La Corte costituzionale, con una pronuncia che consacra il principio della proporzionalità della pena quale limite alla discrezionalità di scelte legislative necessariamente fondate sulla tutela effettiva dei diritti fondamentali...
Premessa
La Corte costituzionale, con una pronuncia che consacra il principio della proporzionalità della pena quale limite alla discrezionalità di scelte legislative necessariamente fondate sulla tutela effettiva dei diritti fondamentali (Corte cost., nn. 236/2016, 222/2018 e 233/2018), ha dichiarato illegittimo il minimo edittale (reclusione di otto anni) previsto per il delitto di cui all'art. 73, primo comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 che incrimina i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le cosiddette droghe pesanti; minimo edittale cui, per effetto della sentenza n. 40/2019 dovrà sostituirsi quello, più mite, di sei anni.
Va ricordato che nella versione originaria, l'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” (puniti al comma 1 con la reclusione da otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere” (puniti al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa).
La stessa distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” era riproposta anche per i fatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5 stabiliva un'attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma o indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.
L'art. 4-bis d.l. n. 272 del 2005 (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32 del 2014) aveva soppresso la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando la pena della reclusione da sei a venti anni (oltre la multa) per i fatti non lievi, nonché la pena della reclusione da uno a sei anni (e la multa) per i casi in cui fosse applicabile l'attenuante del fatto di lieve entità.
L'art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 convertito, con modificazioni, nella l. 21 febbraio 2014, n. 10, ha sostituito il comma 5 dell'art. 73, trasformando la relativa previsione concernente il fatto di “lieve entità” in fattispecie autonoma di reato e abbassando il massimo edittale della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione, successivamente ulteriormente ridotto a quattro anni, per effetto dell'art. 1, comma 24-ter, lett. a) d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 79 del 2014.
Ne consegue, che alla data dell'intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale, la disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti compendiata nel d.P.R. n. 309 del 1990, risultante dalla stratificazione di plurimi interventi normativi e giurisprudenziali, si è potuta ricostruire avendo riguardo: 1) da un lato, agli esiti della sentenza della Corte Costituzionale nr. 32/2014; 2) dall'altro, all'intervento correttivo ed integrativo del legislatore, principalmente realizzato dapprima con il D.L. 146/2013 convertito nella L. 10/2014 (che ha trasformato l'articolo 73 comma 5 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 in ipotesi autonoma) e poi con il D.L. 36/2014 convertito nella L. 79/2014 (che ha ulteriormente ridotto le pene per l'autonomo delitto dei fatti di lieve entità).
Consegue ulteriormente che la disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti compendiata nel d.P.R. n. 309 del 1990 a far data dall'intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale è stata così sintetizzabile distinguendo tra i fatti illeciti lievi e non lievi:
1) per quest'ultimi, norma cardine del sistema sanzionatorio penale è divenuto l'articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 il cui testo vigente è diventato, a far data dall'intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale, quello derivante dalla declaratoria di incostituzionalità. Si è tornati a dover applicare le fattispecie incriminatrici contenute rispettivamente nei commi 1 e 4 dell'articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 nel testo antecedente alle modifiche del 2006, avendo interesse rispettivamente ai fatti riguardanti le droghe pesanti (tabelle I e III per le quali si applica la reclusione da 8 a 20 anni, oltre multa) ed a quelli relativi alle droghe leggere (tabelle II e IV per le quali si applicano le sanzioni della reclusione da 2 a 6 anni, oltre multa). Ne è conseguito, per le droghe pesanti, che il ritorno alla previdente disciplina del 1990 si è risolto in un aggravamento sanzionatorio quanto alla pena della reclusione. In entrambi i casi, il nuovo regime sanzionatorio ha posto ovviamente un problema di sanzioni applicabili ai fatti commessi sotto la vigenza della precedente disciplina, che è stato risolto secondo le regole dettate dall'articolo 2 c. 4 del codice penale;
2) per i fatti lievi, di cui all'articolo 73 comma 5 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, rispetto ai quali non si distingue tra droghe pesanti e droghe leggere, la relativa disciplina è ora rinvenibile nella modifica da ultima introdotta con il D.L. 36/2014 convertito nella L. 79/2014 che prevede la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni, oltre multa (così ulteriormente ridotta rispetto a quella introdotta con il D.L. 36/2014). Ne consegue, che è l'attuale più favorevole disciplina che deve trovare applicazione ai sensi dell'articolo 2 comma 4 del codice penale anche per i fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina.
