Licenziamento per giusta causa: legge 104 e assistenza parziale
01 Luglio 2019
Massima
In tema di abuso del diritto per utilizzo improprio del permesso di cui all'art. 33, l. n. 104 del 1992: “ove l'esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un'autonomia comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie - di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento.
L'abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico”. Il caso
La sentenza in commento riguarda il caso di una lavoratrice che veniva licenziata per giusta causa, avendo chiesto abusivamente il permesso di cui al comma 3 dell'art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104. Infatti, l'attività di assistenza veniva prestata in favore della congiunta ricoverata a tempo pieno e solo parzialmente, in quanto l'assistenza veniva prestata per circa 1 ora e trenta minuti a fronte di un permesso richiesto dalle 16.30 alle 21.30.
La sentenza in commento ha rigettato il ricorso della lavoratrice ritenendo sussistente la giusta causa di licenziamento, essendo venuto meno il rapporto fiduciario. Le questioni
Sul presupposto pacifico che l'uso improprio del permesso di cui al comma 3 dell'art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104, costituisce comportamento tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei confronti del lavoratore e legittimare la sanzione del licenziamento per giusta causa, il Giudice del Lavoro di Bari ha dovuto accertare la presenza - assenza dei requisiti per la fruizione del menzionato permesso, sotto il profilo della compatibilità dell'assistenza in favore di congiunta ricoverata a tempo pieno e sotto il profilo della compatibilità dell'assistenza prestata solo parzialmente. Le soluzioni giuridiche
Il comma 3 dell'art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104, stabilisce che: «A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l'assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente. Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti».
Nel corso degli anni la disciplina in questione ha subito numerose modifiche. Il testo originario dell'art. 33, comma 3, legge cit. disponeva: «Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità, nonché colui che assiste una persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno». Successivamente, la l. 8 marzo 2000, n. 53, art. 20, comma 1, dispose che «Le disposizioni della l. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, come modificato dall'art. 19 della presente legge, si applicano anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente».
La l. n. 183 del 2010, art. 24 eliminò i requisiti della "continuità ed esclusività" dell'assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti. Attualmente, la norma - a seguito del d.lgs. n. 119 del 2011, art. 6 - così dispone «A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa».
Infine, la Corte cost. con sentenza n. 213 del 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della l. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 3, come modificato dalla l. 4 novembre 2010, n. 183, art. 24, comma 1, lett. a), nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
Il Giudice delle Leggi ha affermato in tale arresto che la norma ha una duplice finalità: a) in primo luogo, è preposta ad «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito»; b) in secondo luogo, costituisce, contemporaneamente, un intervento economico integrativo di sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap».
Orbene, con riferimento al requisito per la fruizione dei permessi presupposto è che «la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno».
Come ha ricostruito la sentenza annotata nell'assegnare il corretto significato a tale locuzione si deve intendere con ciò il ricovero per ventiquattro ore presso strutture ospedaliere o simili, sia pubbliche che private, che assicurino assistenza sanitaria continuativa (cfr. Circolare INPS n. 155 del 3 dicembre 2010 e Circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 13 del 6 dicembre 2010).
L'Inps, tuttavia, ha individuato alcune eccezioni in presenza delle quali, anche in caso di ricovero ospedaliero del disabile, i permessi in questione possono comunque essere concessi:
a) interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate (cfr. messaggio n. 14480 del 28 maggio 2010); b) ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine; c) ricovero a tempo pieno di un minore in situazione di gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare; d) ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità che necessiti assistenza non sanitaria da parte di un genitore o di un familiare, richiesta espressamente dai sanitari della struttura (cfr. Circolare Inps n. 32 del 6 marzo 2011).
Di conseguenza non pare vi sia dubbio circa l'insussistenza dei requisito previsto per accedere al beneficio laddove il disabile sia ricoverato in strutture ospedaliere o simili e non ricorrano le ipotesi derogatorie sopra menzionate.
