L'estensione del sindacato giudiziale in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento

30 Luglio 2018

La scelta dei profili professionali in esubero in caso di riorganizzazione aziendale non è sindacabile da parte del Giudice, ma quest'ultimo deve accertare che tale scelta risponda ad effettive esigenze organizzative, tecniche e/o produttive, altrimenti al lavoratore non è dato comprendere perché il suo profilo professionale venga considerato dall'azienda un esubero o meno.
Il caso

Il giudizio conclusosi con l'ordinanza in commento era introdotto dal dipendente disabile di una compagnia di assicurazioni, assunto nell'anno 2005 ai sensi della l. 12 marzo 1999, n. 68. Il ricorrente aveva mansioni di autista ed era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, con effetto dal 10 maggio 2017. Nel ricorso, veniva lamentata la natura discriminatoria del recesso, per manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, per la violazione dell'obbligo di repêchage e per la violazione dei doveri di correttezza e buona fede esistenti in capo al datore di lavoro.

La questione

La vicenda portata al giudizio del Tribunale di Monza si caratterizzava per l'interazione di numerosi istituti.

Emergeva dall'istruttoria che il ricorrente era l'unico autista in forza alla compagnia assicurativa e che i suoi compiti constavano in via praticamente esclusiva nell'accompagnare l'amministratore delegato negli spostamenti quotidiani.

Il dipendente cadeva in malattia nel mese di maggio 2016 e vi sarebbe rimasto per quasi un anno. Nel frattempo, il servizio di autista non veniva mantenuto, neppure con il ricorso a sostituzioni, e l'amministratore delegato era sostituito da altro (a far data dal 1° dicembre 2016) che aveva chiarito all'impresa di non volersi avvalere di tali modalità di trasporto.

Sempre nelle more, nel giugno 2016, l'impresa datrice di lavoro azionava la procedura di confronto sindacale regolata dalla l. 23 luglio 1991, n. 223 in tema di licenziamenti collettivi, denunziando esuberi di personale riguardanti solo una parte delle aree di attività dell'azienda. Il confronto, peraltro, aveva esito negativo e ciò portava la compagnia di assicurazione ad attivare, nell'agosto dello stesso anno, un generoso piano di incentivazione all'esodo (la proposta aziendale partiva da un minimo di ventiquattro mensilità, cui si potevano aggiungere maggiorazioni in base all'anzianità di servizio ed ai carichi familiari), rivolto, in primo luogo, agli addetti ai settori coinvolti dagli esuberi ma comunque aperto anche agli altri dipendenti, salva, in tale ultimo caso, la valutazione dell'impresa.

Tornando alla posizione del ricorrente, egli, pur non addetto al settore operativo oggetto di ristrutturazione, aveva richiesto all'azienda di aderire agli incentivi all'esodo, domanda che non era stata riscontrata. Infine, nel maggio 2017, al rientro dal periodo di malattia, era stato soggetto a visita di idoneità (controllo superato) e poi – il giorno seguente – licenziato.

In definitiva, il Giudice del Lavoro di Monza era chiamato ad esprimersi su vari profili, tanto attinenti i profili generali del rapporto laburistico (id est, l'incidenza sullo stesso dello stato di malattia) quanto, più nello specifico, i tratti fondamentali del recesso per giustificato motivo oggettivo (quali i presupposti e l'effettività di tale misura, nonché il nesso di causa tra la stessa e l'andamento aziendale).

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Monza decide per l'illegittimità del licenziamento irrogato, non ritenendo integrato il giustificato motivo oggettivo. In particolare, non vengono accolte le difese dell'impresa relative all'insorgenza, nel dicembre 2016, di una nuova riorganizzazione aziendale volta alla riduzione dei costi con soppressione del ruolo di autista già occupato dal ricorrente.

Secondo l'ordinanza in commento, la suddetta giustificazione deve essere ritenuta apparente, dal momento che la posizione di autista in questione, seppure mantenuta in organigramma sino al licenziamento del ricorrente, era in realtà priva di effettività sin dal maggio 2016, ovvero da quando lo stesso lavoratore era caduto in malattia e non era stato sostituito da alcuno.

Proprio nel richiamare la circostanza del lungo stato morboso, il Giudice del Lavoro ha modo di chiarire come tale stato, pur determinante la sospensione del lavoro, non avrebbe dovuto impedire all'impresa di valutare comunque la funzionalità del relativo lavoratore rispetto agli obiettivi aziendali tenuti di mira nel corso della riorganizzazione. Si tratta di un passaggio che apre la strada ad un'ipotesi di cessazione del rapporto laburistico in costanza di malattia, attraverso lo strumento dell'adesione all'incentivazione all'esodo.

Tornando all'esame della motivazione del recesso addotta dall'impresa, la pronunzia in commento precisa i limiti del sindacato giudiziale in argomento, affermando che il Giudicante non può spingersi a indagare la sostanza del processo riorganizzativo attuato dal datore di lavoro, ma, nondimeno, ben è tenuto a vagliare l'effettività del medesimo: in caso contrario, si lascerebbe all'azienda la possibilità di irrogare un licenziamento sulla base di una causale meramente fittizia.

