Violenza domestica. La Corte costituzionale rimedia a una grave incoerenza di disciplina e rafforza la tutela della vittima
28 Gennaio 2019
Massima
Deve ritenersi costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost. – sia sotto il profilo dell'uguaglianza che della ragionevolezza – il disposto dell'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000, nella parte in cui non esclude dai delitti (consumati o tentati) di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie lievissime, previsto dall'art. 582, comma 2, c.p., per fatti commessi contro l'ascendente o il discendente (ivi incluso il figlio naturale) di cui al numero 1) del primo comma dell'art. 577 c.p.. In via consequenziale, deve – altresì – riconoscersi l'illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui non esclude dai delitti (consumati o tentati) di competenza del giudice onorario anche quello di lesioni volontarie lievissime, previsto dall'art. 582, comma 2, c.p. per fatti commessi contro gli altri soggetti elencati al numero 1) del primo comma dell'art. 577 c.p. come novellato dalla l. 4/2018, ossia: «il coniuge, anche legalmente separato, l'altra parte dell'unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente». Il caso
Con ordinanza del 7 marzo 2017 (iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2017), Il Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Teramo sollevava, in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. 274/2000 (disciplinante la competenza del Giudice di pace) come modificato dall'art. 2, comma 4-bis, del d.l. 93/2013 (convertito, con modificazioni, nella l. 119/2013), nella parte in cui per il delitto previsto dall'art. 582 c.p. – e, nello specifico, nelle ipotesi di lesioni lievissime di cui al secondo comma, perseguibili a querela di parte – non esclude la competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi del 577, comma 1, nr. 1) c.p., commessi contro il discendente e segnatamente, come nel caso oggetto di giudizio, nei confronti del figlio naturale (da ritenersi tale quello nato sia in costanza di matrimonio sia al di fuori), così come invece previsto per i fatti commessi contro il discendente adottivo. Nella fattispecie, all'udienza camerale fissata ai sensi degli artt. 409, comma 2, e 411 c.p.p., il Gip remittente era chiamato a pronunciarsi in ordine al reato di lesioni volontarie di un genitore ai danni del figlio naturale con durata della malattia non superiore a giorni venti; fattispecie rientrante, quindi, nella previsione del secondo comma dell'art. 582 c.p., aggravato ai sensi dell'art. 585, comma 1, c.p. per la sussistenza della circostanza aggravante prevista dal primo comma, n. 1), dell'art. 577 c.p., in quanto fatto commesso in danno del discendente. Verificata la condizione di procedibilità per avere la persona offesa tempestivamente proposto atto di querela, il Giudicante constatava preliminarmente, ai sensi dell'art. 22 c.p.p., che in considerazione dell'imputazione suddetta la competenza a pronunciarsi sarebbe spettata al giudice di pace, in virtù del disposto dell'art. 4, comma 1, d.lgs. 274/2000. Pertanto, sollevava questione di legittimità costituzionale di siffatto articolo nei termini di seguito indicati. Avuto riguardo al reato di lesioni volontarie lievissime (ex art. 582, comma 2, c.p.), il remittente lamentava l'irragionevole previsione di un diverso criterio di attribuzione della competenza per materia tra giudice di pace e tribunale ordinario, in base al fatto che la parte offesa dal reato fosse il figlio naturale piuttosto che il figlio adottivo, con conseguente violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. E invero, la modifica dell'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000 a opera della legge di conversione n. 119/2013, già citata, ha comportato che ‘soltanto' le condotte consumate dal genitore nei confronti del figlio adottivo, ab origine di competenza del giudice di pace, sono state attribuite alla competenza del Tribunale ordinario, così escludendo di fatto le condotte consumate in danno del figlio naturale (ipotesi disciplinata dal primo comma, n. 1, dell'art. 577 c.p.), pur trattandosi di fattispecie evidentemente connotate dal medesimo disvalore sociale e ispirate ad una ratio punitiva sovrapponibile. Ciò ha comportato irragionevoli disparità (anche) in tema di misure cautelari. In virtù di quanto disposto dall'articolo censurato, difatti, nel caso