Tra concussione e induzione indebita sulla lunga scia delle Sezioni unite Maldera

30 Novembre 2018

Il confine tra concussione e induzione indebita continua a confermarsi uno dei temi irrisolti dopo lo “spacchettamento” realizzato dalla l. 190/2012, con la quale si è posto termine alla storica convivenza della condotta costrittiva e di quella induttiva nel contesto dell'allora unitaria disposizione dell'art. 317 c.p., incriminante la concussione. Oggi, quando, a fianco della tradizionale fattispecie...
Massima

Risponde di induzione indebita (nella specie tentata) e non di concussione, il pubblico ufficiale che pretenda dal soggetto passivo una somma sottobanco a fronte della minaccia di elevare una contestazione sulla base di una disposizione da ritenersi non più vigente, qualora non sia logicamente implausibile che il medesimo, al momento del fatto, ignorasse l'intervenuto mutamento del quadro normativo.

Il caso

Il confine tra concussione e induzione indebita continua a confermarsi uno dei temi irrisolti dopo lo “spacchettamento” realizzato dalla l. 190/2012, con la quale si è posto termine alla storica convivenza della condotta costrittiva e di quella induttiva nel contesto dell'allora unitaria disposizione dell'art. 317 c.p., incriminante la concussione. Oggi, quando, a fianco della tradizionale fattispecie della concussione, figura l'induzione indebita, la quale presuppone un certo qual coinvolgimento “attivo” del soggetto “passivo” nella realizzazione del proposito criminoso del pubblico ufficiale, la già di per sé problematica distinzione pratica fra le due condotte costrittiva ed induttiva si fa ancora più complicata persino sotto il profilo teorico, ineludibile ai fini della sussunzione del fatto-reato sotto l'una o l'altra delle due figure delittuose.

Lo dimostra una sentenza resa recentemente, in materia, da un autorevole collegio della VI Sezione penale della Suprema Corte di cassazione.

Oggetto del procedimento è il caso banale di un vigile urbano il quale, facendo leva su una disposizione di legge regionale dal medesimo data per vigente, ma in realtà indicata come non tale da una risoluzione ministeriale, minacciava di sanzione la proprietaria di un caffè che aveva occupato il suolo pubblico con un dehor, per poi proporle sottobanco un patto consistente nel versamento, a vantaggio del medesimo e non dell'Amministrazione, di una cifra ammontante alla metà della sanzione prevista, soprassedendo, in cambio, all'elevazione dell'illecito ed a nuovi vessatori controlli. Il versamento veniva quindi effettuato, ma con il controllo dei Carabinieri, sottoforma di divise false.

Quale il reato commesso dal vigile?

La questione relativa al discrimen tra costrizione ed induzione – secondo la S.C., in accoglimento del ricorso, involta nel caso di specie – pare meritevole di approfondimento speculativo, non solo al fine di un costante monitoraggio degli effetti della c.d. riforma Severino, ma anche al fine di una verifica sul campo delle possibili ricadute delle sedimentazioni giurisprudenziali sulla vita dell'ordinamento, sulla condotta dei pubblici ufficiali e, quindi, in definitiva, sui rapporti fra cittadinanza e PP.AA.

La questione

Il caso giungeva alla cognizione della Suprema Corte dopo una condanna a titolo di concussione del vigile urbano in primo grado, confermata in appello. L'imputato si affidava, in occasione del ricorso per cassazione, a quattro motivi di doglianza; i primi due sono quelli che si focalizzano sulla questione enucleata nell'introduzione.

