L'insussistenza del posto segnalato dal lavoratore licenziato costituisce elemento presuntivo dell'impossibilità del repêchage
09 Gennaio 2019
Massima
In caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, pur non essendo il lavoratore licenziato tenuto ad indicare altre posizioni lavorative disponibili esistenti in azienda al momento del recesso, laddove, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell'impresa, questi non di meno indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata, nel riferito contesto, dal giudice al fine di escludere la possibilità di repêchage. Il caso
La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, respinta all'esito dei due gradi di merito, sul presupposto, da un lato, della accertata sussistenza di una grave crisi economica ed organizzativa dell'impresa, e, dall'altro, della impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore nell'organico aziendale in posizioni lavorative compatibili con la sua professionalità, desunta implicitamente dalla insussistenza dei posti di lavoro alternativi che il lavoratore, pur senza esservi tenuto, aveva segnalato come disponibili. La questione
La questione da esaminare è accertare se, nella verifica circa la sussistenza della impossibilità del repêchage, possa riconoscersi un ruolo, sia pur a livello implicito e di prova presuntiva, alla segnalazione proveniente dal lavoratore, rivelatasi infondata, circa la sussistenza di posizioni lavorative alternative disponibili e compatibili con la sua professionalità.
In particolar modo, il problema da risolvere è se, una volta che siano risultate insussistenti le possibilità di repêchage indicate dal lavoratore, possa implicitamente presumersi, ed in che limiti, che il lavoratore non sia altrimenti utilizzabile in azienda. Le soluzioni giuridiche
Come è noto, gli estremi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non devono intendersi limitati alla soppressione in sé di un posto di lavoro per le ragioni di cui all'art. 3, l. n. 604 del 1966, ma devono estendersi anche all'assolvimento, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di repêchage ed al rispetto dei criteri di correttezza e buona fede nell'individuazione in concreto del lavoratore da licenziare (v. Cass., sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 2712). In questa prospettiva, costituisce ius receptum che, in linea generale, se il licenziamento discende dalla soppressione di un ben individuato posto di lavoro (ad esempio, per la soppressione di un ufficio o di una mansione, della esternalizzazione di un settore produttivo ovvero della chiusura di una filiale o di un cantiere), il datore di lavoro è gravato, ex art.5, l. n. 604 del 1966, dell'onere “di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale” (Cass., sez. lav., 4 dicembre 2018, n. 31318; Cass., sez. lav., 2 maggio 2018, n. 10435). Si tratta, come è evidente, di un presupposto introdotto dalla giurisprudenza per rimarcare il carattere di extrema ratio del recesso, con la conseguenza che, in assenza di tale prova, il licenziamento è da ritenersi illegittimo per violazione dell'obbligo di repêchage.
L'impossibilità di ricollocare il dipendente comporta un onere della prova negativo a carico del datore di lavoro, per cui, nella elaborazione dottrinale giurisprudenziale in materia, è stato affermato che tale onere “va assolto mediante la dimostrazione dei correlativi fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o il fatto che dopo il licenziamento - e per un congruo periodo - non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica” (Cass. 29 marzo 1999, n. 3030; Cass. 27 novembre 1996, n. 10527).
Nell'applicazione concreta, la questione della distribuzione degli oneri allegatori e probatori tra le parti in materia di repêchage è risultata assai controversa ed ha suscitato soluzioni contrastanti in giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento, l'onere probatorio posto in capo al datore di lavoro andrebbe contenuto entro limiti di ragionevolezza e nell'ambito delle opposte deduzioni delle parti, prescindendo quindi da un rigido e prefissato schema di prova (Cass. 15 luglio 2002 n.10256). Pertanto, trattandosi di una prova negativa che non può risolversi in una prova impossibile e diabolica, graverebbe sul dipendente un onere di dedurre ed allegare circostanze di fatto atte a dimostrare l'esistenza nell'ambito della struttura organizzativa di posti di lavoro disponibili, per mansioni equivalenti e compatibili con la sua professionalità, cui possa essere utilmente adibito (Cass., sez. lav., 10 maggio 2016, n. 9467, in motivazione; Cass., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3040; Cass., sez. lav., 18 marzo 2010, n. 6559).
A tale orientamento se ne è contrapposto un altro (più recente), secondo cui, in materia di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, “il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell'allegazione dell'inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l'impossibilità di repechage)” (così Cass., sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592). In quest'ordine di concetti, gravano quindi sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e prova dell'impossibilità del repêchage, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, con conseguente esclusione al riguardo di oneri di deduzione in capo al lavoratore, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente (Cass., sez. lav., 22 novembre 2017, n. 27792; Cass., sez. lav., 19 aprile 2017, n. 9869; Cass., sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 160; Cass., sez. lav., 11 ottobre 2016, n. 20436). Il principio può dirsi ormai consolidato.
Osservazioni
La sentenza in commento si muove nel solco di quest'ultima ricostruzione sistematica, ribadendo che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, l. n. 604 del 1966, non è tenuto a segnalare le postazioni di lavoro – analoghe a quella soppressa e alla quale era adibito – cui essere utilmente ricollocato in alternativa al licenziamento.
La Suprema Corte, per la verità, si era proposta di assegnare un qualche significato, nella dinamica dei rispettivi oneri allegatori, alla condotta processuale del lavoratore. Una prima pronuncia che si era mossa in tal senso aveva infatti posto il principio secondo cui “sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del "repêchage", gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio” (Cass., sez. lav., 23 maggio 2018, n. 12794). Tale pronuncia, in buona sostanza, pur facendo propria la tesi della “indisgiungibilità” dei due piani (allegatorio e probatorio), mira a sanzionare la condotta del lavoratore che sia venuto meno ad una sorta di obbligo di cooperazione processuale nell'accertamento giudiziale delle concrete possibilità di repêchage.
