Misure di prevenzione e obbligo di segnalazione delle variazioni patrimoniali. Le S.U. tra istanze di controllo securitario e principio di irretroattività

Alberto Cisterna
07 Giugno 2019

La questione appare particolarmente delicata, poiché pone il tema della correlazione tra l'obbligo decennale di segnalazione delle proprie variazioni patrimoniali alla Guardia di Finanza e l'imposizione, sostanzialmente retroattiva, di esso a soggetti prima esclusi da un tale dovere; così facendo segna anche un più ampio...
Massima

L'art.80 deld.lgs. 159/2011 che prevede l'obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege 1423/1956, di comunicare oltre una certa soglia le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall'art.76, comma 7, deld.lgs. 159/2011 si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all'introduzione di tale obbligo per alcune categorie di prevenuti.

Il caso

Il Tribunale del riesame territoriale aveva confermato il sequestro preventivo, ai fini della confisca diretta, del 50% di un immobile e, ai fini della confisca di valore, di somme di denaro depositate su conti correnti, di beni immobili e quote societarie fino alla concorrenza dell'importo di oltre 391.000 euro a carico di un soggetto indagato del reato di cui all'art. 76, comma 7, codice antimafia (già art. 31, legge 646/1982) il quale non aveva ottemperato all'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali ai sensi dell'art. 80 del medesimo codice (già art. 30, legge 646 citata). Le omesse comunicazioni (in effetti integranti ciascuno un distinto reato) erano avvenute in dieci occasioni - collocate entro un arco temporale compreso tra il 2012 e Il 2017 e l'indagato sarebbe stato soggetto all'obbligo in parola in ragione dell'applicazione nei suoi confronti della misura di prevenzione personale con

qualificazione di pericolosità semplice (ai sensi dell'art. 1 della legge 1423/1956, con riferimento alla categoria dei soggetti dediti a traffici delittuosi), divenuta tuttavia definitiva a so carico solo il 4 luglio 2008.

La questione

La questione appare particolarmente delicata, poiché pone il tema della correlazione tra l'obbligo decennale di segnalazione delle proprie variazioni patrimoniali alla Guardia di Finanza e l'imposizione, sostanzialmente retroattiva, di esso a soggetti prima esclusi da un tale dovere; così facendo segna anche un più ampio limes entro cui entra in fibrillazione il governo del principio di legalità.

Il profilo, in relazione al quale il caso era stato rimesso alle Sezioni Unite, traeva origine dall'esistenza di un contrasto interpretativo circa il rapporto tra l'acquisizione della condizione soggettiva (nel caso in esame la definitività della decisione applicativa della misura di prevenzione) e la vigenza dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, originariamente previsto dall'art. 30 della legge 646/1982 del 1982 (oggi, limitatamente alla categorie dei sottoposti a misura di prevenzione, dall'art. 80, codice antimafia) penalmente sanzionato e dall'art. 31 legge 646 (e dall'art. 76, comma 7, codice). La sentenza opera una minuta ricostruzione (dell'invero complesso) quadro normativo e dalla sua evoluzione. L'obbligo in parola era stato introdotto dall'art. 30 della legge 646/1982 e alla sua violazione seguiva, ai sensi dell'art. 31 la pena della reclusione da due a sei anni e la multa da lire 20 milioni a lire 40 milioni e alla condanna segue la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati (anche per equivalente dal 2010).

L'art. 30, comma 1, della legge 646/1982 era stato modificato dall'art. 11 della legge 55/1990 con riguardo alla categoria dei sottoposti a misura di prevenzione, e quel testo prevedeva che l'obbligo in esame gravasse, oltre che sui condannati con sentenza definitiva per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., sulle persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni mafiose. Chiara, allora, l'intenzione di escludere dall'obbligo di comunicazione tutti i soggetti ricadenti nel perimetro della cd. pericolosità generica (cui era stata estesa, ai sensi dell'art. 19 della legge 157/ 1975, l'applicabilità della legge 565 del 1975).