Il primo verteva sull'inquadramento della reazione della proprietaria del caffè in rapporto alla sua stessa condotta ante factum. Veniva la medesima, nei primi due gradi di giudizio, riconosciuta come pura e semplice vittima di concussione. Ma versava ella effettivamente, oppure no, in una situazione che il pubblico ufficiale avrebbe avuto ben donde di considerare illecita, dal momento che l'originaria circolare interpretativa della legge regionale che riteneva la struttura del dehor ampliamento rilevante ai fini dell'illecito amministrativo era stata sostituita da due mesi dalla ricordata risoluzione ministeriale, la quale invece escludeva tale opificio dall'ambito di applicazione dell'illecito medesimo? I giudici di merito avevano dato peso alla risoluzione ministeriale, per l'effetto escludendo la sussistenza di un illecito amministrativo in capo alla proprietaria del caffè, non configurandosi più esso come tale al momento dell'intervento del vigile.

Il secondo motivo verteva sul fatto che detta proprietaria, nel ricevere la proposta del vigile, avrebbe, contrariamente a quanto deciso nei due gradi di merito, conservato una possibilità di autodeterminazione incompatibile con lo stato di sottoposizione a costrizione richiesto dalla fattispecie concussiva: tant'è che la medesima ha in effetti avuto anche il tempo di fingere l'adesione alla proposta illecita.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha ritenuto fondati gli anzidetti motivi di ricorso, giungendo all'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per la rideterminazione della pena in conseguenza della riqualificazione del fatto di reato da concussione consumata a (non induzione indebita ma) tentativo di induzione indebita.

Quale punto nodale del discrimen fra concussione ed induzione indebita, la Corte ha indicato – richiamandosi alle Sezioni unite Maldera (14 marzo 2014, n. 12228) – due elementi:

  1. la diversa intensità delle pressioni esercitate dal pubblico ufficiale sul privato;
  2. il conseguimento, da parte del soggetto passivo, di un vantaggio illecito.

Posta tale premessa, la Corte ha criticato il governo dei principi enunciati in Maldera operato segnatamente in secondo grado, rilevando, anzitutto, con riguardo alle pressioni rappresentate dalla minaccia di sanzione agitata dal vigile alla proprietaria del caffè, che la minaccia non era irresistibile e che la sanzione non presentava i caratteri della “radicale insussistenza”, essendo esistita in un passato molto prossimo alla commissione del fatto, talmente prossimo da rendere giustificabile l'ignoranza del vigile circa la sua attuale vigenza (si legge: «Vista la prossimità della risoluzione chiarificatrice del Ministero (del 14 agosto 2014) rispetto alla commissione del fatto (in data 20 ottobre 2014) e la tecnicità e problematicità della questione, non è logicamente implausibile che [Tizio] - nel momento in cui faceva firmare [a Caia] il c.d. talloncino di verifica della Segnalazione Certificata di Inizio di Attività (SCIA), le mostrava velocemente un verbale e le diceva che per le infrazioni commesse avrebbe dovuto pagare una contravvenzione di oltre 3.000 euro, appunto compatibile con la disciplina sanzionatoria della citata L.R. n. 21/2006 (avanzando subito dopo la richiesta del versamento di una somma di 1.500 euro per omettere dette contestazioni) - ignorasse detta indicazione ministeriale e, dunque, prospettasse una conseguenza sanzionatoria stimata realmente applicabile». Subito in appresso si specifica: «Ad ogni modo, non può sottacersi come l'occupazione del marciapiedi da parte [di Caia] integrasse comunque una violazione - sia pure meno grave - al codice della strada, implicante il pagamento di una sanzione pecuniaria (sia pure per una somma di gran lunga inferiore a quella 3000 euro)»}.

Pare il caso di sottolineare che la disquisizione circa la perdurante vigenza della previsione sanzionatoria riferita alla condotta della proprietaria del caffè non è teorica, poiché, invece, attiene alla qualifica di ingiustizia della minaccia del vigile, che, se sussistente, è in grado di per sé di far propendere per la concussione (atteso che – come spiegato da ultimo da Sez. VI, 2 marzo 2016, n. 94297, «il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita»).