Diversamente appare sussistere una divaricazione di opzioni ermeneutiche fra la giurisprudenza della Cassazione Sezione Lavoro e di quella Penale (chiamata a giudicare sul reato di truffa ai danni dello Stato p. e p. dall'art. 640-bis, c.p.) rispetto al mancato o parziale svolgimento dell'attività di assistenza del disabile in occasione del permesso retribuito di cui alla l. n. 104 del 1992.
Il quesito è se i permessi in oggetto: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) oppure vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.
A tal riguardo la sezione lavoro della Cassazione appare interpretare nel primo senso ed in modo molto rigoroso la sussistenza dei requisiti per usufruire del beneficio, nel senso che «il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che si avvalga del permesso ex comma 3 dell'art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104, non per l'assistenza al familiare ma per attendere, anche solo in parte, ad altra attività configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, che rileva ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, ripercuotendosi tale comportamento sull'elemento fiduciario con riguardo alla futura correttezza dell'adempimento da parte del lavoratore rispetto agli obblighi assunti» (nella specie è stata confermata la decisione dei giudici del merito che avevano ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore che, durante la fruizione del permesso per assistere la madre gravemente disabile, aveva partecipato ad una serata danzante) (Cass.,sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8784. Nello stesso senso Cass.,sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5574, ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del giudice di merito, che aveva ritenuto insufficiente un'attività assistenziale pari al 17,5% del tempo complessivo dei permessi, in difetto di una normativa che indichi quale sia il livello percentuale minimo richiesto affinché la condotta assistenziale possa legittimamente rapportarsi ai permessi.
Ancora, Cass.,sez. lav., 13 settembre 2016, n. 17968, ha ritenuto che il comportamento del dipendente che utilizzi i permessi L. 104 per finalità diverse dall'assistenza alla madre disabile, e specificamente per recarsi a frequentare le lezioni universitarie di un corso di laurea, integri l'abuso del diritto e violi i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.
Coerentemente Cass.,sez. lav.,ord. 7 giugno 2017, n. 14187, ha asserito che «i permessi di cui al comma 3 dell'art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104 (nella specie accordati per l'assistenza a genitore portatore di handicap), fondati sulla tutela dei disabili prevista dalla normativa interna (artt. 2, 3 e 38, Cost.) ed internazionale (direttiva n. 2000/78/CE e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con l. n. 18 del 2009), concorrono alla determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato, in quanto il diritto alle ferie, assicurato dall'art. 36, Cost., garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta e ciò si rende necessario anche in caso di assistenza ad un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di energie fisiche e psichiche».
Tuttavia, dinanzi a tale paradigma paiono opporsi alcune pronunce della Cassazione Penale, che hanno inteso l'attività di assistenza da svolgersi durante i giorni di permesso in senso lato, poiché in quei giorni il lavoratore sarebbe libero di graduare l'assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili. Fra l'altro, si noti, tali sentenze riguardavano fattispecie concrete anteriori alla modifica di cui alla l. 183 del 2010, che ha eliminato il requisito della “continuità” dell'assistenza, quale elemento essenziale ai fini del godimento dei permessi di cui all'art. 33, l. n. 104 del 1992.
