Presupposti e criteri di imputabilità del blogger per commenti diffamatori postati dagli utenti

13 Maggio 2019

Quel che rileva e risulta di particolare interesse nella decisione in commento, oltre ad un ordinato ed organico richiamo dei capisaldi della giurisprudenza e della normativa in tema di soggetti e responsabilità circa i contenuti veicolati dalle piattaforme telematiche di comunicazione, è la precisazione dei confini e delle motivazioni della responsabilità penale ipotizzabile in capo al blogger.
Massima

Va esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell'offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo. Il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente. In linea con i principi della responsabilità personale del blogger, è necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest'ultimo al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo.

Il caso

Il 5 aprile 2017 la Corte d'Appello di Messina confermava la decisione del Tribunale di Patti che affermava la responsabilità penale dell'imputato per il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p.p. in un caso in cui la circostanza aggravante del mezzo di pubblicità utilizzato era da riferire all'utilizzo, al fine di commettere il delitto, di un blog gestito dall'imputato, in cui venivano pubblicate espressioni di carattere diffamatorio in danno della persona offesa, provenienti sia dall'imputato medesimo che da soggetti terzi.

Il fatto contestato all'imputato consisteva anzitutto nell'aver scritto l'espressione “non offendere i porci” sul blog da lui gestito, rivolgendosi ad un soggetto terzo che aveva così appellato la persona offesa che a sua volta, in una lettera aperta da lui redatta e pubblicata sul blog dell'imputato, aveva riferito l'aneddoto. Questo commento dell'autore del blog, secondo l'impostazione accusatoria, ledeva la reputazione della persona offesa. Inoltre il responsabile del blog veniva ritenuto imputabile anche per non aver provveduto a rimuovere commenti altrettanto diffamatori provenienti da utenti anonimi.

Il presupposto comune di entrambe le decisioni, di primo e secondo grado, era che entrambi i giudici ritenevano senza alcun dubbio qualificabile un blog come qualunque altro mezzo di pubblicità nei termini definiti dall'art. 595, comma 3, c.p.p. coerentemente con la giurisprudenza costante di legittimità che ritiene tali tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione che, grazie all'evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti.

La questione

Le questioni poste dal ricorrente alla Suprema Corte riguardavano essenzialmente due profili: la prima, vertente sulla asserita violazione di legge, per non avere la sentenza d'Appello, confermando quella di primo grado, correttamente applicato all'amministratore del blog la disciplina normativa prevista per gli internet provider a fondamento della cui responsabilità penale è richiesta una conoscenza non semplice ma qualificata del dato illecito. In altri termini, reclamava il ricorrente, per sostenere la responsabilità del responsabile del blog per non aver rimosso i contenuti offensivi non era sufficiente la sua presa di conoscenza degli stessi ma sarebbe stato necessario un ordine di una pubblica amministrazione o di una autorità giudiziaria rimasto inadempiuto. Circostanza che, nel caso di specie, non si era verificata essendo stato contestato all'imputato di non aver rimosso i contenuti denigratori pur avendone preso direttamente conoscenza in quanto veicolati dal blog da lui personalmente amministrato. Ne deduceva il ricorrente che la responsabilità penale dell'imputato veniva in tal modo ad essere una mera responsabilità di posizione, basata sul ruolo in sé di responsabile del blog, e in quanto tale costituzionalmente illegittima.

La seconda questione si fondava sulla insufficiente o inesistente motivazione della decisione in merito alla sussistenza del dolo che, a opinione del ricorrente, non poteva basarsi solo sulla intrinseca offensività dei contenuti pubblicati tramite il blog dell'imputato e sulla sua conoscenza degli stessi. Mancava, in altri termini, nella motivazione a dire del ricorrente una sufficiente argomentazione in ordine alla intenzione lesiva della mancata rimozione dei contenuti lesivi da parte del responsabile del blog.

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento ai due punti evidenziati dal ricorrente, vale la pena di sottolineare le implicazioni delle possibili interpretazioni.

Anzitutto, e principalmente, ritenere o meno tout court applicabile al responsabile di un blog la normativa prevista per i gestori degli internet provider ha conseguenze abbastanza significative in termini di contenuti dei doveri esigibili da tali soggetti sotto profili penalmente rilevanti. Con la diffusione di internet le condotte potenzialmente rilevanti sotto il profilo penale si sono enormemente ampliate e, in particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilità, data ad un numero esponenziale di utenti della rete, di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati. Il dato di fatto è che un numero sempre maggiore di utenti esprimono opinioni su ogni sorta di argomento trattato spesso con eloquio volgare ed offensivo, nascondendosi dietro lo schermo di un apparente anonimato.