L'art. 7, comma 1, lett. b), della legge 136/2010 (entrato in vigore il 7 settembre 2010) ha ulteriormente ampliato le situazioni-fonte dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali con riferimento sia alla categoria dei condannati con sentenza definitiva, rispetto alla quale sono state aggiunte nuove fattispecie di reato, che a quella delle persone già sottoposte a misura di prevenzione, estesa anche alle fattispecie di pericolosità generica.

Dall'assetto definitivo dell'art. 30, comma 1, risulta in modo inequivoco che la categoria delle persone «già sottoposte a misura di prevenzione» ai sensi della legge 575/1965 è stata dilatata anche ai sottoposti a misura di prevenzione per pericolosità semplice ai sensi dell'art. 1, n. 1 e 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 ai quali, secondo quanto previsto dall'art. 19 della citata legge 157/1975 si applica detta legge. Infine il codice antimafia (d.lgs. 159/2011) ha scorporato dalla legge 546/1982 l'intera classe dei sottoposti a misura di prevenzione affidando all'art. 30, legge 646/ 1982 la categoria dei condannati con sentenza definitiva.

La fattispecie oggetto di ricorso ha posto all'attenzione della Corte la questione relativa alla configurabilità del reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali nel caso in cui il soggetto agente sia stato sottoposto a misura di prevenzione ai sensi della legge 1423 del 1956 prima dell'entrata in vigore della legge 136 del 2010. Nel caso in esame, infatti, il ricorrente era stato assoggettato a sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ai sensi dell'art. 1, comma 1, n. 1 e 2, l. 1423 del 1956 - in quanto ritenuto dedito abitualmente a traffici delittuosi e vivere anche in parte del provento di delitti - con decreto del 19 gennaio 2006 (divenuto definitivo il 4 luglio 2008) ed era stato attinto da decreto di sequestro preventivo, confermato in sede di riesame, in relazione al reato di cui all'art. 76, comma 7, d.lgs. 159 del 2011 (già art. 31 della legge 646 del 1982) con riferimento ad omesse comunicazioni di variazioni patrimoniali poste in essere negli anni dal 2012 al 2017. Il ricorrente aveva chiesto l'annullamento dell'ordinanza del tribunale del riesame deducendo, tra l'altro, l'erronea applicazione dell'art. 2 c.p. alla luce dell'opzione ermeneutica, opposta a quella condivisa dal Tribunale del riesame, recata dalla pronuncia della Sez. VI, del 18 settembre 2013 n. 41113 che aveva qualificato il termine di durata decennale dell'obbligo di comunicazione quale elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria.

Le soluzioni giuridiche

La Prima Sezione, con l'ordinanza n. 51652 del 15 novembre 2018, aveva segnalato l'esistenza di un contrasto interpretativo sul punto giacché: a) secondo un primo orientamento, inizialmente approntato dalla Cass. pen., Sez. VI, 6 giugno 2012n. 37114, m. 253538, era da ammettersi la configurabilità del delitto in considerazione della sua natura di reato omissivo istantaneo; alla luce di questo primo approccio ciò che rileva, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 31, legge 646 del 1982 (oggi, art. 80, d.lgs. n. 159 del 2011), è la condotta omissiva del soggetto purché, nel momento in cui si consuma detta omissione, lo stesso si trovi nelle condizioni soggettive e oggettive richieste dalla legge le quali integrano un elemento normativo della fattispecie (in senso conforme Cass. pen., Sez. II, 9 aprile 2015, n. 28104, m. 264137); b) secondo altra ermeneusi (Cass. pen., Sez. VI, 18 settembre 2013 n. 41113, m. 256137), il delitto in esame non è configurabile nel caso in cui la condanna per il delitto–fonte dell'obbligo di comunicazione riguardi uno dei reati implementati ex novo dall'art. 7, comma 1, lett. b), legge 136/2010 e sia intervenuta prima dell'entrata in vigore di detta legge, essendo a tal fine irrilevante, la circostanza, valorizzata dall'opposto orientamento, in merito alla consumazione dell'omissione in epoca successiva; ma lo stesso discorso, come rileva l'ordinanza di rimessione, deve estendersi al decreto applicativo della misura di prevenzione personale.

