Commercio e somministrazione di medicinali guasti: il reato è configurabile anche in relazione ai prodotti omeopatici

08 Ottobre 2019

La questione principale sollevata nei motivi di ricorso ed esaminata dalla Suprema Corte, riguardava i limiti di applicabilità dell'art 443 c.p., reato che sanziona la condotta di chi detiene o mette in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti, ed in particolare l'equiparazione del preparato omeopatico a un farmaco.
Massima

Non è minimamente dubitabile la riconducibilità del farmaco omeopatico al concetto di medicinale, stante l'ampia definizione allo scopo fornita dall'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 219 del 2006, che vi include «ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane», nonché «ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica».

È palesemente errato restringere il concetto di medicinale ai soli preparati che svolgono una funzione terapeutica validata, e del resto il decreto legislativo n. 219/2006 - che attua la direttiva europea n. 2001/83/CE, e successive modificazioni, relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano - ricomprende nel suo ambito i prodotti omeopatici, sottoponendoli a procedure di registrazione, in taluni casi semplificata, ed etichettatura, al rispetto di standard di sicurezza e, di regola, a farmaco-vigilanza. Anche il farmaco omeopatico scaduto costituisce dunque un medicinale «imperfetto», nel senso richiesto dall'art. 443 c.p.

Il caso

La Corte di appello di Ancona confermava la decisione del Tribunale locale, con cui D.M.A, titolare della farmacia omonima, era stato giudicato colpevole del delitto di cui all'art. 443 c. p., per avere venduto alla cliente L.A due confezioni scadute di un medicinale antitumorale, oltre a un farmaco omeopatico, anch'esso scaduto, e per avere detenuto ai fini del commercio altri 194 farmaci scaduti, metà dei quali omeopatici.

Per questa condotta l'imputato era stato condannato alla pena di giustizia e al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, mentre erano stati assolti, anche in primo grado, i farmacisti alle dipendenze del D.M.A.

Per il giudice di merito la commercializzazione non conforme del medicinale omeopatico scaduto era avvenuta in due giorni distinti, successivi e prossimi alle due date delle prescrizioni mediche - periodo in cui era stato acquistato anche l'antitumorale. La compratrice si era accorta che si trattava di prodotti scaduti in occasione dell'ultimo acquisto, per poi tornare in farmacia al fine di contestare l'accaduto e in seguito aveva sporto denuncia.

Nel gennaio dell'anno successivo veniva effettuata una perquisizione nella farmacia, e sugli scaffali venivano rinvenuti, pronti per la vendita, gli ulteriori farmaci scaduti collocati insieme ad altri non scaduti. I farmaci destinati allo smaltimento si trovavano in un separato vano e all'interno di scatoloni.

La corte territoriale considerava attendibile la deposizione resa dalla parte offesa, in quanto riscontrata dalle prescrizioni mediche del farmaco acquisite e trasmesse dalla farmacia per il rimborso all'Azienda sanitaria regionale.

Inoltre, risultava che la farmacia, nello stesso periodo, ovvero tra il luglio 2008 ed il dicembre 2009, aveva venduto quattro confezioni del farmaco antitumorale, ma solo due risultavano di recente acquisto.

La Corte, dunque, in ordine alla condotta, riteneva che l'accaduto non fosse riconducibile a marginale colposa disattenzione, ma a modalità organizzative carenti, indici di voluta trascuratezza dei fondamentali doveri professionali - gravanti sul titolare della farmacia - e di sottostante accettazione del rischio di compromissione del bene della salute pubblica.

Una lettera prodotta dalla difesa rivelava che erano state dettate ai farmacisti dipendenti disposizioni per lo smaltimento dei farmaci scaduti, documento che anziché scagionare l'imputato, rafforzava, per la Corte, la sussistenza del dolo, ovvero l' inidoneità del precedente assetto organizzativo, la consapevolezza che ne aveva il titolare della farmacia e la volontà di mera facciata di porvi rimedio, posto che la missiva non era stata diffusa secondo modalità idonee ad assicurarne la conoscenza, né in alcun modo era stato preteso e verificato il rispetto degli adempimenti in essa stabiliti.

