Ammissibilità e limiti del diritto di critica del lavoratore
20 Settembre 2018
Massima
È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che pur esercitando il proprio diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, o superiore gerarchico, utilizza espressioni tali da superare i limiti della continenza sostanziale, intesa come la congruenza dei fatti alla verità, nonché di quella formale quale normalità delle modalità ammissibili nell'esposizione dei fatti.
Detto comportamento, infatti, integrando una condotta lesiva del prestigio aziendale e pertanto una violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede ex art. 2105, c.c., risulta tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto lavorativo.
Per tale motivo il diritto di critica del lavoratore deve essere limitato alla difesa personale e non diretto ad oltraggiare l'operato o le decisioni datoriali. Il caso
Con ricorso per Cassazione un lavoratore impugnava la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Cagliari con la quale il giudice di secondo grado, in accoglimento del gravame proposto dalla società datrice di lavoro, dichiarava legittimo il licenziamento intimato al primo per essersi rivolto con linguaggio ingiurioso ad un proprio superiore gerarchico alla presenza di un dipendente, di altri colleghi e di due ospiti esterni con consegnate violazione dei doveri di diligenza buona fede e correttezza di cui all'art. 2105, c.c.
A sostegno della propria conclusione rilevava il giudice di seconde cure come il linguaggio usato dal lavoratore fosse indubbiamente sostenuto dall'elemento volitivo nonché il fatto per cui tale comportamento costituiva oltre che gravissima insubordinazione anche una condotta contraria alle norme di comune etica e pertanto idonea a giustificare il recesso per giusta causa.
Da parte sua sosteneva il lavoratore invece la tesi per cui la sussistenza del fatto contestato doveva essere verificata esclusivamente in relazione alla riconducibilità dello stesso alla fattispecie tipica della giusta causa del licenziamento nonché il principio per cui la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato ne comporta inevitabilmente la insussistenza materiale con diritto alla reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge Fornero, applicabile ratione temporis. La questione
La problematica giuridica principale sottesa al caso di specie attiene al rapporto tra diritto di critica esercitato legittimamente dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro e la violazione dei doveri di cui all'art. 2105, c.c, ovvero di diligenza correttezza e buona fede, con conseguente irrogazione del licenziamento per giusta causa, laddove vengano superati i limiti della normale continenza oggettiva e soggettiva.
Connesso a tale argomento la Corte di cassazione affrontata infine anche l'ulteriore questione relativa alla corretta interpretazione dell'espressione “insussistenza del fatto materiale” introdotta nella nuova formulazione dell'art. 18, statuto dei lavoratori, dal legislatore del 2012. Le soluzioni giuridiche
Nella sentenza in esame la Suprema Corte affronta in primis la seconda questione.
Affermano, infatti, gli Ermellini che sebbene l'insussistenza del fatto contestato copre anche il caso del fatto sussistente ma privo di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, nel caso di specie la condotta tenuta dal prestatore di lavoro è stata correttamente esaminata dal giudice d'Appello alla luce del paramento dei doveri del lavoratore per come delineati dalla contrattazione collettiva e dalle norme del codice civile e giudicata rientrante nella fattispecie giustificativa del licenziamento.
Aggiunge, infine, il giudice di legittimità che il comportamento ingiurioso tenuto dal lavoratore era risultato di così tale gravità da doversi considerare contrario altresì al normale costume e al comune vivere civile e pertanto posto in essere in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede. Un comportamento qualificabile dunque come idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso per giusta causa.
In secondo luogo la Corte passa ad esaminare l'ipotesi dell'esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti dell'operato datoriale, escludendo tuttavia come le espressioni pronunciate nei confronti del proprio superiore gerarchico potessero rientrarvi.
Ribadisce infatti la Cassazione il principio per cui il diritto di critica trova un limite invalicabile nel rispetto della continenza sostanziale e formale, intese corrispettivamente quali corrispondenza dei fatti alla verità e misura nell'esposizione dei fatti.
Concludono i giudici di legittimità affermando che l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro laddove si manifesti con espressioni e modalità tali da travalicare i suddetti limiti costituisce una condotta lesiva del decoro dell'imprenditore nonché violazione del dovere scaturente dall'art. 2105, c.c., giustificando il recesso datoriale per giusta causa. Osservazioni
La sentenza in commento affronta l'annoso problema del confine tra esercizio del diritto di critica dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro e tutela del decoro aziendale.
La questione appare particolarmente significativa in quanto una volta superati i limiti che contengono il diritto di critica il comportamento del lavoratore è configurabile quale illecito disciplinare e pertanto giustificativo del provvedimento di recesso datoriale.
Nella sentenza in commento la Corte di cassazione sposa l'orientamento maggioritario il quale rinviene i limiti al legittimo esercizio di critica nel rispetto della continenza sostanziale e formale.
Tali vanno intese come la corrispondenza dei fatti alla verità e la misura nell'esposizione dei fatti.
Una volta violati tali parametri il diritto di critica sfocia nell'illecito e nei casi più gravi non solo lede il decoro datoriale ma rileva anche quale inadempimento agli obblighi di diligenza correttezza e buona fede che ricadono in capo al lavoratore.
Appare ovvio che tale delicato giudizio vada condotto in specifico riferimento al caso che di colta in volta occupa il giudice, non potendo delle valutazioni di carattere generale essere applicate a tutte le ipotesi. Il giudizio rimane quindi affidato sempre al giudice di merito che deve operare una valutazione scrupolosa sulla fattispecie materiale e verificare l'effettivo superamento dei limiti imposti dalla giurisprudenza dal diritto oltre che dalle norme del vivere comune e dai valori generalmente assunti all'interno della realtà aziendale.
Per tale motivo la Corte si limita ad indicare i principi generali che devono guidare il giudice di merito nella sua valutazione. Riferimenti Bibliografici
Quadrio F., Diritto di critica e licenziamento per giusta causa, in Riv. crit. dir. lav., 2001, 205;
Santini F., Il diritto di critica del lavoratore alla luce della più recente ricostruzione dell'obbligo di fedeltà, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 792. |