Risultava quindi evidente che in concreto la linea che separava i fatti non lievi da quelli di lieve entità (e il conseguente trattamento sanzionatorio) non era sempre chiara e netta, perché vi sono casi che si collocano in una ‘zona grigia', al confine fra le due fattispecie di reato, il che faceva apparire non giustificabile l'ulteriore permanenza di un così vasto scarto sanzionatorio, evidentemente sproporzionato solo che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità era pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve.
Con la sentenza n. 179 del 2017, pur dichiarando l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale ad oggetto il minimo edittale previsto per l'ipotesi base di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte costituzionale era stata molto chiara. La sentenza si concludeva infatti con «un pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell'art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990».
A tale input è seguita una perdurante inerzia del legislatore.
Così, successivamente alla “reviviscenza” della distinzione quoad poenam in base alla qualità dello stupefacente – in seguito alla celebre sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, e dopo gli ulteriori interventi normativi sul cd. fatto di lieve entità ex art. 73, comma 5, T.U. stup. – dopo avere giudicato inammissibili numerose questioni simili nel corso degli ultimi anni (Corte cost. 23/2016; Corte cost., 148/2016; Corte cost., 179/2017, n. 179; Corte cost., 184/2017 ord.), la Corte ha in particolare rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo edittale di pena previsto per la fattispecie ordinaria che punisce le condotte aventi a oggetto le c.d. droghe pesanti (otto anni di reclusione) e il massimo di pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce uno scarto sanzionatorio in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.), e con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.).
La questione e la decisione della Corte Costituzionale
Il rimettente (Corte di appello di Trieste, ord. 6 marzo 2017) pur ritenendo configurabile nel caso di specie il delitto di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, rilevava che il concreto disvalore del fatto «si collocava in una “zona grigia”, al confine tra il fatto di lieve entità e quello di non lieve entità, non idonea a porsi in ragionevole rapporto di corrispondenza con una sanzione edittale minima di otto anni di reclusione».
Dunque, il giudice a quo riteneva che l'attuale conformazione normativa violerebbe l'art. 25, comma 2, Cost., a causa degli effetti in malam partem della sentenza n. 32/2014.
Sarebbe poi violato il principio di eguaglianza-ragionevolezza (art. 3, comma 1, Cost.), in quanto «fattispecie concrete che, sul piano naturalistico, possono presentare una grado di disvalore assimilabile, non giustificano un “salto” sanzionatorio di quattro anni, potendosi peraltro individuare norme interne al sistema, in grado di apprestare una tariffa edittale in rapporto più ragionevole con la “scala di gravità”, con il continuum di disvalore, delle condotte tipiche».
E infine, una pena minima così elevata contrasterebbe con il combinato disposto degli artt. 3, comma 1, e 27, comma 3, Cost., poiché il soggetto, percependo la sanzione come immeritata e ingiusta, sarebbe portato a non aderire all'offerta rieducativa.
Così enucleati i profili di illegittimità ritenuti dal rimettente, la questione relativa all'art. 25 comma 2, Cost. viene ritenuta inammissibile: in sintonia con numerosi precedenti, nonché richiamando la linea interpretativa inaugurata con la sentenza n. 394/2006, si ribadisce che gli effetti in malam partem delle pronunce della Corte sono ammissibili a condizione che non discendano «dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma dalla semplice rimozione di norme costituzionalmente illegittime”, costituendo così “una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma costituzionalmente illegittima, la cui caducazione determina l'automatica riespansione di altra norma dettata dallo stesso legislatore», da identificarsi in questo caso nel trattamento sanzionatorio dell'art. 73, comma 1, l. Iervolino-Vassalli, più severo in parte qua (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
In relazione al contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzione, la Corte evidenzia che i dicta di cui alle recenti sentenze n. 23/2016 e 148/2016 (indeterminatezza e mancata individuazione del “sostitutivo sanzionatorio”), e n. 184/2017 (vizi di rilevanza), erano tali da precludere una verifica nel merito.
Simile alla questione in rilievo era quella decisa nella sentenza n. 179/2017, in seno alla quale il rimettente chiedeva un intervento manipolativo teso ad eliminare l'irragionevole “strappo” sanzionatorio attraverso la sostituzione del minimo edittale di otto anni di reclusione con la pena massima di quattro anni comminata dall'art. 73, comma 5, T.U. stup.