Applicando questo tipo di controllo al caso di specie, la decisione del Tribunale di Monza riscontra l'irragionevolezza del motivo addotto dalla parte datoriale e consistente nella protestata superfluità di una posizione lavorativa che, nei fatti, costituiva un esubero da un momento ben precedente quello del licenziamento, momento coincidente con il varo di un esteso piano di incentivazione all'esodo dal quale lo stesso lavoratore ricorrente era stato inopinatamente escluso. Con un ragionamento a contrario, il Giudice del Lavoro sviluppa il punto affermando come non sia verosimile che la posizione in parola fosse diventata esuberante solo in una fase successiva, essendo la situazione di fatto rimasta del tutto immutata, come provato dal perdurare, nelle more, della malattia del ricorrente e della mancanza di una sostituzione del medesimo.

In definitiva – si ritiene – la decisione in esame deduce l'illegittimità del recesso non tanto da una radicale assenza od insufficienza della causale sostenuta dal datore di lavoro, quanto dalla mancanza di attualità della medesima. L'azienda – si legge – ha infatti fallito il compito di provare l'esistenza di differenze tra la giustificazione del licenziamento impugnato e quella dei numerosi esuberi incentivati nel periodo temporalmente appena precedente. Da qui il convincimento giudiziale nel senso della preesistenza della necessità di cancellazione della posizione del lavoratore licenziato, aspetto che faceva venire meno il diretto nesso di causa tra il (successivo) licenziamento e le ragioni economiche indicate dall'impresa.

Da ultimo, la pronunzia ritiene configurata altresì la violazione dei doveri di buona fede e correttezza da osservarsi da parte del datore di lavoro nell'esecuzione del rapporto laburistico, ciò che comunque viene ritenuto insufficiente ad integrare gli estremi di un licenziamento discriminatorio.

La soluzione adottata dal Giudice del Lavoro di Monza si pone nel solco di una tradizione interpretativa consolidata, applicando però la medesima ad una fattispecie connotata da profili di singolarità.

Certamente in linea con la più recente giurisprudenza è il riconoscimento quale presupposto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di ipotesi in cui la soppressione della posizione lavorativa dipende da uno sostanziale svuotamento della medesima, per l'effetto di una diversa organizzazione tecnico produttiva in grado di rendere obsoleto e comunque non più necessario il ruolo rivestito da un dato lavoratore (eloquente, in tale senso, è la casistica riassunta dalla sentenza della Corte di cassazione 1° luglio 2016, n. 13516).

Ancora, l'ordinanza in esame mostra di aderire ai più recenti sviluppi esegetici in tema di effettività del giustificato motivo oggettivo e di nesso di causa tra quest'ultimo ed il recesso, i due aspetti che costituiscono i poli ispiratori della decisione monzese.

Come noto, con il riferimento all'effettività si vuole alludere alla necessità che il Giudice del Lavoro verifichi la concretezza delle causali addotte dal datore di lavoro quale sostegno legittimante la decisione di operare uno o più licenziamenti. Si tratta di un controllo, peraltro, nel quale i poteri ispettivi giudiziali non sono senza limiti. L'art. 30, l. n. 183 del 2010 (il cd. Collegato Lavoro) esclude che possano essere messi in discussione i profili delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive: ciò fa sì che l'Autorità Giudiziaria non sia ammessa a valutare nel merito le scelte adottate dall'azienda, nel rispetto dell'art. 41, Cost., affermativo del principio di libertà dell'iniziativa economica.

Nel caso che ci occupa appare importante notare come il tema dell'effettività sia stato approfondito in un'ottica temporale profonda, senza limitarsi alla considerazione del contesto aziendale esistente al momento del licenziamento. Si tratta di un'operazione che sembra non esondare dalle limitazioni poste dal Collegato Lavoro e che, anzi, testimonia la perdurante validità di principi espressi ormai un ventennio fa dalla Suprema Corte. Con la sentenza 11 febbraio 1998, n. 1438, la Corte di cassazione affermava proprio l'opportunità di controllare la sostanza delle affermazioni datoriali su un congruo periodo di tempo precedente all'irrogazione del recesso e ciò specie nei casi di più ambigua interpretazione. Tale ulteriore sforzo d'indagine, infatti, era proposto al fine di sventare prassi datoriali sostanzialmente elusive della normativa in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, con le quali si predeterminava un contesto fattuale tale da potere mascherare un recesso soggettivamente determinato.