Contro tale sentenza presentava ricorso per cassazione l'imputato, articolato in cinque motivi e due aggiunti, ove contestava nello specifico:

  • nullità dell'imputazione per genericità del contenuto e violazione dell'art.552 c.p.p.;
  • violazione dei criteri di apprezzamento della prova indiziaria, ex art 192 c.p.p. e vizio di motivazione;
  • violazione dei criteri di imputazione soggettiva della condotta, ex artt. 42 e 43 c.p., e vizio di motivazione;
  • violazione dell'art. 433 c.p. in relazione alle disposizioni di cui al titolo II, capo II, d.lgs. 219/2006, come modificato dal d.lgs. 274/2007;
  • incostituzionalità dell'art. 443 c.p.;
  • intervenuta entrata in vigore della l. 3/2018 con introduzione della fattispecie di illecito amministrativo di detenzione di medicinali scaduti, guasti o imperfetti, qualora - per la modesta quantità, le modalità di conservazione o l'ammontare delle riserve - se ne possa escludere la destinazione al commercio;
  • violazione dell'art. 443 c.p., in quanto la detenzione per la somministrazione di farmaco scaduto non integrerebbe reato, prevedendo la legge solo la detenzione ai fini di commercio, non ipotizzabile neppure a livello di tentativo.

La Suprema Corte, valutate le questioni sollevate dai ricorrenti, ha annullato senza rinvio la sentenza appellata per sopravvenuta estinzione del reato (essendo nelle more intervenuta la prescrizione), ma nel merito ha dichiarato infondati tutti i motivi.

La questione

La questione principale sollevata nei motivi di ricorso ed esaminata dalla Suprema Corte, riguardava i limiti di applicabilità dell'art 443 c.p., reato che sanziona la condotta di chi detiene o mette in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti, ed in particolare l'equiparazione del preparato omeopatico ad un farmaco.

La Suprema Corte, quindi, dopo aver affrontato sinteticamente i dedotti motivi di ricorso, relativi a questioni di natura prettamente processuale, si è soffermata – come già fatto in precedenti e recentissime sentenze – sull' essenza di reato di pericolo (posto a presidio della salute pubblica dei singoli e della collettività) dell'art. 443 c.p.; sulla nozione di farmaco; nonché sull'elemento soggettivo caratterizzante la fattispecie (costituito dal dolo generico, inteso come consapevole detenzione per il commercio di medicinali scaduti o imperfetti, da individuare attraverso indici esterni significativi di tale consapevolezza).

In merito poi alla riconducibilità del farmaco omeopatico al concetto di medicinale, osservano gli Ermellini come tale questione non sia minimamente dubitabile, stante l'ampia definizione allo scopo fornita dall'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 219 del 2006, che vi include «ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane» , nonché «ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica».

Quindi non si può restringere il concetto di medicinale ai soli preparati che svolgono una funzione terapeutica validata, e del resto il decreto legislativo citato - che attua la direttiva europea n. 2001/83/CE, e successive modificazioni, relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano - ricomprende nel suo ambito i prodotti omeopatici, sottoponendoli a procedure di registrazione, in taluni casi semplificata, ed etichettatura, al rispetto di standard di sicurezza e, di regola, a farmaco-vigilanza. Anche il farmaco omeopatico scaduto costituisce dunque un medicinale «imperfetto», nel senso richiesto dall'art. 443 c.p.

Aggiungono inoltre i Supremi Giudici che la nuova fattispecie di illecito amministrativo si applica alla sola detenzione di medicinali scaduti, ove si possa ritenere in concreto (sulla base di indicatori quali la modesta quantità di prodotto e le modalità di stoccaggio) la loro mancata destinazione al commercio; circostanza quest'ultima non verificatasi nel caso in esame.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in oggetto si pone nella scia (confermando un orientamento ormai consolidato) di svariate pronunce in tema di somministrazione e commercializzazione di farmaci scaduti, ove la Cassazione ha, sotto svariati aspetti, analizzato i limiti ed i contorni normativi della fattispecie di cui al relativo art. 443 c.p. – reato di pericolo presunto.

