Cessione di ramo d'azienda illegittima e natura delle erogazioni patrimoniali dovute dal cedente
28 Agosto 2018
Il caso
In seguito alla dichiarazione di nullità della cessione di ramo d'azienda e a fronte dell'inottemperanza dell'ordine giudiziale di riammissione in servizio da parte del datore cedente, il lavoratore illegittimamente ceduto ottiene decreto ingiuntivo di condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte a far data dalla messa in mora del cedente.
La Corte d'appello di Napoli, confermando la sentenza del Tribunale, rigetta l'opposizione del cedente, condannandolo al pagamento dell'importo dovuto a titolo retributivo. Ciò impedisce la detrazione dell'aliunde perceptum costituto dalle retribuzioni nel frattempo percepite dal cessionario.
La Corte di cassazione, pur aderendo al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2990 del 2018, afferma l'unicità dell'obbligazione retributiva, da cui consegue che il pagamento (consapevolmente) effettuato da un soggetto diverso dal vero creditore della prestazione (in questo caso, il cessionario) ha efficacia liberatoria ex art. 1180, comma 1, c.c., nei confronti del reale obbligato.
Il giudizio di legittimità si conclude con la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte d'appello. La questione
La Corte di cassazione affronta la seguente questione di diritto: se in caso di illegittima cessione di ramo d'azienda, ove l'effettivo datore di lavoro non esegua l'ordine giudiziale di riammissione in servizio del lavoratore, le erogazioni patrimoniali rivendicate abbiano natura risarcitoria o retributiva; in caso di riconoscimento della natura retributiva e in assenza di disposizione espressa, se sia possibile la detraibilità di quanto percepito dal lavoratore illegittimamente ceduto da parte del cessionario. Le soluzione giuridiche
La pronuncia in commento affronta la controversa qualificazione degli importi dovuti dal datore cedente che, in caso di illegittima cessione di ramo d'azienda, non proceda alla riammissione in servizio del lavoratore.
Una parte della giurisprudenza, per vero maggioritaria, in forza del principio di corrispettività a base del contratto di lavoro, riconosce la natura risarcitoria di tale obbligazione con conseguente detraibilità dell'aliunde perceptum(Cass. 5 dicembre 2016, n. 24817 e Cass. 27 aprile 2015, n. 8514). In particolare, l'interdipendenza tra l'effettivo svolgimento della prestazione e il diritto alla retribuzione che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato precluderebbe, in assenza della prima, il riconoscimento in capo al datore di lavoro del relativo obbligo retributivo. A tale orientamento se ne contrappone un altro, cui aderisce la sentenza in commento, che postula invece la natura retributiva delle erogazioni patrimoniali dovute dal cedente per il periodo successivo all'ordine giudiziale di reintegrazione in servizio. Se, da un lato,ex art. 2126 c.c. al lavoratore ceduto spetta il diritto alla retribuzione nei confronti del cessionario in ragione della prestazione lavorativa di fatto resa; dall'altro, ciò non determina il venir meno dell'obbligo retributivo in capo al cedente, su cui grava l'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa ai sensi dell'art. 1207, c.c. (Corte d'App. Roma, 2 ottobre 2017).
Analoga controversia, peraltro, si ripropone in fattispecie in cui si assiste alla scissione tra il datore di lavoro effettivo e l'utilizzatore della prestazione. A tal proposito, si osservi come il principio di diritto di cui alla pronuncia in commento è formulato sulla base della decisione di Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, inerente a una ipotesi di interposizione illecita di manodopera. Osservazioni
Il riconoscimento della natura retributiva dei crediti vantati dal lavoratore in caso di inottemperanza dell'ordine giudiziale di riammissione in servizio, anche nell'ipotesi di illegittima cessione di ramo d'azienda, risponde anzitutto ad esigenze di coerenza del sistema. In particolare, l'estensione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite alla cessione di ramo d'azienda, e la conseguente impossibilità di applicare a quest'ultima la regola della detraibilità dell'aliunde perceptum per mancanza di una norma speciale derogatoria, rischiava di generare una irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie analoghe. Con riferimento all'interposizione illecita di manodopera la Suprema Corte aveva infatti riconosciuto exart. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 (oggi, art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2015) “l'incidenza liberatoria dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi (ai sensi dell'art. 1180, comma 1, c.c.) ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione, con applicazione dell'art. 2036, comma 3, c.c.”.