In quella sentenza, sull'assunto che non può «ritenersi imposto, dal punto di vista costituzionale, che a continuità dell'offesa debba necessariamente corrispondere una continuità sanzionatoria», ben potendo darsi spazi di “discrezionalità discontinua”, la Corte evidenziava che l'intervento richiesto avrebbe implicato una illegittima scelta non costituzionalmente obbligata, tra una pluralità di legittime opzioni politicamente percorribili.
«Tale esito, tuttavia, dev'essere rivalutato, sotto una luce diversa, visti i più recenti sviluppi della giurisprudenza in materia» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
Il nuovo corso è individuato nella sentenza n. 23/2016, che ha censurato la cornice edittale del reato di alterazione di stato mediante falso di cui all'art. 567, comma 2, c.p., attraverso «un innovativo ragionamento tutto focalizzato sulla sproporzione intrinseca della cornice edittale a fronte del disvalore oggettivo e soggettivo del fatto incriminato, poi individuando, solo a conclusione dell'iter logico-giuridico, il riferimento normativo già presente all'interno del sistema nella più mite forbice punitiva da tre a dieci anni di reclusione, prevista per il diverso reato di cui all'art. 567, comma 1, c.p.» (INSOLERA, Controlli di costituzionalità…). Questo modello di giudizio «“per linee interne” al sistema, idoneo a censurare sanzioni manifestamente sproporzionate, pur in assenza di un tertium comparationis in senso “classico”, è stato ulteriormente rifinito nella sentenza n. 222/2018, che ha invalidato le pene accessorie fisse di cui all'art. 216, u.c., l. fall» (Corte cost. n. 222/2018).
Anche nella sentenza n. 233/2018, di poco successiva, pur ritenendosi infondati i lamentati profili di contrasto tra la pena pecuniaria proporzionale prevista dall'art. 291-bis, d.P.R. n. 43/1973 e gli artt. 3 e 27 Cost., si conferma la possibilità di invalidare pene irragionevoli o sproporzionate, se sono presenti nel sistema «previsioni sanzionatorie che, trasposte all'interno della norma censurata, garantiscono coerenza alla logica perseguita dal legislatore». La priorità è infatti evitare che permangano «zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l'esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale».
Sulla base di un petitum calibrato sulle coordinate cristallizzate nelle tre recenti decisioni, anche alla luce della intollerabile inerzia del legislatore che determina una perdurante violazione dei diritti fondamentali, le questioni superano il vaglio d'ammissibilità.
Le questioni sono altresì fondate.
E invero, a seguito della disorganica stratificazione di interventi normativi successivi alla sentenza n. 32/2014 – prosegue la Corte nella sentenza in commento – «si è progressivamente scavata la lamentata profonda frattura che separa il trattamento sanzionatorio del fatto di non lieve entità da quello del fatto lieve, senza che il legislatore abbia provveduto a colmarla nonostante i gravi inconvenienti applicativi che essa può determinare», già segnalati nella sentenza n. 179/2017.
Rileva la Consulta che nonostante la tassativizzazione giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. Unite, n. 51063/2018) della fattispecie autonoma prevista dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 (qualità e quantità della sostanza; modalità, mezzi e circostanze dell'azione), la nozione di “fatto lieve” rimane ontologicamente indeterminata, con la conseguenza che alcuni fatti concreti si pongono sull'incerta linea di confine tra le due fattispecie.
In questi casi la valutazione discrezionale del giudice, pur in presenza di fatti assimilabili, per i vizi di struttura delle cornici edittali, può determinare una significativa variazione quoad poenam, non giustificata dal diverso disvalore, «con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte».
La disposizione censurata, pertanto, contrasta con i principi di eguaglianza-ragionevolezza e proporzionalità.
Oltre a costituire una sperequazione sanzionatoria arbitraria, in relazione a situazioni che possono essere simili, il minimo edittale di otto anno di reclusione – secondo il consolidato insegnamento della Corte (da ultimo, Corte cost., sent. n. 179/2017 e 149/2018) – ostacola ab initio la funzione rieducativa, giacché «una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto […] soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria» è «destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere».
Rilevato il vulnus, «la Corte si impegna nel passaggio forse più critico sul piano degli equilibri politico-istituzionali: l'individuazione del rimedio sanzionatorio interno al sistema (§ 5.3 Cons. in diritto)» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…). La misura di sei anni di reclusione, individuata dal rimettente, pur non essendo costituzionalmente obbligata (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…), non è arbitraria, in quanto «si ricava da previsione già rinvenibili nell'ordinamento», segnatamente dalla disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, ivi collocandosi «in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore».