Orbene, non sembra che il supplemento di inchiesta sopra richiamato possa entrare in contrasto con i recenti arresti della Corte di legittimità che hanno manifestato una particolare sensibilità nella definizione dei compiti valutativi rimessi al Giudice. In tale filone si pone la già citata sentenza n°13516/2016, cui si deve l'interpretazione della verifica in punto effettività come un vaglio dell'oggettiva esistenza della riorganizzazione paventata dal datore di lavoro e dell'assenza di causali discriminatorie del licenziamento, con la conseguente esclusione di ogni apprezzamento circa gli scopi perseguiti dalla medesima parte datoriale nell'attuazione della ristrutturazione aziendale. A sostegno, può poi citarsi la decisione n. 25201 del 2016, cui si deve la riflessione per cui ogni esondazione, da parte dell'Autorità Giudiziaria, dai limiti di indagine come sopra definiti concretizzerebbe una duplice violazione di legge. Ad essere lesi sarebbero, oltre al già più volte richiamato art. 30, l. n. 183 del 2010, anche la stessa norma cardine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3, l. n. 604 del 1966, in quanto un sindacato giudiziale troppo esteso si tradurrebbe nella imposizione di limiti alla facoltà di recesso imprenditoriale ulteriori rispetto a quelli posti dalla disposizione da ultimo evocata.

Tuttavia, lo si ripete, non pare che il protocollo di verifica adottato dal Tribunale di Monza possa essere considerato contrastante con i principi espressi dalle pronunzie testé citate: il fattore temporale considerato dall'ordinanza in commento si pone infatti come elemento neutro, non tale da poter fare filtrare nel giudizio elementi valutativi propri del Giudicante e differenti da quelli normati negli articoli di legge summenzionati.

Ancora, il tempo è alla base del secondo snodo argomentativo della decisione monzese, quello attinente al profilo del nesso di causa tra la modifica dell'organizzazione imprenditoriale ed il licenziamento del dipendente.

Qui, a tutta prima, potrebbe davvero sembrare che l'indagine del Tribunale di Monza si sia spinta oltre. Nelle motivazioni, infatti, si afferma in modo pressoché esplicito che la causale di licenziamento addotta dal datore avrebbe potuto essere stata valida nella primavera del 2016, quando l'impresa resistente aveva, tra l'altro, incentivato all'esodo moltissimi dipendenti, ma non nel momento in cui il recesso venne effettivamente irrogato. Il problema è che – si apprende dalla stessa ordinanza – l'impresa non avrebbe potuto licenziare il lavoratore ricorrente nel 2016, a ragione della pendenza di uno stato di malattia.

A ben guardare, però, le valutazioni giudiziali non sono frutto di una personale lettura dei fatti, ma discendono in modo lineare dal contegno processuale della resistente, che non aveva provato l'esistenza di nuove e diverse ragioni di licenziamento del lavoratore rispetto a quelle già presenti nel 2016 e, soprattutto, non aveva (nel 2016) neppure preso in considerazione la posizione lavorativa in gioco nel progettare la riorganizzazione, nè aveva accolto l'istanza del medesimo dipendente volta ad accedere all'esodo incentivato. Emerge così una vistosa incoerenza nella pretesa aziendale di volere licenziare un dipendente sulla base di ragioni che lo stesso soggetto aveva precedentemente ritenute inidonee (se non a recedere almeno) a ridiscutere quella medesima posizione lavorativa.

E' indubbio come siffatte considerazioni richiedano al Giudice del Lavoro un approfondimento ed una riflessione tutt'altro che superficiali. D'altro canto non sembra di riscontare qui alcuna eccezione ai compiti di verifica giudiziali. Va peraltro ricordato come anche la più recente giurisprudenza, quella più attenta alla delimitazione degli oneri di controllo posti a carico del giudicante, interpreti molto seriamente l'aspetto del nesso di causa, visto come argine contro scelte imprenditoriali ispirate da criteri pretestuosi e soggettivi. Solo la riferibilità e la coerenza del licenziamento rispetto alla ristrutturazione aziendale attuata dall'imprenditore, infatti, può confermare l'avvenuta adozione senza distorsioni del potere di recesso rimesso all'azienda.

Osservazioni

La pronunzia in commento è intervenuta in un contesto di base indubbiamente singolare, circostanza che forse potrà rendere poco agevole alle soluzioni quivi adottate di avere largo seguito. Essa, nondimeno, decide maneggiando argomenti (l'effettività ed il nesso eziologico nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo) di sicura attualità.

I citati concetti appaiono oggigiorno meno definiti nei loro confini di quanto lo fossero nel recente passato. La crescente affermazione di una giurisprudenza di legittimità volta a definire con maggiore rigore i confini del sindacato giudiziale nella verifica dei presupposti dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo è apparsa tale da mettere potenzialmente in crisi questi istituti. Una verifica troppo formale di tali importanti profili, basata soltanto sull'esistenza o non della causale affermata dal datore di lavoro, potrebbe essere portatrice di effetti intuibilmente distorsivi: la confusione tra premesse e conseguenze del recesso, con la conseguenza dell'affermazione di una facoltà di licenziamento scarsamente controllabile.

L'ordinanza in esame spicca per lo sforzo di richiamo della parte aziendale ad un'allegazione specifica (anche in quanto incentrata sulla posizione del singolo lavoratore licenziato) ed attuale delle causali del recesso, ciò che non appare stridente con l'attenta rideterminazione dei poteri ispettivi del Giudice del lavoro propugnata dalla corrente interpretativa sopra richiamata.

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