In particolare Cass. pen., sez. II, (ud. 12 gennaio 2016) 1° febbraio 2016, n. 4106, decidendo una fattispecie di un lavoratore che il giorno in cui aveva ottenuto un permesso per assistere la sorella disabile, partecipò ad una gara ciclistica, ha interpretato l'art. 33, l. n. 104 del 1992, cit., nei seguenti termini: La suddetta legge è tutta parametrata sugli interessi della persona handicappata e su una serie di benefici a favore delle persone che ad essa si dedicano. In tale ottica, i suddetti permessi lavorativi, sono soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali. Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta normativa (e, comunque, l'una non esclude l'altra), quello che è certo è che, da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività di assistenza deve essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa. Anzi, tale interpretazione si deve escludere laddove si tenga presente che, per la legge, l'unico presupposto per la concessione dei permessi è che il lavoratore assista il famigliare handicappato "con continuità e in via esclusiva": ma, è del tutto evidente che tale locuzione non implica un'assistenza continuativa di 24 ore, per la semplice ed assorbente ragione che, durante le ore lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente assistere il parente. E' evidente, quindi, che la locuzione va interpretata cum grano salis, nel senso che è sufficiente che sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore. Di conseguenza, se è considerata assistenza continua quella che il lavoratore presta nei giorni in cui lavora (e, quindi, l'assistenza che presta dopo l'orario di lavoro, al netto, pertanto, delle ore in cui, lavorando, non assiste il parente handicappato), ne consegue che non vi è ragione per cui tale nozione debba mutare nei giorni in cui il lavoratore usufruisce dei permessi: infatti, anche in quei giorni egli è libero di graduare l'assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze dell'handicappato; il che significa che nei giorni di permesso, l'assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l'orario lavorativo, proprio perché tale modo di interpretare la legge andrebbe contro gli stessi interessi dell'handicappato (come ad es. nelle ipotesi in cui l'handicappato, abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta la propria attività lavorativa)».
Tale libertà di graduazione dell'assistenza al parente nei giorni permesso troverebbe un solo limite estremo, indicato da Cass. pen., sez. II, (ud. 1° dicembre 2016) 23 dicembre 2016, n. 54712, quando l'assistenza non sia fattualmente ipotizzabile, ossia nelle ipotesi in cui il fruitore dei permessi si disinteressi completamente dell'assistenza, partendo per l'estero. Osservazioni
La sentenza commentata riguardava un'ipotesi di utilizzo di permesso retribuito in presenza di un requisito chiaramente ostativo alla fruizione, ossia il ricovero a tempo pieno della persona assistita.
Ma al di là di tale elemento, che porta ad una conclusione evidentemente tranchant, merita, invece, particolare riflessione la parte motiva della sentenza, che ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato a tutti coloro che usufruiscono dei permessi retribuiti per assistere solo in via parziale il parente disabile.
Infatti, come si è detto tale opzione ermeneutica è risultata, nel silenzio del legislatore, oggetto di critica. Si è dato atto di una duplice interpretazione in merito alle modalità di svolgimento di tali permessi: vi è chi crede che vengano concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità", vi è chi ritiene che vengano concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare disabile, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.
Ebbene, se è giustificabile il rigore dell'interpretazione fornita dalla Cassazione civile, Sezione lavoro, vista anche la menzionata ratio di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile» affermata da Giudice delle Leggi nel 2016, tuttavia si deve osservare quanto segue. A parere di chi scrive ove il vaglio sulla legittimità della fruizione dei permessi sia correlato ad una controversia di licenziamento per giusta causa, allora l'interprete dovrà rifuggire da ogni automatismo, preferendo una valutazione caso per caso, che tenga conto della correttezza e della proporzionalità della sanzione nei confronti del lavoratore. A tal riguardo dovrà considerare: l'intensità dell'elemento intenzionale (dolo); il danno arrecato al datore di lavoro; il grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente; la natura e la tipologia del rapporto; le precedenti modalità di attuazione del rapporto, e in particolare l'assenza di precedenti sanzioni (cfr. fra le tante Cass., 22 giugno 2009, n. 14586). Sulla base di tali parametri un parziale e comunque apprezzabile svolgimento dell'attività assistenziale, unitamente alle altre circostanze del caso, in particolare il grado di affidamento in relazione alle mansioni svolte dal lavoratore (si pensi ad un lavoratore che svolge una mansione di operaio generico, facilmente fungibile rispetto a quella di altri lavoratori), non sempre e per forza deve condurre alla lesione del vincolo fiduciario ed alla massima sanzione disciplinare. Bussole di inquadramento |