in cui le lesioni personali lievissime sono commesse in danno del figlio adottivo, la fattispecie rientra tra quelle di cui all'art. 282-bis, comma 6, c.p.p., per cui – sussistendone i presupposti – sarebbe consentita l'applicazione della misura dell'allontanamento dalla casa familiare, anche al di fuori dei limiti di pena di cui all'art. 280 c.p.p.; per converso, nei casi in cui la medesima condotta è commessa in danno di un discendente, qual è il figlio naturale, sussistendo la competenza del giudice di pace risulta esclusa a priori l'applicabilità della citata misura cautelare, in ragione dell'art. 2, comma 1, lett. c), del d.lgs. 274/2000. Peraltro, il giudice remittente non mancava di evidenziare l'impossibilità di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata per l'insuperabile chiarezza letterale della stessa. Ancora, la denunciata disparità di attribuzione della competenza – continuava il Gip teramano – integrerebbe una violazione anche dell'art. 24 Cost., determinando un pregiudizio per l'indagato stante l'impossibilità per il giudice onorario di adottare un provvedimento di archiviazione ai sensi degli artt. 411-bis c.p.p. 131-bis c.p., per difetto di punibilità in ragione della particolare tenuità del fatto. In effetti, in punto di rilevanza della questione sollevata, il giudicante specificava che all'udienza camerale fissata ai sensi dell'art. 409, comma 2, c.p.p., il difensore dell'indagato richiedeva l'archiviazione del procedimento, in via principale, per l'infondatezza della notizia di reato e, in via subordinata, per il riconoscimento della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p. Il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato dall'Avvocatura dello Stato interveniva nell'instaurato giudizio di legittimità costituzionale richiedendo alla Corte di dichiarare l'inammissibilità o comunque di rigettare le questioni sollevate, sostanzialmente deducendo che l'impossibilità di applicare l'istituto di cui all'art. 131-bis c.p. non costituirebbe una questione direttamente rilevante ai fini della decisione del processo nel corso del quale è stata sollevata, difettando quindi il requisito della pregiudizialità. Tanto più che – prosegue l'Avvocatura Generale – il giudice remittente avrebbe omesso di confrontarsi con quella parte della giurisprudenza, seppure minoritaria, che consente l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. anche nei procedimenti dinanzi al Giudice di pace. La Corte costituzionale rigettando preliminarmente l'eccezione di inammissibilità formulata dall'Avvocatura dello Stato, rilevava anzitutto che il dubbio di legittimità costituzionale sollevato involge proprio una disposizione che il giudice per le indagini preliminari avrebbe dovuto applicare nel caso concreto e che, pertanto, aveva censurato nella parte in cui non prevedeva la competenza per materia del tribunale ordinario. Evidenziava, altresì, che la norma di cui all'art. 577 c.p., al cui secondo comma fa richiamo la disposizione attributiva della competenza oggetto di giudizio di costituzionalità, è stata recentemente estesa ad opera della l. 4 del 2018 con l'inclusione di altre ipotesi e segnatamente: a) al n. 1) del primo comma dopo la parola “discendente” sono state aggiunte le seguenti: «o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile o la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente»; b) al secondo comma, dopo la parola “il coniuge” sono state inserite le seguenti: “divorziato, l'altra parte dell'unione civile, ove cessata”. Sicché, dopo una approfondita analisi del quadro normativo e sistematico in cui si inserisce il sollevato dubbio di legittimità costituzionale, la Corte concludeva dichiarando:
La questione
In un sistema ispirato alla piena equiparazione della tutela giurisdizionale riservata ai figli adottivi e naturali, la pronuncia costituzionale in commento ha rimosso la grave distonia determinata dall'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000 con la previsione di un diverso criterio attributivo della competenza per il delitto (tentato o consumato) di lesioni volontarie lievissime in base allo status del figlio (adottivo o naturale) quale persona offesa dal reato. L'irragionevole disparità di disciplina in danno del figlio naturale, rilevante ai sensi dell'art. 3 della Carta costituzionale, dispiega i propri effetti anche nell'ambito della vicenda cautelare, impedendo – di fatto – l'applicazione della misura cautelare di cui all'art. 282-bis c.p.p. alle condotte di lesioni lievissime ai danni del figlio naturale, essendo al giudice di pace interdetta l'applicazione di misure cautelari personali. La pronuncia della Corte costituzionale, dunque, rimuovendo l'incoerente criterio di competenza differenziata in relazione al reato di lesioni lievissime in danno del figlio naturale, di cui all'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000, e parificandola “in alto” ossia nella competenza del tribunale ordinario, ha conseguentemente esteso l'applicabilità della misura dell'allontanamento dalla casa familiare anche alla fattispecie di reato oggetto di giudizio. Le soluzioni giuridiche
Nel merito, la Corte costituzionale ha reputato fondata la questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari di Teramo in riferimento all'art. 3, comma 1, della Costituzione, con conseguente assorbimento dell'ulteriore censura di violazione dell'art. 24 Cost. Invero, i plurimi rinvii e richiami formali che caratterizzano le disposizioni interessate dalla sollevata questione di legittimità costituzionale impongono preliminarmente un rapido excursus che dia conto delle modifiche intervenute sino al quadro normativo attuale. Inizialmente l'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000 includeva nel catalogo di reati attribuiti alla competenza per materia del giudice di pace – in deroga a quella del Tribunale ordinario – il reato di lesioni volontarie lievissime (di cui all'art. 582, secondo comma, c.p.), ossia quelle che comportano una malattia non superiore nella durata a venti giorni, se perseguibili a querela (quindi, in assenza delle aggravanti di cui all'art. 583 c.p., che prevede l'ipotesi di lesioni gravi e gravissime, e di cui all'art. 585 c.p., che oltre a particolari modalità della condotta richiama le circostanze aggravanti dell'omicidio volontario, ai sensi degli artt. 576 e 577 c.p.). Da ciò conseguiva che quanto al reato di lesioni volontarie la competenza del giudice di pace era determinata dai seguenti criteri: a) la durata della malattia non superiore a giorni venti; b) la perseguibilità a querela in assenza delle aggravanti suddette, ma con esclusione di quelle indicate dal numero 1) e nell'ultima parte dell'art. 577 c.p.. Sicché, in sostanza, se le lesioni volontarie lievissime erano commesse in danno dell'ascendente o del discendente (numero 1 del primo comma dell'art. 577 c.p.), ovvero se il fatto era commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (secondo comma dell'art. 577 c.p.), la competenza era comunque attribuita al Giudice di pace. Prima della modifica legislativa introdotta dalla l. 119 del 2013 (di conversione del d.l. 93/2013), dunque, le fattispecie di lesioni volontarie non superiori a venti giorni nei confronti del figlio naturale e del figlio adottivo avevano un medesimo trattamento sostanziale (ricorrendo la circostanza aggravante) e processuale (quanto alla disciplina della competenza per materia). Ora, come è noto, il citato decreto l. 93/2013 ha realizzato un complesso intervento normativo di repressione del fenomeno della violenza di genere, rafforzando la tutela delle vittime in particolare nei contesti familiari o comunque affettivi. Inter alia – per ciò che qui più interessa, il legislatore ha modificato la misura dell'allontanamento dalla casa familiare inserendo nel comma 6 dell'art. 282-bis c.p.p. anche il reato previsto dall'art. 582 c.p., limitatamente alle ipotesi procedibili di ufficio o comunque aggravate. L'apprezzabile finalità di contrastare più incisivamente la violenza di genere, tuttavia, risultava ‘solo' parzialmente conseguita con siffatto intervento, in quanto – come anticipato – la competenza per materia per le lesioni volontarie lievissime perseguibili a querela era ancora attribuita al giudice di pace, a cui è vietata l'applicazione delle misure cautelari personali (ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. c), del d.lgs. 274/2000). Siffatta anomalia veniva immediatamente segnalata sia dal Consiglio Superiore della Magistratura (parere del 10 ottobre 2013 sul D.L. n. 93 del 2013), sia in sede di audizioni in Parlamento in occasione della Legge di conversione (v. Atto Camera, Commissioni riunite I e II, seduta del 10 settembre 2013). Pertanto, in una ottica di efficace azione di contrasto della violenza di genere, il Legislatore condivideva la