Nel dare continuità all'orientamento inaugurato in tema di interposizione illecita di manodopera, la sentenza in commento supera l'assenza di una disposizione speciale derogatoria, nel caso di illegittima cessione di ramo d'azienda, richiamandosi alla disciplina dell'adempimento del terzo ex art. 1180, comma 1, c.c., a cui peraltro le Sezioni Unite hanno ricondotto pure l'art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, quale specificazione del principio generale sancito dalla richiamata disposizione codicistica. Muovendo dalla considerazione che nella cessione di ramo d'azienda si verifica una sostituzione del cessionario al cedente nel rapporto giuridico, identico nei suoi elementi oggettivi, e che l'obbligazione dedotta rimane unica, la Corte qualifica il pagamento effettuato da un soggetto diverso dal debitore come adempimento del terzo con efficacia liberatoria del vero obbligato.
L'interpretazione seguita dalla più recente giurisprudenza di legittimità, dunque, non solo impedisce di riconoscere al lavoratore una “doppia retribuzione” (quella comunque percepita dal datore fittizio dopo la sentenza e quella dovuta dal datore effettivo in forza della declaratoria di illegittimità), ma consente di superare anche i paventati profili di incostituzionalità che l'accoglimento della tesi risarcitoria sembra porre (cfr. ord. di rimessione alla Corte cost. della Corte d'appello di Roma del 2 ottobre 2017, le cui argomentazioni sono integralmente riprese dalla successiva pronuncia delle Sezioni Unite).
Per vero, però, la qualificazione in termini retributivi delle somme spettanti al lavoratore in tali ipotesi non sembra del tutto convincente. Non pare anzitutto condivisibile la piana trasposizione dei principi affermati da Corte cost., 11 novembre 2011, n. 303 in materia di contratto a tempo determinato, alle fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera e di illegittima cessione del ramo d'azienda. Detta pronuncia, come noto, ha riconosciuto la natura risarcitoria dell'indennità onnicomprensiva dovuta al lavoratore per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la sentenza dichiarativa della sua nullità, obbligando il datore di lavoro a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute anche in caso di mancato ripristino del rapporto. E ciò al fine di non svuotare la tutela offerta dalla conversione del rapporto a tempo indeterminato, rendendola ineffettiva. Sotto questo profilo, tale fattispecie non sembra pienamente assimilabile a quella dell'interposizione illecita di manodopera e di illegittima cessione di ramo d'azienda. Benché sul piano pratico il fenomeno che viene in rilievo, ossia l'inottemperanza da parte del datore di lavoro dell'ordine giudiziale di riammissione in servizio, sia comune a tutte le ipotesi considerate, dalla nullità del contratto a tempo determinato non deriva l'imputazione del rapporto in capo ad un soggetto diverso da quello originariamente obbligato in forza del contratto illegittimo, ma la conversione del rapporto nei confronti del medesimo datore di lavoro. Tanto che non vi è nemmeno quella scissione tra situazione giuridica di diritto e di fatto, tipica invece degli altri istituti considerati dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In relazione al contratto a tempo determinato, il riconoscimento della natura retributiva in caso di mancata riammissione in servizio assume, dunque, una valenza marcatamente sanzionatoria, che rafforza il rimedio tipico della trasformazione del rapporto. Con riferimento alle altre fattispecie considerate, l'efficacia dissuasiva del meccanismo di coazione indiretta, rappresentato dal riconoscimento della natura retributiva, viene meno a fronte della necessaria individuazione di un fondamento normativo con efficacia liberatoria (nel caso di specie, l'art. 1180, c.c.).
Il ricorso all'istituto dell'adempimento del terzo, per spiegare l'efficacia liberatoria dei pagamenti effettuati dal cessionario, desta tuttavia qualche perplessità. Ciò non solo perché presuppone la natura retributiva dell'obbligazione, che dovrebbe prima essere dimostrata. E non tanto perché la retribuzione corrisposta dal cessionario costituisce il corrispettivo di una prestazione resa a suo vantaggio dal lavoratore, posto che la disciplina di cui all'art. 1180, c.c. non presuppone la sinallagmaticità delle prestazioni. Quanto perché in una fattispecie triangolare, come quelle in esame, l'adempimento trova semmai titolo nel vincolo solidale che le caratterizza.
Riferimenti bibliografici
L. Di Paola, Interposizione di manodopera: le somme dovute dall'effettivo datore di lavoro che non riammetta il lavoratore in servizio hanno natura retributiva, ilgiuslavorista.it, 17 aprile 2018. S. D'Ascola, Le Sezioni Unite sull'interposizione fittizia: il committente condannato che non effettua la riassunzione deve pagare tutte le retribuzioni, Labor.it, 13 marzo 2018. E.M. D'Onofrio, Cessione di ramo d'azienda illegittima e mancata riammissione del lavoratore: diritto alle retribuzioni o risarcimento del danno, ilgiuslavorista.it, 16 febbraio 2015.
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