La Suprema Corte, nella decisione in commento, ricorda di avere frequentemente avuto modo di intervenire in materia a definire i contorni di fattispecie tradizionali applicabili a nuove condotte, entro i limiti del principio della riserva di legge e dunque ad esplicitare i limiti dell'analogia non consentita. Del tutto pacifico, in tal senso, il principio per cui la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra una ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p., rientrando nel concetto di qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta così realizzata è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone e non è però posta in essere col mezzo della stampa non potendosi ricomprendere i social network nei mezzi destinati ad una attività di informazione professionale diretta al pubblico. (Cass. pen., Sez. V, n. 4873/2016, P.M. in proc. Manduca, Rv. 26909001).

La più importante conseguenza di questa equiparazione si ravvisa in termini di individuazione dei soggetti responsabili dei contenuti illeciti posti in rete. Pacifica essendo la responsabilità penale dell'autore diretto di post penalmente illeciti, assai delicata resta la questione del se e del quanto lo siano anche i providers e, come nel caso di specie, i responsabili di siti specificamente qualificabili come blog. Pacifica la giurisprudenza nel senso che il provider che fornisce contenuti risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati attraverso la diffusione degli stessi. Questione spinosa invece è quella se il provider o altri soggetti responsabili di piattaforme di comunicazione on line debbano rispondere del fatto illecito posto originariamente in essere da altri avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell'access provider, del sito creato sul server dell'host provider, dei servizi del service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache providers. Come rammenta la Suprema Corte, in materia «La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva Europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L'art. 7 di tale direttiva definisce gli internet service providers quali "fornitori di servizi in internet”. Inoltre, l'art. 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per "servizi della società dell'informazione" si intendono le attività economiche svolte in linea - on line - nonché i servizi indicati dalla l. 317 del 1986, art. 1, comma 1, lett. b, cioè qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell'accesso ad internet e a caselle di posta elettronica. E' stata quindi sancita l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers. Infatti, l'art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dal D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 17), prevede quanto segue: "1. Nella prestazione dei servizi di cui agli artt. 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano nè un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. - 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell'informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».

Ne deriva che i providers sono esentati da responsabilità per illeciti contenuti diffusi da altri, quando svolgono servizi di c.d. mere conduit (art. 12), caching (art. 13) e hosting (art. 14). È sotto questo profilo che rileva la risposta alla domanda se al blogger vada riconosciuta la stessa posizione del provider o meno. La Suprema corte nella decisione in esame lo esclude, evidenziando che «il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che “le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione”. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate». Ricorre dunque attività di mere conduit, cioè di semplice trasporto, anche nel caso di chi fornisca un accesso ad internet come l'access provider, irresponsabile del contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora ricorrano le seguenti condizioni: non abbia dato origine alla trasmissione, non abbia selezionato il destinatario della stessa, non abbia selezionato né modificato le informazioni trasmesse. Ciononostante, esiste la possibilità che gli Stati membri (tra cui il nostro, ai sensi dell'art. 14, comma 3, d.lgs. 70/2003) prevedano che un organo giurisdizionale o una autorità amministrativa ordinino l'interruzione della trasmissione e la rimozione dei contenuti al fornitore di questi servizi, con ciò interrompendo la violazione. La normativa europea qui richiamata, dunque, non impone al provider né l'obbligo generale di sorveglianza ex ante né ovviamente l'obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite nei contenuti veicolati attraverso i propri servizi. Sussiste invece l'obbligo per i provider di informare prontamente le autorità competenti di illeciti di cui essi siano venuti a conoscenza e di condividere ogni informazione che possa servire ad identificare l'autore della violazione, tanto che la mancata collaborazione con le autorità rende gli stessi provider civilmente responsabili per i danni provocati. Ove dovesse ipotizzarsi una responsabilità penale dei provider in tali casi, si tratterebbe di un concorso omissivo nel reato commissivo dell'utente, per via della mancata cancellazione del contenuto illecito di cui sia venuto a conoscenza l'ISP e sempre nel caso in cui non si possano ravvisare nella fattispecie le caratteristiche, sopra specificate, di attività di mere conduit. Di fatto, se si potesse ipotizzare quest'ultimo tipo di responsabilità penale, si tratterebbe di una responsabilità a titolo di concorso originata da un generale obbligo di impedimento ritenuto sussistente a carico degli ISP (si veda in proposito (Cass. pen., Sez. V, n. 54946/2016, Maffeis).