necessità di modificare la regola sulla competenza per materia, intervenendo sull'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000. In tal modo l'intervento normativo del 2013 elevava il livello di repressione della violenza domestica con una serie di misure di contrasto e, in particolare, quanto alle lesioni volontarie lievissime di cui all'art. 582, comma 2, c.p., con il trasferimento della competenza al tribunale ordinario, così consentendo l'applicazione della misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare ed escludendo, altresì, il complessivo regime di favore relativo alle sanzioni applicabili dal giudice onorario, ai sensi del Titolo II del d.lgs.. n. 274/2000. Come emerge chiaramente dai lavori parlamentari, la ratio della nuova normativa – pienamente condivisibile – era quella di attribuire maggiore rilevanza anche a quelle condotte di minor gravità spesso sintomatiche di contesti di prevaricazione e violenza con azioni connotate da abitualità (c.d. comportamenti “spia”). Epperò tale ratio risultava frustrata dalla parzialità della modifica normativa realizzata in sede di legge di conversione del d.l. 93/2013. Il Legislatore del 2013, difatti, nel modificare il catalogo di reati attribuiti alla competenza del Giudice onorario, interveniva sull'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000 escludendo la competenza ‘soltanto' in relazione al reato di lesioni lievissime commesso «in danno dei soggetti elencati dall'art. 577, secondo comma», c.p. In tal modo non includeva nella modifica legislativa – inspiegabilmente – il delitto di lesioni volontarie lievissime commesso in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell'art. 577 c.p., tra cui appunto il figlio naturale. Chiarito il ‘tortuoso' quadro normativo in cui si colloca la questione sollevata, la Corte Costituzionale – come anticipato – ha rilevato la violazione dell'art. 3, comma 1, Cost. sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, ha ritenuto violato il principio di eguaglianza non trovando giustificazione il diverso trattamento processuale riservato al reato di lesioni volontarie lievissime secondo che il fatto sia commesso in danno del figlio naturale o del figlio adottivo ed evidenziandosi – anzi – il carattere discriminatorio della differenziazione. In effetti, sotto il profilo civilistico vi è una piena assimilazione di stato tra figlio naturale e figlio adottivo, come desumibile dai seguenti riferimenti normativi: - già l'art. 27 della l. 184/1983 prevedeva che per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. E, più recentemente, a seguito del d.lgs. 154/2013 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, ex art. 2 della l. 219/2012) è stata completata la parificazione; - l'art. 74 c.c. (come novellato dalla l. 219/2012 sopracitata) prevede che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo (salvo nei casi di adozione di persone maggiori di età, ai sensi degli artt. 219 ss. c.c.); - ancora, l'art. 315 c.c., modificato sempre dalla L. 219/2012, ha ridefinito la condizione della filiazione prevedendo in generale che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, così ponendo «le basi per la piena equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l'unicità dello status di figlio»(così Corte cost., sentenza n. 286/2016). Parimenti sotto il profilo penalistico sostanziale si riscontra un medesimo trattamento sanzionatorio per i fatti in danno del figlio naturale e del figlio adottivo, salvo che per l'omicidio, come si avrà modo di approfondire oltre. Per vero, già il reato di lesioni volontarie è allo stesso modo e nella stessa misura aggravato se il fatto è commesso sia in danno del figlio naturale sia in danno del figlio adottivo (ai sensi dell'art. 585 c.p. che stabilisce un aumento di pena fino ad un terzo se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall'art. 577 c.p., richiamato nella sua integralità). Analogamente l'art. 602-ter c.p. prevede che opera nella stessa misura l'aggravante se il fatto è commesso da un ascendente o dal genitore adottivo in relazione ai reati di prostituzione minorile e di pornografia minorile, nonché ai reati previsti dagli artt. 600, 601 e 602 c.p.. Così come in materia di violenza sessuale (artt. 609-ter e 609-quater c.p.) e di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.) costituisce circostanza aggravante il fatto commesso dal genitore “anche adottivo”.