Al riguardo è interessante sottolineare come la Corte ammetta la rilevanza dello stato soggettivo del vigile sub specie dell'errore in ordine alla perdurante vigenza della previsione sanzionatoria: quaestio suscettiva di aprire una profonda parentesi di riflessione, su cui si ritornerà in seguito, circa la compatibilità di un errore vertente su una disposizione extrapenale implicata dalla – ed implicita nella – fattispecie (siccome “nascosta” in quell'“indebitamente” – «[…] induce taluno a dare o a promettere indebitamente […]» – riferito dall'art. 319-quater, comma 1, cod. pen. alla condotta del pubblico ufficiale) da parte, non di un soggetto qualunque, ma di un soggetto qualificato, che per professione accerta infrazioni ed irroga sanzioni (tanto più che, nella vicenda oggetto di disamina, il Ministero, nella specie dello sviluppo economico, aveva reso la risoluzione chiarificatrice proprio perché «chiamato dal Comando dei Vigili Urbani di un Municipio [del Comune] a dare risposta al quesito concernente l'inquadramento giuridico dell'occupazione […]»).

Ad ogni modo, progredendo nella disamina del percorso argomentativo della sentenza, affronta successivamente la Corte il tema del ritenuto eventuale vantaggio per il soggetto sottoposto alle pressioni del pubblico ufficiale: vantaggio che nella specie essa reputa prospetticamente esistente (tenuto conto che la progressione criminosa si è arrestata allo stadio del tentativo), in quanto individuabile sia nello sconto paventato dal vigile alla proprietaria del caffè in funzione del versamento “personale” sia nell'assicurazione di omessi futuri controlli («[…] ritiene la Corte che - stando proprio alla ricostruzione storico fattuale compiuta dai Giudici della cognizione - la richiesta di denaro formulata dal pubblico ufficiale fosse certamente ingiusta (là dove egli chiedeva l'esborso della somma non dovuta di 1.500 euro per non porre in essere un atto d'ufficio, id est per non elevare la contravvenzione) e nondimeno fosse tale - qualora accolta - da realizzare un indebito vantaggio alla persona offesa, esercente un'attività di somministrazione di bevande al pubblico con dehor, esposta quotidianamente a controlli e possibili sanzioni per l'occupazione del suolo pubblico»).

Nell'ottica della Corte, la non “radicale insussistenza” della sanzione a fronte del pregresso comportamento della proprietaria del caffè e l'interesse (astratto) della medesima a pagare di meno a mani del pubblico ufficiale e ad evitare futuri (ma, per vero, non più possibili …) controlli vota la qualificazione del fatto di reato commesso dal vigile in termini di induzione indebita. Non però consumata.

Segue, invero, in motivazione, l'analisi dell'ascrizione del fatto all'imputato a titolo di tentativo, resa necessaria dalla circostanza che la proprietaria del caffè ha optato per il tranello concordato con i Carabinieri, ostando così al perfezionamento consensuale mediante “promessa” del “contratto con causa illecita”, in assenza del quale il concorso necessario e, di conseguenza, lo stesso delitto di induzione indebita non possono ritenersi consumati (a differenza di quel che accade nella concussione, dove la semplice promessa è sufficiente a far scattare la fattispecie consumata: la qual osservazione dovrebbe indurre a mature prese d'atto del tasso di ineffettività della complessiva risposta sanzionatoria alla commissione di reati prevaricanti ad opera di pubblici ufficiali).

Più precisamente, sul piano del differente ruolo dei concorrenti necessari nei reati contemplanti la collaborazione del soggetto passivo, richiama la Corte la categoria dei “reati bilaterali”, caratterizzata da una posizione di parità e di reciprocità dei suddetti concorrenti, negando però l'appartenenza ad essa dell'induzione indebita, in quanto vi osta la “consequenzialità” logico-cronologica della determinazione del soggetto passivo, pressato dal pubblico ufficiale e non cooperante con il medesimo. Tale costruzione progressiva dell'induzione indebita – che già appartiene all'elaborazione della giurisprudenza di legittimità (cfr., esattamente in termini, Sez. VI, 22 giugno 2016, n. 35271, e Id., 12 gennaio 2016, n. 6846) – è dirimente, perché consente di ritenere pienamente integrata la condotta tipica da parte di quest'ultimo indipendentemente dalla mancata adesione del soggetto passivo. Ma, recuperandosi la sentenza Maldera in una struttura argomentativa circolare, resta ferma l'essenzialità – il “criterio di essenza” di cui ragionano le Sezioni Unite – di un reale apporto, almeno consensuale, del soggetto passivo.