Tuttavia la stessa Suprema Corte riconosce che la frammentarietà delle fonti normative e degli interventi legislativi in materia, nel tentativo di adeguare il sistema alla realtà in evoluzione della materia da regolare, rende assai difficoltosa una analisi sistematica delle varie fattispecie applicabili alle diverse figure di soggetti potenzialmente coinvolti. È proprio per le considerazioni che sono alla base della definizione dei differenti ruoli e delle diverse attività di questi soggetti che la Corte, nella decisione in oggetto, ravvisa una ineliminabile differenza tra gli internet providers e gli amministratori di blog che non forniscono alcun servizio di quelli individuati in capo ai provider, ma si limitano a «mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale” impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma. Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero “diario di rete") gestito quale sito personale è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software. I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal più recente al più lontano nel tempo) e il sito è in genere gestito da uno o più blogger, che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale». Nei fatti, se l'autore del blog ha configurato il blog in tal modo, ai suoi post possono seguire i commenti dei lettori, anche in termini di apparente anonimato. È evidente che, se da un lato davvero non può ritenersi il blogger responsabile per ogni sorta di commento o di contenuto illecito postato da altri, sebbene “invitato” dal proprio contenuto, davvero ricadendosi in tal caso in una sorta di responsabilità oggettiva o da posizione totalmente incostituzionale, d'altro canto la stessa possibilità tecnica di inserire filtri ai contenuti postati da utenti terzi su un blog implica di per sé l'assunzione di un obbligo di sorveglianza in capo al blogger che si è posto come amministratore e mediatore dei contenuti inviati dagli utenti. In questo senso, il blogger è sì responsabile penalmente dei contenuti illeciti postati da utenti terzi sul suo blog solo nella misura in cui, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del post, non si sia immediatamente ed efficacemente attivato per rimuoverlo (si veda sentenza CEDU del 9 marzo 2017 nel caso Pihl vs. Svezia). In sostanza, richiama la Corte, quello che rende il blogger responsabile dei contenuti illeciti postati da terzi sul suo blog è la sua condotta (positiva) di averli consapevolmente e volontariamente mantenuti on line anche una volta presa cognizione della lesività di tali contenuti (con ciò concorrendo nella condotta illecita, nei termini specificati più avanti).

Ritenere invece la piena equiparabilità del blogger all'ISP esclude tutto ciò ed esclude in particolare la possibilità di individuare una condotta in termini di adesione concorsuale del blogger ai contenuti illeciti veicolati dal suo blog, così come non sarebbe possibile identificarla in capo al provider che, fornendo solo i servizi specificati sopra, resta appunto responsabile solo nel caso in cui non ottemperi all'ordine di rimozione degli illeciti contenuti proveniente da autorità giudiziarie o amministrative.

Osservazioni

Quel che rileva e risulta di particolare interesse nella decisione in commento, oltre ad un ordinato ed organico richiamo dei capisaldi della giurisprudenza e della normativa in tema di soggetti e responsabilità circa i contenuti veicolati dalle piattaforme telematiche di comunicazione, è la precisazione dei confini e delle motivazioni della responsabilità penale ipotizzabile in capo al blogger. Specifica infatti la Corte che incontroverso appare che il ricorrente, sino a quando non è intervenuto l'oscuramento intimato dall'autorità giudiziaria ed eseguito addirittura dal Provider e non da lui stesso, ha consapevolmente e volontariamente mantenuto sul blog le espressioni lesive della reputazione della persona offesa, cui peraltro aveva dato corso con la pubblicazione della lettera aperta a firma di quest'ultima e con il commento sarcastico da lui personalmente apposto in calce alla stessa lettera. È da questa condotta che correttamente i giudici di prima e seconda istanza hanno dedotto la sussistenza del necessario dolo in capo al blogger, e non in via meramente presuntiva sulla base dell'intrinseca attitudine lesiva delle espressioni veicolate.