Ne deriva il carattere discriminatorio della diversa regola processuale di competenza per materia prevista per il figlio naturale rispetto a quella stabilita per il figlio adottivo, talché deve ritenersi violato, in via generale, il principio di uguaglianza, avendo essi il medesimo stato giuridico, così come è indubitabile che sia per i figli di genere diverso.
Dall'altro lato, risulta violato anche il principio di ragionevolezza. Va premesso che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, nella disciplina del processo in generale e, segnatamente, del processo penale il legislatore ha ampia discrezionalità, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza delle scelte compiute. Peraltro, certamente non rientra nei compiti della Corte costituzionale procedere ad aggiustamenti delle norme processuali per mere esigenze di coerenza sistematica e simmetria. Tuttavia, anche in riferimento a scelte delle regole di rito – come è, in particolare, la regola di competenza per i reati attribuiti alla cognizione del Giudice di pace, in deroga a quella del Tribunale ordinario – può sussistere un vizio di irragionevolezza, quale intrinseco difetto di coerenza. Il vaglio di non manifesta ragionevolezza impone, allora, alla Corte Costituzionale «di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 1/2014). Ora, sotto questo profilo, deve evidenziarsi che nel nostro ordinamento è eccezionalmente previsto un trattamento differenziato tra figlio adottivo e figlio naturale proprio dall'art. 577 c.p. nel disciplinare le circostanze aggravanti del reato di omicidio volontario. Ciò significa, che ad oggi nel nostro sistema risulta – discutibilmente, ad avviso della Corte Costituzionale – più grave l'omicidio del figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo; ciò evidentemente sul presupposto della “consanguineità” (come discrimen tra discendente e figlio adottivo) quale precipitato di concezioni antiche. A fronte di tale previsione, la disposizione censurata attribuisce – all'opposto – minor disvalore alla condotta di lesioni lievissime in danno del figlio naturale rispetto a quella in danno del figlio adottivo, così rivelando una marcata connotazione di irragionevolezza. Tanto più ove si consideri che nei lavori parlamentari e nella complessiva lettura della L. n. 119/2013 (già citata), unitamente al convertito decreto legge, non si rinviene alcuna ragione di siffatto trattamento differenziato. Ne consegue la manifesta irragionevolezza dell'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000 che, invertendo l'apprezzamento di disvalore delle condotte ancora oggi sussistente nel sistema, utilizza non di meno il richiamo all'art. 577 c.p., cui è sottesa una ratio opposta della differenziazione tra “discendente” e “figlio adottivo”. Sicché, conclude la Corte, il trattamento differenziato riservato in materia di competenza al figlio naturale rispetto al figlio adottivo viola anche il principio di ragionevolezza, di cui all'art. 3 Cost. Accertata la violazione del principio di eguaglianza e la manifesta irragionevolezza della differenziazione della regola di competenza, nonché considerata la ratio dell'intervento riformatore del 2013 – volto ad un efficace contrasto contro la violenza domestica –, deve riconoscersi che la violazione dell'art. 3 Cost. si concretizza proprio nella mancata inclusione del delitto (consumato o tentato) di lesioni volontarie lievissime ai danni del figlio naturale tra quelli che eccettuano dalla competenza del giudice onoraio, ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 274/2000. La parificazione di disciplina, dunque, non può che realizzarsi che “in alto” – in coerenza, peraltro, con il petitum dell'ordinanza del giudice remittente –, ovvero estendendo la stessa regola di competenza per materia (da attribuirsi, quindi, al Tribunale ordinario) alle condotte di lesioni volontarie lievissime a prescindere dallo status (naturale o adottivo) del figlio, quale persona offesa