Detta quantificazione sanzionatoria, anzitutto, continua a essere applicabile quale pena minima ai fatti non lievi commessi prima della sentenza n. 32/2014; essa rappresenta, altresì, la sanzione edittale massima attualmente in vigore per i fatti non lievi aventi a oggetto droghe cd. leggere (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
Il legislatore del d.P.R. n. 309/1990, inoltre, aveva originariamente fissato in tale soglia la pena massima per i fatti di lieve entità riguardanti droghe cd. pesanti, e anche la riforma di cui al d.l. n. 272/2005, pur eliminando la distinzione, aveva mantenuto tale limite massimo (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…). Ebbene, valutandosi globalmente la complessa e frammentata evoluzione storica del sottosistema normativo, si afferma che «la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti ‘di confine', che nell'articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie dei reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi». Il correttivo proposto dal rimettente è pertanto conforme ai criteri elaborati nelle sentenze n. 236/2016, 222 e 233/2018: «si situa coerentemente lungo la dorsale sanzionatoria prevista dai vari commi dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore». Non essendo costituzionalmente obbligato, il quantum di sei anni di reclusione può essere liberamente rivalutato in sede legislativa, nei limiti del rispetto del principio di proporzione (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
Il punto di vista della dottrina sul valore politico-istituzionale della sentenza
In ordine al controllo di proporzione, ossia il riscontro della violazione, la decisione prosegue il corso inaugurato dalla sentenza n. 236/2016; «lo scrutinio è interamente svolto all'interno della disposizione sindacata, risultando la pena minima di otto anni intrinsecamente sproporzionata rispetto al disvalore di quell'insieme di fatti non lievi che “si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi”. Il vizio, senza dubbio, si palesa ulteriormente in ragione della struttura delle due cornici edittali poste a raffronto (art. 73, comma 1 e comma 5, T.U. stup.): l'ampio “salto” sanzionatorio dipende da un fattore vago, come la nozione di “fatto di lieve entità”, e conseguentemente la discrezionalità giudiziale nella commisurazione rischia di sfociare in arbitrio, con potenziali effetti in bonam (ma soprattutto) in malam partem. Pare essere questa la preoccupazione centrale della Corte. Cimentarsi in una tipologia di scrutinio particolarmente scivoloso, ad elevato rischio di antidemocraticità, vale la pena poiché è necessario per preservare i diritti fondamentali dell'individuo, che diversamente sarebbero lasciati in balia dell'arbitrio giudiziale. Le sperequazioni in sede di commisurazione sono strettamente correlate al deficit di tipicità delle fattispecie: se la linea di confine tra fatto lieve e fatto non lieve non è sufficientemente determinata, e nella realtà è dato riscontrare una categoria di condotte poste “al confine”, la conformazione normativa delle tariffe edittali deve rispondere all'esigenza di misure sanzionatorie intermedie, che si pongano in rapporto di giusta proporzione con tali sottofattispecie. L'alternativa, che la Corte intende scongiurare, è un modello di discrezionalità svincolata dalla legge, simile a quello già censurato con fermezza nell'ordinanza n. 24/2017 e nella sentenza n. 115/2018, a margine della celebre Saga Taricco, attraverso la ripulsa del “giudice di scopo» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima… Cfr. spec. ord. n. 24/2017, §§ 5 e 9; sent. n. 115/2018, § 11 Cons. in diritto.).
In dottrina, è stata sottoposta a vaglio critico la decisione di adottare la misura di sei anni di reclusione, obiettando che sarebbe stato preferibile individuare nella misura del massimo edittale di quattro anni (art. 73, comma 5, T.U. stup.) di reclusione il “nuovo” minimo edittale dell'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990 (BRAY, §§ 9-10), sull'argomento che la misura di sei anni di reclusione quale minimo edittale sarebbe tratta da una disposizione non più vigente, in quanto censurata dalla sentenza n. 32/2014 per vizi di forma, e pertanto non «immune da vizi di legittimità», requisito imposto dal modello di scrutinio delineato nelle sentenze n. 236/2016, 222/2018 e 233/2018. Inoltre, si mette in luce l'inconferenza degli altri riferimenti normativi utilizzati, che fissano in sei anni di reclusione la misura delle risposta sanzionatoria, trascurando la Corte, in relazione al massimo edittale per le condotte non lievi aventi ad oggetto droghe cd. leggere (art. 73, comma 4), la natura diversa delle sostanze e differenziata offensività.