La lunga scia di Maldera. È inevitabile dare atto alla sentenza in commento di confrontarsi con una materia di spiccata scivolosità – evidente già dalla lettura del corposo intervento delle Sezioni Unite in Maldera – qual è quella della distinzione fra concussione ed induzione indebita. E proprio da Maldera occorre ripartire, con ciò condividendosi l'impostazione della sentenza della VI Sezione penale, poiché i principi enunciati in chiosa dalla stessa, caratterizzati da una portata ampia e generalista, forniscono senz'altro utili chiavi di lettura, ma necessitano di corposi approfondimenti per poter acquisire una tendenziale capacità orientativa.

Valga riferirsi in particolar modo all'utilizzo dei criteri del danno prospettato dal pubblico ufficiale e del vantaggio indebito ritratto, o ritraibile, dal soggetto passivo “nella loro operatività dinamica – come scrivono le Sezioni Unite – all'interno della vicenda concreta, individuando, all'esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti”.

Un giudizio di prevalenza piuttosto che di equivalenza del danno prospettato dal pubblico ufficiale in rapporto al vantaggio indebito ritratto, o ritraibile, dal soggetto passivo, per quanto concettualmente chiaro, è, proprio dal punto di vista operativo, ossia il punto di vista precipuamente evocato dalle Sezioni Unite, tutt'altro che scontato. È tutt'altro che scontato, in particolare, nel caso topico, e frequentissimo, in cui la prospettazione di un danno consistente si accompagna alla possibilità di “comprare” la “discrezionalità” del pubblico ufficiale mediante un pagamento inferiore al dovuto. In frangenti di tal fatta, i margini di opinabilità del giudizio di prevalenza o di equivalenza del disvalore della condotta del pubblico ufficiale al cospetto del disvalore della reazione del soggetto passivo dipendono dall'ambiguità di fondo dell'impianto codicistico, cui è rimproverabile di non aver compiuto la scelta “politica” di sanzionare l'infedeltà del pubblico ufficiale per il sol fatto della sua realizzazione: la coesistenza dell'induzione indebita con una concussione anacronisticamente descritta in chiave solo costrittiva – che denuncia la doppiezza delle disposizioni incriminatrici di cui rispettivamente agli artt. 317 e 319-quater c.p., le quali consentono al pubblico ufficiale una punizione meno severa laddove riesce a trascinare nel proprio proposito anche il soggetto passivo, altrimenti concusso – scarica sulla giurisprudenza l'ingrato compito di far chiarezza laddove, probabilmente, ogni barlume di chiarezza è stato rifiutato a priori dal legislatore.

Detto ciò, stante l'inevitabile genericità del principio enunciato in chiusura dalle Sezioni Unite, pare doveroso almeno lo sforzo di specificarlo attraverso la motivazione della sentenza. Utile si presenta il paragrafo 19 del “considerato in diritto”, dedicato a quelle situazioni border line nelle quali «il pubblico agente non si sia limitato a minacciare un danno ingiusto, ma abbia allettato contestualmente il suo interlocutore con la promessa di un vantaggio indebito», nonché i due seguenti, che ne rappresentano la necessaria prosecuzione logica. In simili evenienze, riconoscono le Sezioni Unite, diventa fenomenologicamente arduo ravvisare minaccia ed offerta come realtà distinte, perché anzi la minaccia è edulcorata con l'offerta, la quale assurge ad indicazione, da parte di un callido pubblico ufficiale, di un'agevole via d'uscita al soggetto passivo per evitare il male ingiusto che altrimenti conseguirebbe alla minaccia.