dal reato, in linea con il più elevato livello di contrasto della violenza domestica. In tal modo si estende, conseguentemente, la possibilità di applicare la misura cautelare di cui all'art. 282-bis c.p.p., adottabile anche in via d'urgenza (ai sensi dell'art. 384-bis c.p.p.) alla fattispecie oggetto di giudizio. Ciò detto, a fini di completezza, la pronuncia in commento ha avvertito la necessità di precisare la legittimità di tale parificazione di disciplina “in alto” sebbene da ciò consegua un irrigidimento della disciplina sostanziale, non trovando più applicazione per il reato di lesioni lievissime in danno del figlio naturale il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dal Titolo II del d.lgs.274/2000. In effetti, non risulta compromesso il principio della riserva di legge in materia penale atteso che «l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria» (v. Corte cost. sentenza n. 394 del 2006). Tali principi hanno imposto alla Corte di operare le ulteriori, seguenti, precisazioni: - stante la natura peggiorativa dell'intervento sul piano della disciplina sostanziale, per i fatti commessi sino al giorno della pubblicazione della sentenza in commento sulla Gazzetta Ufficiale opera il principio della non retroattività, ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost. che prevale sull'ordinaria efficacia ex tunc delle decisioni della Corte (ai sensi dell'art. 136 Cost. e dell'art. 30, comma 3, della l. 87/1953). Sicché, nelle ipotesi di lesioni volontarie lievissime il Tribunale ordinario competente dovrà applicare, in caso di condanna, il più benevolo trattamento sanzionatorio di cui al Titolo II del d.lgs. 274/2000 (così come previsto dall'art. 63 del medesimo decreto legislativo nei casi in cui il tribunale si trovi a giudicare un reato di competenza del Giudice onorario); - per converso, l'effetto in bonam partem derivante dalla sentenza costituzionale – ovvero, la possibilità, ove ricorra un caso di lieve entità, di applicare la causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p.p., piuttosto che la causa di non procedibilità prevista dall'art. 34 del d.lgs. n. 274/2000 – deve ritenersi, in quanto tale, di immeditata operatività. In definitiva, dunque, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 27472000 nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del Giudice di pace anche quello di lesioni volontarie lievissime, previste dall'art. 582, secondo comma, c.p. per fatti commessi contro l'ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo comma dell'art. 577 c.p. Ha dichiarato assorbita, invece, l'ulteriore censura mossa dal Giudice remittente con riferimento all'art. 24 Cost. La Corte, infine, ha preso in esame la novellazione delle aggravanti del reato di omicidio realizzata dalla l. 4/2018, in ragione del meccanismo del rinvio formale contenuto nella disposizione censurata all'art. 577, comma 2, c.p. Il Legislatore del 2018 ha inteso contrastare ulteriormente fatti di violenza estrema sfociati in episodi di omicidio volontario soprattutto di donne estendendo l'aggravante dell'art. 577 c.p. nei seguenti termini:
In sostanza, il Legislatore nella sua discrezionalità, ha ritenuto di sanzionare più gravemente l'omicidio del coniuge, anche se separato, rispetto a quello del coniuge divorziato; e analogamente più grave quello della parte di un'unione civile in corso rispetto a quello di un'unione civile cessata. Quanto al reato di lesioni, la riforma in oggetto ripete la medesima incoerenza di disciplina già rivelata in relazione al figlio naturale e adottivo: infatti, sotto l'aspetto sanzionatorio, le lesioni volontarie lievissime risultano aggravante nella stessa misura (considerato che l'art. 585 c.p. richiama l'art. 577 c.p. senza operare distinguo tra il primo e il secondo comma) se commesse in danno del coniuge o della parte dell'unione civile, a prescindere dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio o dell'unione civile; per contro, sotto