Su queste basi, si afferma che la Consulta avrebbe dovuto individuare il minimo edittale in quattro anni di reclusione, in modo da assicurare una gradazione più completa ed adeguata rispetto alla “scala progressiva” di disvalore dei fatti incriminati.
È stato tuttavia acutamente osservato che è pur vero che «la tipologia di scrutinio svolto racchiude in sé tutte le caratteristiche che tradizionalmente sono state oggetto di obiezioni in dottrina, in relazione al rischio di cd. attività paralegislativa della Corte, ma è altrettanto vero che la Corte si è impegnata in un controllo endolegislativo sistematico, nel tentativo di trarre legittimazione “per linee interne”, ponendosi in conformità alla ratio legis complessiva» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…), per individuare “l'adattamento normativo meno distante dalla logica di sistema” (Cfr. su tale modello di controllo, Relazione presentata dal Presidente della Corte costituzionale GIORGIO LATTANZI alla Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, Giurisprudenza Costituzionale dell'anno 2018, consultabile su Dir. pen. cont., con commento di C. Cupelli, Sindacato costituzionale e discrezionalità legislativa, 27 marzo 2019, 17-18). Il compito è reso estremamente difficile dal fatto che in un sistema connotato da stratificazione di asistematici interventi giurisprudenziali costituzionali e normativi diventa «complesso cercare una “coerenza per linee interne”, laddove il sottosistema normativo di riferimento è viziato da molteplici irragionevolezze intrasistematiche» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
Può sotto altro aspetto «osservarsi che un'equiparazione di trattamento tra massimo edittale “indifferenziato” per i fatti lievi e minimo edittale per i fatti non lievi con oggetto droghe pesanti avrebbe potuto risultare eccessivamente mite, in rapporto a determinate “sottofattispecie” relative a condotte non lievi inerenti a droghe pesanti». «Può dunque ipotizzarsi che la Corte abbai inteso evitare di spingersi troppo in là, temendo una “sproporzione per difetto” della misura minima di quattro anni di reclusione in rapporto alla gravità di alcune condotte non lievi riguardanti droghe cd. pesanti. Si tratta, d'altra parte, di preoccupazioni di natura politica non estranee ai precedenti sviluppi del sindacato di proporzione, che possono in parte spiegare esiti tecnicamente discutibili (e meno adeguati a garantire la piena attuazione dei principi costituzionali, come nel caso in esame)».
In definitiva, «la rivitalizzazione del sindacato di proporzione “intrinseca” – oltre ad essere sviluppata in maniera coerente a livello di evoluzione del precedente costituzionale – dev'essere apprezzata anche perché conforme agli stimoli provenienti dalle fonti sovranazionali, ed in particolare eurounitarie, espressamente richiamate nella più volte citata sentenza “apripista” n. 236/2016 (§ 4.2 Cons. in diritto)» (INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima…).
Il Giudice delle leggi attribuisce quindi alla proporzione un ruolo di primo piano quale presidio dei diritti fondamentali individuali, al cospetto dell'esercizio eccessivo e arbitrario del potere (e dello ius puniendi) statuale.
In tal modo, la ragionevolezza e la proporzione assumono un carattere più stringente, strumentale alla funzioni di prevenzione integrazione della pena, da intendersi come sintesi della motivabilità secondo norme e della istanza rieducativa.
I profili pratici: l'applicazione ai processi in corso e la a rideterminazione delle “pene illegali”
La sentenza della Corte costituzionale avrà un forte impatto sulla prassi, stante l'elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi adoggetto reati in materia di stupefacenti.
Fondamentale è tuttavia il fine di assicurare la piena realizzazione delle istanze costituzionali di legalità della pena anche nei confronti dei soggetti condannati in via definitiva a una pena illegale.
La questione va risolta alla luce dei principi espressi dalla stessa Corte Costituzionale sulla diversa tematica del trattamento sanzionatorio per i delitti puniti con l'ergastolo e giudicati con rito abbreviato, laddove la Corte Costituzionale con sentenza del 3 luglio 2013, n. 210 aveva ritenuto praticabile l'intervento del giudice dell'esecuzione nell'ipotesi in cui il giudice nazionale dovesse conformarsi alle disposizioni espresse dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella nota sentenza Scoppola, e dunque dovesse rideterminare la pena per i condannati all'ergastolo, anche se costoro non avevano fatto ricorso alla Corte di Strasburgo.
Così, le Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Unite., 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821, Ercolano) si sono conformate all'orientamento della Corte Costituzionale, ammettendo che l'ordinamento nazionale debba prevedere ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato nei casi in cui sul valore del giudicato siano prevalenti opposti valori di pari dignità costituzionale, conseguentemente concludendo nel senso che il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e preganti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona.