Purtuttavia, il complesso iter logico seguito dalle Sezioni Unite finisce per offrire, in più punti, soluzioni di grande efficacia. Indicano le Sezioni unite di prendere in considerazione, non solo la comparazione fra la prospettiva di vantaggio indebito per il privato con l'intimidazione perpetrata dal pubblico ufficiale, ma le stesse modalità dell'esercizio del potere discrezionale da parte di quest'ultimo, onde stabilire – e qui sta il punto, che criticamente rileva nel caso deciso dalla sentenza in commento – se detto potere sia esercitato «in maniera del tutto estemporanea e pretestuosa», ovvero «nell'ambito di una legittima attività amministrativa». Le modalità di esercizio del potere e la declinazione di discrezionalità che il pubblico ufficiale si arroga nel momento stesso in cui paventa al soggetto passivo un commodus discessus, dunque, rimbalzano in primo piano ed entrano nel giudizio comparativo, evitandone l'autoreferenzialità. In tal modo si incrementa il tasso di obiettivizzazione del giudizio comparativo medesimo, entro la cui dinamica si fa strada anche la valutazione dell'operato del funzionario dall'angolo di visuale che gli è proprio, ossia quello della legalità amministrativa.

In ragione di quanto precede, ci si permette di rilevare come, nel caso sottoposto alla cognizione della VI Sezione penale, l'applicazione dei suddetti indici enucleati dalle Sezioni unite sembri poter orientare ad una soluzione diversa da quella attinta in decisione.

Invero, il cambiamento normativo-interpretativo intervenuto due mesi prima della commissione del fatto-reato rendeva sostanzialmente inesistente il presupposto della sanzione amministrativa minacciata. Sul punto, appare incongruo prospettare una legittima ignoranza in ordine alla perdurante sussistenza dello stesso da parte del vigile, diversamente da quanto vale per la proprietaria del caffè: la professione del primo, quale titolare di una non minima frazione di potere amministrativo-esecutivo, non può che comportare prontezza di aggiornamento riguardo ai presupposti d'esercizio dei poteri sanzionatori. Diversamente opinando, si riconoscerebbe a qualsiasi agente una “scusante da aggiornamento” che si pone al di fuori di ogni canone ordinamentale: la legge ordinaria, valida per la generalità dei consociati, gode di un differimento dell'entrata in vigore normalmente pari a quindici giorni dalla promulgazione, per di più abbreviabili e soventemente abbreviati sino ad essere eliminati; anche per gli atti amministrativi a valore normativo, come circolari o risoluzioni, pertanto, è difficile ipotizzare un superamento della soglia dei quindici giorni, tanto più in quanto le tradizionali difficoltà di diffusione in seno alla P.A. sono enormemente diminuite per effetto delle pubblicazioni sui siti istituzionali e delle comunicazioni elettroniche. Ad ogni buon conto, i funzionari della P.A., tenuti a manifestare all'esterno la volontà della stessa, hanno un obbligo di costante aggiornamento in funzione dell'immediato adeguamento del loro agire ai mutamenti del contesto ordinamentale.

D'altronde, sotto altro ma concorrente profilo, «l'errata interpretazione di una legge diversa da quella penale, cui fa riferimento l'art. 47, ultimo comma, c.p. ai fini dell'esclusione della punibilità, deve essere sempre originata da errore scusabile» (Sez. II. 8 ottobre 2015, n. 43309). E non è scusabile l'errore di un pubblico ufficiale il quale non si mette al passo con le norme che è chiamato ad applicare.

A voler spingere più a fondo il discorso, il fatto, poi, che, come osservato dalla Corte, l'occupazione perpetrata dalla proprietaria del caffè potesse egualmente considerarsi illecita, ancorché ai sensi di una diversa disposizione normativa (contenuta nel codice della Strada) e soprattutto con l'applicabilità di una sanzione di molto inferiore, non dovrebbe valere a scardinare le superiori conclusioni, atteso che la proposta del vigile alla proprietaria del caffè sarebbe pur sempre

  • decisamente sproporzionata rispetto al vantaggio indebito in ipotesi dalla medesima conseguibile;
  • indefettibilmente arbitraria, in quanto sviata dal potere amministrativo sia in astratto che, concretamente, in rapporto alla base giuridica recante siffatta più mite previsione sanzionatoria.