l'aspetto processuale, stante il rinvio ‘solo' parziale all'art. 577 c.p. operato dall'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 274/2000 la fattispecie di lesioni lievissime in danno del coniuge, anche se separato, o della parte dell'unione civile risulta di competenza del Giudice onorario, con conseguente impossibilità di applicazione di misure cautelari quali l'allontanamento dalla casa familiare per le ragioni già esposte. Pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non richiama (e, quindi, non esclude) anche i fatti di lesioni volontarie lievissime in danno dei soggetti indicati nel numero 1) dell'art. 577 c.p. deve essere estesa alla formulazione vigente di quest'ultimo articolo al momento dell'ordinanza di rimessione, ovvero alla formulazione oggetto dell'intervento novellatore n. 4 del 2018. Osservazioni
La pronuncia costituzionale ha rimosso una inspiegabile – quanto ‘imbarazzante' – disparità di disciplina in tema di competenza per materia per il reato di lesioni lievissime in danno del figlio naturale piuttosto che del figlio adottivo, determinata dall'art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 274/2000, equiparandola ‘verso l'alto', ovvero attribuendo la competenza anche per le condotte poste in essere nei confronti del figlio naturale al Tribunale ordinario. L'intervento giurisprudenziale consente di completare, da questo punto di vista, l'intento perseguito dal legislatore del 2013 (l. 119/2013 di conversione, con modifiche, del d.l. 93/2013), il quale – nell'introdurre una serie di modifiche ispirate tutte al elevare il livello di repressione della violenza domestica – aveva correttamente appuntato l'attenzione sui cd. ‘comportamenti spia' di violenze più gravi e abituali (tra cui rientra, appunto, la condotta di lesioni volontarie con una malattia inferiore a giorni venti), modificando, però, solo parzialmente l'articolo oggetto di dubbio di legittimità costituzionale. Per vero, la differenziazione di disciplina non ha trovato alcuna giustificazione (né nei lavori parlamentari, né in una lettura complessiva della novella legislativa), palesando – anzi – la contrarietà rispetto alla ratio sottesa alla disciplina delle circostanze aggravanti, ex art. 577 c.p., per il reato di omicidio volontario (in relazione al quale, come visto, è più grave il fatto commesso in danno del figlio naturale piuttosto che del figlio adottivo). Ciò induce a ritenere che si sia trattato di una mera ‘svista' del legislatore del 2013, indubbiamente grave in quanto destinata ad avere – inter alia – degli immediati effetti preclusivi in tema di misure cautelari. La pronuncia n. 236/2018, dunque, ha certamente realizzato un rafforzamento della tutela delle vittime di violenza domestica, rendendo possibile l'allontanamento dalla casa familiare in via cautelare anche per il reato di lesioni volontarie lievissime, consumate o tentate, in danno del figlio naturale, con effetto estensivo rispetto ad ulteriori soggetti, quali più in generale gli ascendenti e discendenti, nonché quali il coniuge, anche se separato o divorziato, l'altra parte dell'unione civile, ancorché cessata, la persona legata al colpevole da un rapporto affettivo e con lui convivente in modo stabile. Da un lato, quindi, la Corte costituzionale ha provveduto alla opportuna eliminazione della previsione di un discriminatorio ed irragionevole regime differenziato in tema di competenza per materia in relazione al delitto di cui all'art. 582, comma 2, c.p., dall'altro, ha offerto l'occasione per talune brevi considerazioni:
In definitiva, alla luce di tali sintetiche riflessioni, si palesano due necessità improcrastinabili in tema di contrasto alla violenza domestica e, in generale, di effettiva tutela delle vittime particolarmente vulnerabili: l'urgenza di una maggiore e più diffusa specializzazione di tutti gli operatori del diritto e lo sforzo legislativo di realizzare interventi normativi dotati di apprezzabile sistematicità. |