La sentenza n. 30259 del 2018 (qui in disamina), pur muovendo dal medesimo intento di valorizzare la condotta processuale del lavoratore e di mitigare gli oneri di allegazione a carico del datore di lavoro, si pone invece su un piano diverso, ponendo il principio secondo cui, in un contesto di crisi economica ed organizzativa dell'impresa, se il lavoratore, pur non essendovi tenuto, abbia comunque proceduto alla indicazione di eventuali posti disponibili cui poter essere utilmente adibito, l'accertata insussistenza di questi ultimi integra un elemento presuntivo idoneo a fondare il convincimento del giudice nel senso di escludere la possibilità del repêchage.
Il novum della questione in disamina, quindi, non è tanto rappresentato dalla necessità di stabilire su chi incomba l'onere di allegare la sussistenza di eventuali possibilità di repêchage, quanto piuttosto di chiarire, una volta accertata la sussistenza di una situazione di crisi economica ed organizzativa dell'impresa, gli effetti che possono correlarsi, nella dialettica processuale tra le parti, all'accertata infondatezza della segnalazione che il lavoratore abbia comunque ritenuto di effettuare sulle possibilità alternative di sua utilizzazione in azienda.
Fissate tali coordinate ermeneutiche, la Corte di vertice ha ritenuto che, sia pur implicitamente e nell'ambito di un corretto uso della prova presuntiva, la possibilità di ricollocazione del lavoratore nell'organizzazione aziendale possa ragionevolmente essere esclusa, qualora neanche le posizioni lavorative alternative che egli stesso abbia curato di segnalare spontaneamente siano risultate sussistenti. Seguendo tale ragionamento, si viene quindi a determinare una sorta di alleggerimento dell'onere di allegazione posto a carico del datore di lavoro, atteso che, pur non avendo quest'ultimo dedotto in giudizio fatti positivi “idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale”, l'impossibilità del repêchage può essere comunque desunta implicitamente dal giudice sulla base della condotta processuale tenuta dal lavoratore licenziato, le cui allegazioni in punto di sua utilizzabilità alternativa nel contesto aziendale siano risultate non confermate all'esito dell'istruttoria.
Può apparire prima facie contraddittorio che, dopo che la Cassazione,con la sentenza n.12794 del 2018, aveva “sanzionato” la condotta processuale del lavoratore che non avesse offerto alcuna cooperazione processuale nell'accertamento giudiziale delle concrete possibilità di repêchage, la medesima Corte, con la sentenza n.30259 del 2018, utilizzi invece, quale elemento presuntivo a sfavore del lavoratore, una sua condotta processuale “virtuosa” ed improntata a collaborazione processuale, in quanto tesa ad agevolare il giudice nella ricerca delle concrete possibilità di sua utile ricollocazione in azienda. Ciò può tuttavia agevolmente spiegarsi con il fatto che il ragionamento della Suprema Corte nella sentenza in commento segue un differente percorso logico-argomentativo, teso a valorizzare la constatazione che, una volta che il lavoratore abbia delimitato il tema d'indagine su ben specifiche possibilità di sua utilizzazione alternativa, può ragionevolmente ritenersi superflua la verifica, da parte del giudice, di ulteriori possibilità di repêchage, su posizioni lavorative che lo stesso lavoratore abbia ritenuto di non dover segnalare ai fini del suo possibile reimpiego. In buona sostanza, con la sentenza in disamina la Cassazione non si muove sul piano della “sanzionabilità” della condotta processuale poco collaborativa del lavoratore licenziato, fornendo piuttosto un canone di interpretazione fondato su un differente ragionamento di ordine logico-giuridico, in base al quale l'accertata insussistenza dei posti alternativi segnalati dal lavoratore costituisce elemento idoneo a fondare una prova presuntiva dell'impossibilità del repêchage, senza che l'indagine debba estendersi su ulteriori posizioni lavorative disponibili in azienda.
Vi è da chiedersi, a questo punto, tenuto conto del principio posto da Cass. n. 12794 del 2018, se possa ancora esigersi dal lavoratore che impugni un licenziamento per giustificato motivo oggettivo una cooperazione processuale nell'accertamento di un possibile repêchage, essendo plausibile dubitare dell'esistenza di un concreto interesse del prestatore ad indicare le concrete possibilità di un suo diverso impiego in azienda, considerato che tale segnalazione potrebbe finire con il produrre effetti a lui sfavorevoli. Può tuttavia ritenersi che, quanto meno per i licenziamenti disciplinati dal sistema di graduazione delle tutele di cui all'art.18 St. (nel testo novellato dalla legge n. 92 del 2012), un tale interesse possa comunque riconnettersi all'esigenza del lavoratore licenziato di introdurre nel processo circostanze atte a persuadere il giudice della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, al fine di avere accesso alla tutela reintegratoria “attenuata” di cui al quarto comma dell'art.18 cit. (in luogo di quella indennitaria di cui al successivo quinto comma). Ciò, in particolare, tenuto conto della recente ricostruzione sistematica del giustificato motivo oggettivo come fattispecie comprendente non solo la ragione organizzativa che determina il licenziamento, ma anche la impossibilità di ricollocazione del lavoratore (Cass., sez. lav., 2 maggio 2018, n. 10435). Pertanto, considerato che il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento” può essere integrato non solo dalla insussistenza ictu oculi delle ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, ma anche da una evidente e facilmente verificabile possibilità di ricollocare il prestatore in mansioni alternative e compatibili con la sua professionalità, è verosimile che il lavoratore possa farsi comunque portatore di un concreto interesse a segnalare al giudice eventuali posti disponibili cui essere utilmente ricollocato in alternativa al licenziamento.
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