Nell'odierna pronuncia i Giudici si sono concentrati, rispetto al recente passato, anche sull'analisi e sulla valutazione delle caratteristiche dei prodotti omeopatici, classificabili a tutti gli effetti tra i farmaci ed i medicinali, in quanto certamente dotati di efficacia terapeutica.

In virtù del disposto di cui al d.lgs. 219 del 2016, infatti, il farmaco omeopatico contiene una sostanza con proprietà curative o profilattiche delle malattie umane, prescritta con lo scopo di ripristinare, correggere o modificare le funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.

Quindi, anche il medicinale omeopatico scaduto è imperfetto – qualora manchi o sia notevolmente diminuita la sua efficacia terapeutica – e va collocato nell'alveo della previsione codicistica del 443 c.p., ai fini sanzionatori.

Con tale disposizione la norma in oggetto si prefigura certamente l'obiettivo di preservare la salute pubblica, intesa come insieme di condizioni di igiene, sicurezza della vita, integrità fisica del singolo e della collettività, in pericolo a causa della diffusione di medicinali nocivi. E non occorre che vi sia la effettiva commercializzazione, essendo sufficiente anche la mera detenzione finalizzata alla vendita, sussistendo una presunzione assoluta di pericolosità dovuta alla perdita di efficacia del farmaco.

Di analogo tenore è senza dubbio la pronuncia n. 39187 del 2013, con cui la Cassazione ha chiarito che «il reato di commercio o somministrazione di medicinali guasti o imperfetti integra una fattispecie di pericolo presunto, in quanto mira ad impedirne l'impiego a scopo terapeutico, sanzionando ogni condotta che renda probabile o possibile la loro concreta utilizzazione».

E ancora, «la condotta descritta dall'art. 443 c.p., e cioè il commercio o la somministrazione di medicinali guasti, mira ad impedire l'utilizzazione a scopo terapeutico di medicinali imperfetti e sanziona ogni condotta che renda probabile o possibile la concreta utilizzazione del medicinale guasto».

In tema di mera detenzione, poi, degna di nota è sicuramente la recente pronuncia del 2017 (n. 7311), secondo cui, aderendo ad una tesi più rigorista, i Giudici ritengono che la nozione di commercio sia equiparabile alla messa in circolazione del farmaco e come «la detenzione per il commercio e la detenzione per la somministrazione di medicinali non costituiscano situazioni differenti, perché entrambi funzionali e dirette all'uso effettivo del farmaco». La norma punisce ogni condotta che rende probabile o possibile la concreata utilizzazione del farmaco scaduto (e quindi -per ciò solo - presuntivamente pericoloso), trattandosi di reato a pericolo presunto.

Per commercio si intende, pertanto, anche la messa in circolazione del medicinale, ovvero tutti quei comportamenti che portano alla diffusione ed all'ingresso del bene nel circuito della distribuzione.

Quanto infine all'elemento soggettivo del reato in questione, l'art 443 c.p. prevede il dolo generico, consistente cioè nella consapevole detenzione per il commercio di materiali scaduti o imperfetti, da individuare attraverso indici esterni significativi.

La giurisprudenza è quindi portata ad escludere solo quelle condotte, connotate da perfetta buona fede, dei sanitari che per dimenticanza o disguido non hanno provveduto a smaltire anche soltanto una confezione di un farmaco che nel frattempo ha perso di validità.

Osservazioni

La puntualizzazione sulla natura del farmaco omeopatico, oggetto dell'odierna sentenza, fa in realtà da sfondo al vero interesse che la Suprema Corte intende tutelare e ampiamente proteggere con le sue pronunce, ovvero il bene primario della salute, intesa sia nella sua accezione pubblica che come diritto individuale.

La Cassazione infatti, nel corso dei numerosi pronunciamenti sul punto, richiamando quelle che sono le conoscenze scientifiche più recenti in materia farmacologica, ha volutamente esteso l'area di tutela della norma, ricomprendendo nell'alveo di previsione dell'art. 443 c.p., qualunque sostanza utilizzata sull'uomo capace di esercitare un'azione farmacologica o curativa in generale.