La soluzione che ci si sente di prospettare, alla luce di queste riflessioni, sembra quindi essere piuttosto quella adottata dai giudici di merito.

La Corte, invece, valorizzando la prospettiva di un vantaggio in capo alla proprietaria del caffè, è pervenuta alla qualificazione del fatto-reato in termini di induzione indebita, viepiù, come anticipato, alla stregua della forma tentata. Tuttavia sia consentito di criticamente osservare che siffatta ricostruzione della prospettiva di vantaggio della proprietaria del caffè è, per così dire, solo astratta o, meglio, teorica, non trovando un effettivo ancoramento nella realtà della vicenda sub iudice, la qual cosa lascia dubitare della pienezza dell'adesione all'insegnamento delle Sezioni Unite. Per convincersene, sia sufficiente ricordare che la proprietaria del caffè – la quale, ben lungi dal manifestare alcun proposito adesivo all'offerta del vigile, l'ha invece denunciato – comunque, obiettivamente, alla luce dell'interpretazione sopravvenuta della L.R., non avrebbe dovuto subire alcuna sanzione o, a tutto voler concedere, avrebbe dovuto subire una sanzione di gran lunga inferiore per la violazione di una norma diversa da quella indicata.

Ciò detto, la stessa configurazione, ad opera della Corte, del tentativo di induzione indebita, pur suffragata da ragionamenti pregevoli, richiede un'ulteriore breve riflessione alla luce della dottrina.

Osservazioni, in dottrina, sul limite fra concussione ed induzione indebita e sulla configurabilità del tentativo di induzione indebita. La dottrina – nel proporre la propria critica alle più recenti novità normative in materia di diritto penale della P.A., esprimendo elegantemente frequenti perplessità (G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale I. Addenda, Bologna, 2013, in particolare pp. 11-17, ove già prima di Maldera erano previste le problematiche che sarebbero insorte a seguito della riforma, pur riconoscendosene i fondamenti di politica criminale; in termini più positivi, in fase di progettazione della riforma, si erano espressi E. Dolcini-F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in www.penalecontemporaneo.it, 17 aprile 2012, pp. 15-16, mantenendo comunque delle riserve), ma arrivando in taluni casi a franchi giudizi negativi (A. Pagliaro, Confronti testuali tra le due leggi più recenti sui delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Cass. pen., 2015, n. 5, pp. 1716 ss., il quale afferma che l'effetto dello spacchettamento finisca per indurre il privato esposto a condanna a non denunciare le pressioni del pubblico ufficiale) – non ha mancato di cimentarsi con il problema della sdrucciolevolezza del confine fra concussione ed induzione indebita (oltreché del confine fra tentativo di induzione indebita, pressoché pacificamente acquisito in giurisprudenza, e di istigazione alla corruzione) (a cavallo dell'entrata in vigore della riforma, ma prima dell'intervento delle Sezioni Unite, una utile chiave di lettura in riferimento ai principi costituzionali delle problematiche in esame è stata fornita da S. Vinciguerra, La riforma della concussione, in Giur. it., 2012, pp. 2697-2690, in particolare p. 2689).

Varie sono le tesi avanzate.

Una prima – seguita dalla VI sezione penale – è quella che ravvisa, in relazione alla figura delittuosa di cui all'art. 319-quater c.p., due fattispecie monosoggettive autonome. Il retro-pensiero è che il concorso necessario caratterizzante detta figura delittuosa non postula l'inscindibilità delle due condotte, dell'agente e del soggetto passivo, sul piano della punibilità, poiché più in generale il concorso di reati, sia necessario che eventuale, non richiede, per il sol fatto della sua manifestazione, la punibilità di tutti i concorrenti (M. Pelissero, Concussione e induzione indebita, in C. F. Grosso-M. Pelissero, Reati contro la pubblica amministrazione, Milano, 2015, p. 236; A. Fux, La claudicante palingenesi della concussione e le problematiche strutturali dell'induzione indebita, in Cass. pen., 2016, n. 10, pp. 3654 ss.).