In tale prospettiva ermeneutica “lo scoglio del giudicato, rivelatosi ex post intrinsecamente illegittimo nella parte relativa alla esecuzione della pena irrogata, perché … costituzionalmente illegittima”, pone “l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti dell'esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più alta valenza fondativa dello statuto della pena, la cui legittimità può essere assicurata anche in executivis”.
Le Sezioni Unite quindi – sul presupposto che l'accoglimento della questione deve essere effetto di un'operazione meramente ricognitiva che non deve richiedere la riapertura del processo - hanno individuato lo strumento processuale attraverso il quale riportare alla legalità l'esecuzione della pena nell'incidente di esecuzione, atteso che pur non trattandosi di un'ipotesi di abrogatio criminis espressamente prevista dall'articolo 673 c.p.p., nondimeno l'articolo 30, commi 3 e 4, della legge 87/1953, espressamente prevede che le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione e che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.
Orbene, la nuova, più mite, forbice edittale, anzitutto, trova immediata applicazione nei processi in corso, pendenti in qualsiasi grado, ivi compreso il giudizio di cassazione, ad oggetto l'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.
Il più favorevole minimo edittale si applica anche retroattivamente.
L'intervento della Corte costituzionale sulla legittimità delle scelte sanzionatorie in materia penale non mancherà poi di provocare la necessità di modificare le sentenze già passate in giudicato (e ancora in esecuzione) che abbiano commisurato la pena sulla base del quadro edittale dichiarato incostituzionale. La pena deve essere invero legittima non solo al momento della comminatoria edittale, ma altresì in quelli successivi della sua determinazione concreta ad opera del giudice della cognizione e, infine, della sua esecuzione.
Sotto questo punto di vista, ora che i limiti edittali sono stati manipolati, si svilupperà il contenzioso dinanzi ai giudici ordinari, essendo necessario procedere alla rideterminazione in executivis delle pene illegali irrogate nelle sentenze irrevocabili, conformemente al nuovo, più mite, delta punitivo (da sei a venti anni di reclusione) (BRAY).
Dato l'elevato numero di soggetti che stanno scontando la pena per delitti in materia di stupefacenti, è facile prevedere che l'odierna pronuncia produrrà una ingente mole di lavoro supplementare in numerosi uffici giudiziari, ma difficilmente darà origine a significative novità giuridiche.
E invero, una consolidata giurisprudenza di legittimitàha ormai affermato pacificamente che lo strumento processuale invocabile nel caso in cui la declaratoria di incostituzionalità abbia riguardato soltanto la componente sanzionatoria, è l'incidente di esecuzione exartt. 666 ss. c.p.p. (Cass. pen., Sez. Unite., 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821, Ercolano; Cass. pen., Sez. Unite., 29 maggio 2014-14 ottobre 2014, n. 42858, Gatto; Cass. pen., Sez. Unite, 26 febbraio 2015-28 luglio 2015, Jazouli. In dottrina BANDINI)
Nell'ottica di un giudicato aperto e flessibile alla istanza di legalità della pena, il Collegio esteso ha, in estrema sintesi, affermato i seguenti principi:
1) al giudice dell'esecuzione sono stati riconosciuti poteri piuttosto elastici nel rimodulare il trattamento sanzionatorio secondo i parametri dell'art. 133 c.p.;
2) gli spazi di manovra del giudice dell'esecuzione non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo ma incidenti anche sul contenuto di esso allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano;
3) il procedimento di esecuzione è il mezzo con cui investire il giudice dell'esecuzione di tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo;
4) il giudice dell'esecuzione è munito di «penetranti poteri di accertamento e di valutazione ben più complessi di quelli richiesti in un giudizio di comparazione tra circostanze»;
5) nell'ambito di tale potere-dovere, il giudice ha la stessa libertà del giudice della cognizione, ma ciò che gli resta assolutamente precluso è il compimento di operazioni escluse in modo chiaro in sede di cognizione per ragioni di merito. Con riferimento a tale ultimo punto, va evidenziato che, se così non fosse, si realizzerebbe uno stravolgimento dei ruoli e delle funzioni processuali, in quanto non è assolutamente consentito a tale giudice di assumere provvedimenti contrastanti con le valutazioni del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile.
Nel nuovo sistema, si dovrebbe quindi rideterminare la pena senza alcun automatismo, effettuando la valutazione ora per allora alla luce della trasposizione in concreto degli indici di cui all'art. 133 c.p. cristallizzati nelle statuizioni sostanziali irrevocabili del giudice della cognizione.