Si tratta di una questione di non poco conto se si considerano, anche a mero titolo esemplificativo, i rischi a cui sono quotidianamente esposti i cittadini che, fruitori della rete e dei grandi market place telematici, possono con grande facilità acquistare prodotti potenzialmente dannosi per la salute (non è certo improbabile incappare infatti in siti che pubblicizzano prodotti di dubbia provenienza spacciandoli per omeopatici o fitoterapici, e che, invero, sono medicinali in tutto e per tutto; ovvero prodotti dei quali è facilmente alterabile la data di scadenza o di cui non sono individuabili o verificabili le modalità di stoccaggio, di conservazione, di etichettamento o di trasporto). Da qui quindi l'esigenza e la necessità, quasi obbligata, per gli Ermellini, di dettagliare con sempre maggior rigore, le categorie di farmaci e sostanze equiparabili (anche a fini normativi), in ragione degli effetti che questi hanno sulla salute e del giro che affari che la loro vendita genera, ovvero di circoscrivere e delineare la responsabilità di coloro che sono deputati alla vendita e alla somministrazione di tali prodotti.

L'aver equiparato dunque il prodotto omeopatico - nell'accezione comune ritenuto assai più blando e meno dannoso per l'organismo – al farmaco medicinale vero e proprio, costituisce quindi una presa di posizione importante in quanto garantisce e preserva in maniera più compiuta ogni acquirente (sia quello che si reca fisicamente in un esercizio commerciale ad acquistare il medicinale che quello più incauto che si rivolge a canali alternativi) e al contempo obbliga qualunque venditore di tali presidi sanitari a porre in essere numerosi e severi accorgimenti o soluzioni per mantenere il prodotto integro, ben conservato e perfetto.

Regole a cui, come è facile intuire, sono e devono essere soggetti, pertanto, non solo i farmacisti - rivenditori “fisici”, che conservano nei loro scaffali medicine per la pronta vendita, ma anche e soprattutto i venditori telematici che, esponendo nella loro vetrina virtuale svariati prodotti farmaceutici, devono con altrettanto e forse maggior rigore, garantire all'utente finale un prodotto ben conservato, efficace, immune da alterazioni e non dannoso per l'organismo.

Si tratta dunque di sentenze (quelle emesse negli ultimi anni) che, al di là della soluzione giuridica del singolo caso in esame, assumono una notevole importanza nello scenario sanitario nonché commerciale, in quanto forniscono delle indicazioni/linee guida a cui operatori sanitari - e non solo - devono strettamente attenersi.

A margine della principale questione affrontata, appaiono altresì degni di nota i seppur brevi richiami che la Cassazione opera in tema di genericità dell'imputazione, ribadendo un principio processuale ormai consolidato sul punto, ovvero che «non sussiste nullità della stessa allorchè il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa. Inoltre la contestazione non va riferita solo al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito».

Altra questione è quella relativa alla sollevata eccezione di legittimità costituzionale, alla quale i Giudici ribattono che «il diritto penale è strumentalmente frammentario. Esso protegge selettivamente determinati beni e determinate modalità di aggressione dei beni medesimi. Dalla mancata estensione della punibilità a fattispecie affini od omogenee a quella oggetto dell'incriminazione, non può mai derivare, di per sé, l'illegittimità di quest'ultima».

Questioni che, seppur trattate in maniera succinta, consentono comunque ai Supremi Giudici di ristabilire e ribadire principi cardine di diritto, pressoché “granitici” nel nostro ordinamento processuale.

Da ultimo, un brevissimo accenno merita anche il richiamo che la sentenza fa in tema di “posizione di garanzia” di certe figure professionali (in questo capo il titolare della farmacia), ricordando, tra le righe, le responsabilità – sia commissiva che omissiva - ovvero di impedimento ex art 40 c.p., che gravano su costoro, e i doveri di organizzazione cui sono soggetti nell'esercizio di determinate attività.

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