Altra considerazione particolarmente interessante riguarda la distinzione che la Corte ribadisce tra il concetto di “stampa” cui pure quella virtuale e telematica può essere assimilata e che gode delle relative garanzie costituzionali, e i mezzi telematici di diffusione di contenuti che non possono essere ricondotti a quelle caratteristiche. Ribadisce la Corte che, sulla scorta dei “principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. pen., Sez. Unite, n. 31022/2015, Fazzo e altro, Rv. 26409001), condivisi altresì da una recente sentenza di questa Sezione(Cass. pen., Sez. V, n. 16751/2018, Rando), solo la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nel concetto di "stampa" di cui alla l. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 1. Infatti, l'interpretazione costituzionalmente orientata ed evolutiva del termine stampa, sebbene imponga di ricomprendervi altresì i periodici telematici, non può tuttavia estendersi ai nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook o altri social network, dovendo rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili strutturale e finalistico che li caratterizzano, sono riconducibili alla nozione più estesa di "stampa", coerente col progresso tecnologico. I blog, dunque, che non presentano quelle caratteristiche di informazione professionale ma che si configurano come una sorta di personale agenda aperta ai commenti altrui, non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa e dunque l'autorità giudiziaria, «ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, può disporre, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo di un intero sito web o di una singola pagina telematica, imponendo al fornitore dei servizi internet, anche in via d'urgenza, di oscurare una risorsa elettronica o di impedirne l'accesso agli utenti ai sensi del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, artt. 14, 15 e 16, in quanto la equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico consente di inibire la disponibilità delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato (Cass. pen., Sez. Unite, n. 31022/2015, Fazzo e altro, Rv. 26408901). In applicazione di detti principi, questa Sezione, nella già citata pronuncia attinente ad un caso simile a quello odierno, ha osservato che l'amministratore di un sito internet non può identificarsi con le figure previste dall'art. 57 c.p., occorrendo quindi individuare a quale titolo l'amministratore del sito possa essere dichiarato colpevole del reato di diffamazione. In assenza di norme specifiche si è ritenuto che tale fattispecie incriminatrice possa essere ascritta all'amministratore di un sito internet in base alle regole comuni, cioè o in qualità di autore della stessa o perché oncorrente dell'autore materiale».

È questo dunque il profilo che consente alla Suprema Corte di ritenere infondato il ricorso e di ricostruire in termini concorsuali la responsabilità del blogger per i contenuti illeciti veicolati attraverso il suo blog e non direttamente postati. Specifica altresì la Corte che non sono fondate nemmeno le osservazioni del ricorrente in tema di concorso omissivo nel reato commissivo altrui e di reato omissivo improprio, che effettivamente non potrebbero ricorrere in capo al blogger, non ricorrendo in capo a questa figura le caratteristiche indispensabili di una posizione di garanzia atta a fondare la clausola di equivalenza dell'art. 40 cpv. c.p. (un bene che necessiti di essere protetto perché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo adeguatamente; una fonte giuridica che abbia la finalità di tutelarlo; l'individuazione di una o più persone dotate dei poteri idonei ad impedire la lesione del bene). Ribadisce dunque in maniera chiara e inequivoca la Corte che «Nel caso che ci occupa, invece, non è configurabile una posizione di garanzia ed un conseguente obbligo giuridico di garanzia in capo all'amministratore di blog, giacché tale figura non è investita da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l'incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli. Deve piuttosto affermarsi che la non tempestiva attivazione da parte del ricorrente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell'evento diffamatorio - rilevante ex art. 40 c.p., comma 2, - ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell'altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger”.

La responsabilità a titolo di concorso nel reato di diffamazione, dunque, si basa sulla valorizzazione della circostanza che mantenere il contenuto diffamatorio sul proprio sito equivale a consentire che detto contenuto continui ad esercitare l'efficacia diffamatoria, e dunque non contrasta di per sé con la pacifica natura di reato istantaneo della diffamazione (Cass. pen., Sez. V, n. 1763/2010, Antonini e altro, Rv. 24950701; Cass. pen., Sez. I, ord. n. 1524/1979). Il riferimento corretto, dunque, secondo la Corte è quello al concetto di pluralità di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del contenuto denigratorio: ogni ritrasmissione dello stesso, in sostanza, integra concorso nella medesima figura delittuosa, nella declinazione di ulteriori condotte di diffamazione che si sostanziano nell'aver consentito, utilizzando il proprio blog, l'ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie, con ciò facendole proprie.

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