotizzabile la confisca del profitto aliunde ricostruito come ex post “scoperto” dagli organi accertatori. La ricostruzione del tipo appena prospettata presenta poi due fondamentali vantaggi (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.): 1) sanziona esclusivamente fatti che presentino una effettiva carica offensiva, cioè ipotesi in cui non sia in concreto possibile per gli accertatori addivenire ad una ricostruzione analitica dei redditi o del volume d'affari del contribuente, lasciando fuori dall'area del penalmente rilevante i casi in cui ciò che si punirebbe sarebbe non già un danno all'attività di accertamento, ma un mera infedeltà; 2) consente di giustificare l'elevata cornice edittale, restituendo l'immagine di una condotta particolarmente grave, giacché finalizzata ad occultare una precedente evasione, non dimostrabile nel processo penale, stante la sopravvenuta impossibilità di procedere ad un accertamento analitico (con importanti conseguenze anche sul piano dei rapporti con gli altri delitti tributari. La disposizione punirebbe, cioè, quei contribuenti che al fine di evadere o di consentire a terzi l'evasione, rendano impossibile ai verificatori l'esatta ricostruzione del loro o dell'altrui reddito e volume d'affari, dunque, la verifica della veridicità della dichiarazione e, più in generale, il calcolo analitico del quantum dovuto dal contribuente. In tal caso la stessa conformazione del tipo legale non consentirebbe di ipotizzare alcun profitto confiscabile. Si osserva poi in dottrina (Ingrassia, L'occultamento e la distruzione di documenti contabili, p. 289 e ss.) che «la valorizzazione dell'evento di fattispecie consente di avvicinare l'illecito in commento ai delitti dichiarativi, costituendo il baluardo più estremo rispetto alla tutela della corretta riscossione dei tributi attraverso l'autoliquidazione, incriminando il soggetto che, al fine di evadere le imposte, abbia, attraverso la distruzione o l'occultamento dei documenti fiscali, posto i verificatori nell'impossibilità di ricostruire analiticamente la posizione del contribuente e, dunque, di accertare in sede penale l'imposta evasa: ritroverebbe così centralità la tutela del gettito tributario. La fattispecie in analisi costituirebbe così una norma sanzionatoria di secondo livello rispetto alle fattispecie dichiarative, con cui si porrebbe in logica alternatività. Diversamente, il rischio di sanzioni sproporzionate rispetto ai fatti riconducibili al tipo potrebbe rendere di stringente attualità questioni di costituzionalità del reato di occultamento o distruzione di documenti e scritture contabili».
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