Tale tesi, che ha l'indiscutibile pregio di una notevole semplificazione nella valutazione delle posizioni dei soggetti coinvolti sull'uno e sull'altro fronte della dinamica delinquenziale e nella verifica di configurabilità del tentativo, non va tuttavia esente da critiche in termini di coerenza rispetto all'assunto del “criterio di essenza” rappresentato dal contributo del soggetto passivo, sottoposto a pressioni, atteso che la causalità del fatto tipico e a fortiori del tentativo volto alla sua pur incompiuta realizzazione finisce per essere interamente o prevalentemente spostata sulla condotta del pubblico ufficiale, in certo qual modo sganciata dalla reazione del soggetto passivo medesimo (M. B. Magro, Ai confini tra tentata induzione indebita e istigazione alla corruzione: riflessioni a margine di un caso di induzione indebita del pubblico ufficiale non accolta, in Cass. pen., 2014, n. 12, pp. 4093 ss.).

Diametralmente opposta si presenta la tesi che propone un'interpretazione estensiva della concussione, volta a ricomprendervi anche un atteggiamento minaccioso “indiretto” od “esplicito”, reso attraverso il ricorso ad “ingannevoli rappresentazioni” (M. Donini, Il cor(reo) indotto tra passato e futuro. Note critiche a S.S.U.U., 24 ottobre 2013 - 14 marzo 2013, n. 29180, Cifarelli, Maldera e a. ed alla l. n. 190 del 2012, in Cass. pen., 2014, n. 5, pp. 1482 -1506, in particolare 1494). Una simile proposta, improntata ad un apprezzabile intento di recupero dello spazio sottratto dalla riforma del 2012 alla concussione e consegnato alla “terra di nessuno” intorno alla quale si è formato il dibattito, è però suscettibile di sfociare in un'inammissibile abolizione de facto della nuova fattispecie di induzione indebita, vanificandone l'indirizzo di politica criminale volto a sottrarre dal novero delle “vittime” il privato che si determini, senza esservi costretto o comunque spinto dalla soverchia forza negoziale del pubblico ufficiale, ad accettare allettanti patti illeciti provenienti da un siffatto infedele soggetto (siffatto indirizzo di politica criminale, fortemente sottolineato in ambito internazionale, è ribadito dalla stessa “autrice” della riforma P. Severino di Benedetto, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., 2013, n. 1, pp. 7-12, in particolare 8-10).

Una tesi equilibratamente intermedia è quella che, osservando i rispettivi ambiti di applicazione della concussione e dell'induzione indebita risultanti dalla riforma Severino e rimandando ad osservazioni de jure condendo eventuali critiche alla scelta dello “spacchettamento”, sembra non sdoppiare le fattispecie soggettive dell'induzione indebita e, in concordia con le Sezioni Unite Maldera, impostare la valutazione degli elementi discretivi rispetto alla concussione concentrandosi sulla concreta dinamica del fatto, purché, però, il soggetto passivo versi realmente, a vario titolo, in re illicita. Tale, ad esempio, è la situazione in cui versavano i soggetti passivi nel caso deciso da Sez. VI, 6 febbraio 2018, n. 17988, Rv. 272810, ove il responsabile dell'ufficio tecnico di un comune era imputato di aver compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre i soggetti passivi a concedere una servitù di passaggio a vantaggio di un fondo di famiglia, paventando che, di fronte al loro diniego, avrebbe potuto, con sostanziale abuso della sua qualità, denunciare l'esistenza di una violazione edilizia-ambientale nella proprietà dei medesimi.