Le Sezioni Unite hanno aderito alla prima opzione ermeneutica, procedendo dall'evoluzione normativa della fattispecie e dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte costituzionale, quest'ultima più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli artt. 30 e 31 della legge 646/1982 (n. 442 del 2001, n. 362 e 143 del 2002; n. 81 del 2014 e n. 99 del 2017) e, poi, qualificando la fattispecie come un reato omissivo proprio «di pura creazione legislativa», connotato, quanto all'elemento soggettivo, dal dolo generico e la cui sussistenza deve essere affermata anche in caso in cui le variazioni patrimoniali siano avvenute mediante atti pubblici di cui è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. Secondo la soluzione adottata la norma incriminatrice sanziona, la condotta posta in essere da chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti una soglia determinata. Le modifiche normative avrebbero, quindi, riguardato esclusivamente il presupposto per l'insorgenza dell'obbligo intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla sua osservanza, senza, tuttavia, alterare la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore. Quindi quale che sia stato il tempo in cui l'obbligo è sorto per effetto di una condanna o di una comminatoria preventiva.

Osservazioni

Il sistema di prevenzione è in fibrillazione da qualche tempo. I più accorti osservatori avevano segnalato che la sentenza Cedu sull'affaire De Tommaso avrebbe, prima o poi, messo in discussione i pilastri cui si regge la terra di mezzo della prevenzione personale e patrimoniale e le pronunce n. 24 e 25 del 2019 della Consulta hanno confermato questa profezia. E' indiscutibile che la giurisdizione del sospetto e, ben che vada, dell'indizio abbia svolto un ruolo importante nel contrasto, soprattutto, alla criminalità mafiosa e in una condizione largamente emergenziale. Tuttavia sembra arrivato il momento di operare accurati bilanci sull'ulteriore sostenibilità costituzionale e convenzionale del sistema che – sia consentito dire – con l'inclusione tra i soggetti pericolosi dei sospettati di stalking (legge 161/2017) ha dilatato la propria forza espansiva oltre i cancelli della ragionevolezza. La breve premessa è necessaria per comprendere che, con un buon coefficiente di probabilità, il caso esaminato dalle Sezioni unite potrebbe essere portato tra qualche anno all'attenzione della Corte di Strasburgo e che la Cedu potrebbe stabilire che una manciata di previsioni convenzionali è stata violata in nome di una logica securitaria che finisce per porsi in collisione con lo stesso regime d'eccezione approntato - a partire dal 1982 e dopo un efferato omicidio di mafia – dal legislatore nazionale e sostenuto da un impetuoso indirizzo interpretativo delle Corti nazionali. Il contrasto giurisprudenziale che la sentenza in commento ha portato a soluzione era connotato, nella sostanza, dal contrapporsi di due visioni antagoniste del principio di legalità; poche volte come nel caso all'esame delle Sezioni unite, si trattava di rinvenire un non precario punto di equilibrio tra le guarentigie proprie del sistema penale e quelle che la pronuncia della Corte individua come «le finalità della norma incriminatrice (consistenti) consentire l'esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall'eventuale svolgimento di attività illecite, escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell'atto dispositivo, che non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione e non consente un constante monitoraggio, dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri». Il punto è delicato poiché – come visto – la Corte di legittimità prefigura che qualsiasi soggetto a) sia stato condannato per un delitto di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. (diverso da quelli di mafia) o b) sia stato sottoposto a misura di prevenzione personale cd. semplice ai sensi della legge 1423/1956 debba – a decorrere dal 7.9.2010 – assolvere all'obbligo di comunicazione delle proprie variazioni patrimoniale “sopra soglia” (euro 10.329,14) anche se la sentenza di condanna o il decreto di prevenzione siano divenuti definitivi prima di quella data, alla sola condizione che tra quella definitività e la data degli addenda patrimoniali non sia decorso il termine decennale previsto dall'art.80 codice antimafia e/o dall'art.30 legge 646/1982.