Il giudice dell'esecuzione sarà dunque chiamato a effettuare un nuovo giudizio di responsabilità finalizzato a realizzare soltanto modifiche in melius – in maniera discrezionale e non alla stregua di criteri matematico-proporzionali – avendo riguardo ai nuovi valori edittali costituzionalmente legittimi (da sei a venti anni di reclusione).
Potranno quindi essere rideterminate non soltanto le sanzioni irrogate partendo dal minimo edittale, ma anche quelle prossime al massimo edittale, in quanto per le Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Unite, 26 febbraio 2015, n. 33040 - dep. 28 luglio 2015, Jazouli) è illegale la pena commisurata partendo da una comminatoria vigente al momento del fatto ma dichiarata illegittima, anche qualora la pena inflitta rientri nella “nuova” cornice sanzionatoria, risultante dall'intervento del giudice costituzionale.
Il fine da perseguire è indicato dalla sentenza n. 40 del 2019, vale a dire riaffermare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
La sentenza della Corte Costituzionale può così essere interpretata nel senso che la violazione del principio di proporzionalità, che è a fondamento della declaratoria di incostituzionalità, è stata stigmatizzata non già con riferimento a tutte le situazioni sussumibili nell'articolo 73 comma 1 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 -si da giustificare, in sede esecutiva, un abbattimento automatico di tutte le pene in misura di due anni-, ma con riferimento unicamente a quelle situazioni di confine fra le due fattispecie di reato, nel quadro del finalismo rieducativo della pena e dell'istanza costituzionale di integrazione sociale.
Anche le sentenze di applicazione della pena su richiesta exart. 444 ss. c.p.p., emesse muovendo da una cifra edittale illegittima e passate in giudicato, potranno essere rideterminate dal giudice dell'esecuzione, tramite un'applicazione analogica dell'art. 188 disp. att. c.p.p (Cass. pen., Sez. Unite., 26 febbraio 2015,n. 37107, Marcon. In dottrina BANDINI, 203 ss.).
Resta naturalmente fermo lo sbarramento processuale a qualsiasi ri-valutazione del fatto o alla sua ri-qualificazione giuridica.
In definitiva, dal punto di vista esecutivo, varranno i principi di diritto già ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, ovvero:
a) è possibile rimettere in discussione le pene irrogate con sentenze di condanna passate in giudicato, in quanto determinate muovendo da una cornice edittale dichiarata incostituzionale (come riconosciuto da Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 37107, Marcon; Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 33040, Jazouli e, prima ancora, da Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858, pm in proc. Gatto);
b) è possibile rimettere in discussione anche le sentenze di applicazione pena passate in giudicato, eventualmente dando applicazione analogica al dettato dell'art. 188 disp. att. cpp (come riconosciuto da Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 37107, Marcon);
c) è possibile – in caso di sentenza di applicazione pena non ancora irrevocabile – per la Corte di cassazione rilevare la nullità dell'accordo sulla pena concordata muovendo dalla cornice edittale dichiarata costituzionalmente illegittima, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza (Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2015 n. 33040, Jazouli).
Applicando quest'ultimo principio, una recentissima sentenza della Suprema Corte (Sez. Unite 16790/2019) ha rilevato d'ufficio l'illegalità della pena applicata all'imputato per effetto della sentenza n. 40 del 2019 della Corte costituzionale.
Il Giudice di primo grado aveva ratificato l'accordo delle parti sulla base della disciplina sanzionatoria precedente, essendo stata pronunciata la sentenza in data 17/07/2018 e il reato commesso il 10/01/2018.
Era stata altresì applicata la misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato.
L'accordo concluso tra le parti e ratificato dal giudice, in epoca precedente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 73 comma 1 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella misura del minimo edittale ora prevista in anni sei di reclusione, comporta l'applicazione di una pena illegale, di talché va annullata senza rinvio la relativa sentenza di patteggiamento, con trasmissione degli atti al GIP, il quale, «qualora le parti giungano a nuovo accordo sulla pena, dovrà dare congrua motivazione anche sui presupposti per l'applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, sia sotto il profilo della valutazione in concreto della pericolosità sociale, per effetto della pronuncia n. 58 del 1995 della Corte Costituzionalen. 58 del 1995 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui, secondo la sua originaria versione, prevedeva l'automatismo della espulsione senza che fosse necessario il preventivo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, sia sotto il profilo della compatibilità dell'espulsione con i principi* sovranazionali. Segnatamente l'espulsione ex art. 86 d.P.R. cit. deve soggiacere ad un giudizio di compatibilità con i principi stabiliti dall'art. 8 Cedu, secondo cui l'espulsione - pur essendo espressione del potere di sovranità dello Stato - non deve comunque provocare ingiustificate ingerenze nella vita privata e famigliare, e dell'art. 3 Cedu secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura, nè a pene o trattamenti inumani o degradanti».