È nel senso indicato, ma in questo soltanto, particolarmente pregevole e razionale il recupero di un orientamento di legittimità precedente alla riforma, in forza del quale la concussione deve escludersi ogniqualvolta il privato possa consapevolmente attendersi un vantaggio dalla (fondamentalmente) libera accettazione dell'“influente proposta” del pubblico ufficiale (precedentemente alle Sezioni Unite Maldera, cfr. D. Piva, Premesse ad un'indagine sull'”induzione”, Napoli, 2013, p. 48, il quale cita Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 41360; V. Mongillo, L'incerta frontiera: il discrimine tra concussione e induzione indebita nel nuovo statuto penale della pubblica amministrazione, in www.penalecontemporaneo.it, 27 settembre 2013, il quale parla di «estraneità del vantaggio indebito alla sfera delle determinanti motivazionali». Successivamente, cfr. Magro, op. loc. cit.; V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, n. 6, pp. 2222 ss.).

Nel caso di specie, considerato che la proposta illegittima faceva leva su una sanzione abrogata, dovendosi ribadire la contrarietà ad una pur parziale “scusante da aggiornamento” per il pubblico ufficiale, specie a fronte di un periodo di due mesi dall'entrata in vigore del nuovo assetto giuridico; ritenuto, sotto altro profilo, che l'illecito in limine realmente ravvisabile era collegato ad una sanzione molto più contenuta, tale vantaggio per la proprietaria del caffè non pare obiettivamente configurarsi. Di conseguenza, si apprezzano gli estremi per l'attribuzione al vigile del delitto di concussione, ovviamente nella forma consumata.

In conclusione

In conclusione, ci si fa lecito di non condividere la posizione assunta dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento, la quale non sembra porsi correttamente nel solco degli spunti offerti dalle Sezioni unite Maldera, né ricollegarsi alle correnti dottrinali che offrono le prospettazioni più equilibrate. In particolare, sembra doveroso porsi non favorevolmente riguardo all'assunto che finisce per scusare, seppur parzialmente, il vigile sulla base del fatto che il cambiamento interpretativo è intervenuto (solo) due mesi prima, perché tale arco temporale appare più che congruo e per giunta una diversa valutazione comporterebbe l'ampliamento di uno spazio di discrezionalità (dapprima amministrativa dappoi giudiziaria) che già presenta confini incerti, spesso debordanti nell'arbitrio vero e proprio.

Lo stato del diritto, tuttavia, rende sicuramente comprensibile che si possano formare orientamenti come quello qui non condiviso: la materia permane scivolosa ed il confine tra concussione ed induzione indebita estremamente incerto. In tale ottica, la soluzione più efficace rimane una riforma che riunisca nuovamente costrizione ed induzione nella figura delittuosa della concussione costrittivo-induttiva, senza tuttavia lasciare esente da rimprovero, in corrispondenza della seconda ipotesi, il privato che, pur tuttavia in modo veramente libero e volontario, aderisca all'“influente proposta” del pubblico ufficiale. A tal fine, un possibile suggerimento potrebbe essere quello di introdurre un'autonoma, più mite, ipotesi di reato a carico di detto privato, strutturalmente sganciato dalla teorica del concorso necessario, con la previsione, però, di una causa di non punibilità laddove lo stesso offra rilevanti contributi per le indagini (onde evitare il rischio che, per non vedersi incriminato, scelga di omettere sempre ed in ogni caso di fare denuncia).

Per riscrivere le norme nel senso auspicato, tuttavia, occorrerebbe un legislatore capace di assumersi la responsabilità di chiaramente delineare l'area del penalmente rilevante in capo al pubblico ufficiale infedele, tenendo presente l'effettiva dinamica delle infedeltà del pubblico ufficiale, che, nella stragrande maggioranza dei casi, non minaccia apertis verbis la vittima, ma piuttosto cerca di persuaderla e quindi di renderla “complice”: mal comune, mezzo gaudio.

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