Si faccia il caso di Tizio che nel gennaio del 2008 si era vista irrogata la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza in quanto dedito a traffici illeciti o sia stato condannato per traffico illecito di rifiuti; immaginiamo che costui nel periodo 2008 - 6 settembre 2010 abbia effettuato innumerevoli transazioni patrimoniali e finanziarie (ovviamente lecite) oltre il tetto di euro 10.329,14. Non v'è dubbio che non risponda di alcun reato, poiché la sua attività di movimentazione si è svolta prima della modifica estensiva portata dalla legge 136/2010.

Si pensi ora a Caio, correo o co-indiziato di Tizio, che ha stipulato un pari numero di contratti di compravendita, ma tutti preliminari differendone la stipula notarile dall'8 settembre 2010 in poi; solo per lui scattano sanzione penale e confisca anche per equivalente.

Per risolvere l'aporia – e non solo sotto il profilo soggettivo del dolo – la sentenza in commento svolge un'ordinata e convincente qualificazione dei reati di cui agli artt. 30 e 76 ribadendone la natura di delitti omissivi istantanei, affermandone l'estraneità al nucleo precettivo delle fattispecie delle condizioni di condannato o prevenuto e convogliando tutti questi argomenti in direzione dell'illeceità della condotta indipendentemente dal tempo di irrogazione della condanna o della misura preventiva.

Tuttavia merita di essere riesaminata la traiettoria argomentativa secondo cui il reato dovrebbe essere qualificato come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Cass. pen., sSez. II, 21 maggio 2013 n. 25974, m. 256655) e per la quale – nella classificazione tra reati omissivi propri «naturali» e «formali» - si dovrebbe approcciare questa seconda opzione. E' certo, come confermano le Sezioni unite, che «il reato può ritenersi sussistente … in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario, residuando in capo all'autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato», ma il punto è che il legislatore ha “creato” il reato nel momento stesso in cui inseriva nell'ordinamento la confisca di prevenzione e quella penale in relazione al delitto di associazione mafiosa (1982) con il chiaro intento di prospettare al soggetto raggiunto dalla condanna o dalla sorveglianza l'esistenza di un preciso e opportuno obbligo di cooperazione al proprio controllo di polizia patrimoniale. E vero che tecnicamente non si è in presenza di una pena accessoria, ma – evitando inappropriate “truffe delle etichette” – è pur sempre chiaro che si ha riguardo ad una «conseguenza giuridica negativa» che discende da quelle statuizioni giudiziarie.

Altrimenti detto: è condiviso che il termine decennale previsto per «l'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo» (Cass. pen.,Sez. V, 23 gennaio 2018,n. 8768, m. 272311) non rappresenti solo la ricaduta del «tenore letterale dell'art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell'art. 30 della legge 646 del 1982 {dopo le modifiche apportate dalla legge 55 del 1990)», ma la dimostrazione che l'accertamento giurisdizionale di condanna o di pericolosità sociale è la matrice del dovere di segnalazione che il soggetto si prefigura come un sorta di effetto penale (latu sensu: afflittivo) del provvedimento (sulla nozione di «effetti penali» v. artt. 2, 20, 77, 106, 174, 178 c.p. ovvero artt. 445, 572, 587, 622 e 669 c.p.p. ovvero l'art.47 legge 354/1975). Per quanto riguarda le sentenze di condanna esemplare l'insegnamento della Corte di piazza Cavour: «Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione ne' indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell'effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, "ope legis", dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell'effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale» (Cass. pen.,Sez. un.,20 aprile 2014 n. 7, m. 197537 – 01). L'immediata correlazione tra definitività del provvedimento e insorgenza dell'obbligo di comunicazione avrebbe potuto condurre a una diversa soluzione e avrebbe potuto far ritenere che – ove l'obbligo non sia stato generato (come nel caso esaminato) al momento della definitività del provvedimento – esso non possa dirsi comminato ope legis in ragione della mera entrata in vigore della legge 136/2010 (7 settembre 2010).