Rileva sotto tale ultimo spetto la pronuncia «che le Sezioni Unite (Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015 - dep. 25/11/2015, Della Fazia, Rv. 265111) hanno stabilito il principio che alla applicazione della nuova normativa nei processi in corso, in quanto più favorevole, non sia di ostacolo l'inammissibilità del ricorso trattandosi di questione che deve essere rilevata di ufficio ex art. 609 cod.proc.pen. Principi validi anche per effetto della pronuncia di incostituzionalità dell'art. 73 comma 1 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309».
Guida all'approfondimento
BANDINI, Le condotte punite dall'art. 73 D.P.R. 309/1990. Le aggravanti e le attenuanti, Aa.Vv., I reati in materia di sostanze stupefacenti (e criminalità organizzata), L. Della Ragione-G. Insolera- G. Spangher (a cura di), Milano, 179 ss., 194 ss.;
M. BRANCACCIO, Stupefacenti (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., Agg. X, 2018, 797 ss.;
Stallone, Le condotte punite dall'art. 73 D.P.R. 309/1990. Le aggravanti e le attenuanti, in in Aa.Vv., I reati in materia di sostanze stupefacenti (e criminalità organizzata), L. Della Ragione-G. Insolera- G. Spangher (a cura di), Milano, 2019,281 ss.
GAMBARDELLA, Norme incostituzionali e nuovo sistema di stupefacenti, Roma, 2017 37-58;
P. INSOLERA, Reati in materia di stupefacenti e dialogo tra le corti, in Aa.Vv., I reati in materia di sostanze stupefacenti (e criminalità organizzata), L. Della Ragione-G. Insolera- G. Spangher (a cura di), Milano, 2019, 89 ss., 124 ss.;
Su Corte cost. 23 gennaio 2019 (dep. 8 marzo 2019), n. 40
BRAY, Stupefacenti: la Corte costituzionale dichiara sproporzionata la pena minima di otto anni di reclusione per i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le droghe pesanti, in Dir. pen. cont., 18 marzo 2019.
V. NATALE, Quando la legalità costituzionale non può (più) attendere, in www.questionegiustizia.it, 11 marzo 2019;
P. INSOLERA, Sproporzionata ed illegittima per violazione degli art. 3 e 27 Cost. la pena minima di otto anni di reclusione prevista dall'art. 73, c. 1, d.p.R. n. 309/1990 per le condotte non lievi relative a cd. droghe pesanti, in corso di pubblicazione, 1 ss. del dattiloscritto;
PASSIONE, La fine è ignota. Un commento alla sentenza n. 40/2019 della Corte Costituzionale, in giurisprudenzapenale.com, 13 marzo 2019.
Sull'ordinanza di rimessione (Corte di appello di Trieste, ord. 6 marzo 2017)
BARTOLI, La Corte costituzionale al bivio tra “rime obbligate” e discrezionalità? Prospettabile una terza via, in Dir. pen. cont. Riv. trim., 2019, 2, 139 ss.
Su Corte costituzionale, sent. 10 novembre 2016 (ud. 21 settembre 2016), n. 236:
F. VIGANÒ, Un'importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in dir. pen. cont., 14 novembre 2016;
P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2017, 1, 176 ss.;
MANES, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, 6, 2105 ss.;
PULITANÒ, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, in Dir. pen. cont. Riv. trim., 2017, 2, 48 ss.
Su Corte costituzionale, sent. 5 dicembre 2018 (ud. 25 settembre 2018), n. 222:
P. INSOLERA, Oltre le “rime costituzionali obbligate”: la Corte ridisegna i limiti del sindacato sulla misura delle pene, in Giur. comm., 2019, in corso di pubblicazione
Su Corte costituzionale, sent. 7dicembre 2018 (ud. 7 novembre 2018), n. 233:
P. INSOLERA, Legittima la pena pecuniaria proporzionale per il delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, in Monitore della giurisprudenza costituzionale, 1/2019
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Sommario
I profili pratici: l'applicazione ai processi in corso e la a rideterminazione delle “pene illegali”