Anziché focalizzare ogni attenzione sul punto concernente la natura del reato omissivo, forse, si sarebbe dovuto scandagliare più a fondo il tema dell'insorgenza dell'obbligo di cui si tratta e della possibilità di ritenerlo - addirittura ex post - geneticamente connesso ai provvedimenti definitivi anteriori a quella data.

Il profilo porta con sé quello della dedotta (ed esclusa) violazione dell'art. 7 Cedu e il tema della conoscibilità del precetto penale. Sul punto la sentenza in esame ha concluso che «La fattispecie incriminatrice è pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una sua inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l'obbligo di comunicazione permane per dieci anni». Si intravede una rottura della trama argomentativa che a) per un verso configura un'ultrattività della condizione soggettiva di condannato o prevenuto su cui poter innestare l'obbligo di comunicazione, benché un tale ultrattività fosse esclusa ope legis al tempo dell'emanazione dell'atto e b) per altro giunge a ricostruirla richiamandosi al contenuto decennale dell'obbligo.

Il risultato opinabile è che il soggetto avrebbe dovuto vigilare su eventuali modifiche legislative del sistema di prevenzione per dieci anni dopo la definitività della condanna o della misura di prevenzione perché l'obbligo punito penalmente e patrimonialmente vige per dieci anni. Delle due l'una: il legislatore (come un impegno esiguo) poteva prevedere che l'obbligo di polizia di cui si discute fosse comunicato a tutti i soggetti prima esenti, oppure, avendo omessa una tale segnalazione ad personam, si deve ritenere che il Parlamento non immaginasse la portata retroattiva della modifica del 2010 (con l'incardinarsi del dovere in direzione di soggetti esenti).

Né pare risolutivo evocare che «in tema di infortuni sul lavoro, ad esempio, si è affermato che le disposizioni che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari, sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell'imputato (Cass. pen., Sez. IV, 25 ottobre 2006, n. 2604, Cazzarolli, Rv. 235780)», poiché il punto riguarda la “fonte” dell'obbligo che, in questi casi è la legislazione prevenzionistica e in quello in esame è il provvedimento giudiziale (infatti per l'art. 30, comma 3, legge 646/1982 «Gli obblighi […] cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione» e per l'art. 80, comma 3, codice «Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata»).

In conclusione, si è detto in premessa che l'interpretazione prescelta dalla Corte rischi di porsi in contrasto con le stesse ragioni di politica criminale che avevano opportunamente suggerito la previsione dell'art. 30 e la sua successiva espansione; non si intuisce, infatti, come l'omessa segnalazione di movimentazioni patrimoniali lecite possa (rispetto al medesimo soggetto) essere irrilevante sino al 6 settembre 2010 e meritare pesanti sanzioni il giorno dopo senza contraddire le ragioni stesse della legislazione antimafia e il fondamento dell'obbligo che – se reso retroattivo – prefigurerebbe una condizione «di sospetto e di attenzione» approntata dal legislatore senza alcuna previa, concreta e attuale verifica della condizione del soggetto (semel reus semper reus).

Guida all'approfondimento

D. MICHELETTI, Il reato di violazione degli obblighi di informazione e le modifiche penali del codice antimafia, in AA.VV. Dai decreti attuati della “Legge Orlando” alle novelle di fine legislatura, a cura di A. Giarda – F. Giunta – G. Varraso, Milano, 2018, 378 ss.;

A. CHELO, sub art. 76, in AA.VV., Commentario breve al codice antimafia e alle altre procedure di prevenzione a cura di G. Spangher e A. Marandola, Padova, 2019, 371 ss.; F. Lai, sub art. 30 L.13 settembre 1982, n.646, ibidem, 618 ss.

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