Deturpamento e imbrattamento di cose altrui. Un caso di abbandono, lungo la pubblica via, di rifiuti estratti da un cassonetto
27 Luglio 2018
Massima
Integra il delitto di cui all'art. 639, comma 2, c.p. la condotta di chi, dopo aver rovistato nelle buste dei rifiuti conferiti in regime di raccolta differenziata, al fine di asportare quanto di suo interesse, rompa le buste che li contengono e asporti quanto a lui utile, abbandonando il resto sulla pubblica via, in ragione del pregiudizio dell'estetica e della pulizia conseguente, risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio, con senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini. Il caso
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Salerno esperiva ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa il 12 settembre 2017 dal giudice per le indagini preliminari che, in sede di richiesta di emissione di decreto penale di condanna, dichiarava non doversi procedere, in virtù del combinato disposto degli artt. 129 e 459, comma 3, c.p.p., nei confronti di Tizio, in ordine al delitto di imbrattamento di cose altrui, di cui all'art. 639, comma 2, c.p. Nel proporre il mezzo di impugnazione il ricorrente deduceva sia la violazione di legge che la contradditorietà e manifesta illogicità della motivazione, rilevando come il Gip, pur avendo riconosciuto che l'imputato fosse stato autore del deturpamento oggetto di contestazione, fosse pervenuto ad escluderne la sussistenza dell'elemento soggettivo, facendo leva su una duplice componente: da un lato, la natura isolata della condotta e dall'altro, l'intenzione di disfarsi dei materiali, che in un primo momento erano stati estratti dai sacchi della spazzatura e, in un secondo tempo, abbandonati sul suolo pubblico in quanto privi di utilità per l'agente.
La Seconda sezione penale della Corte di cassazione ha accolto il ricorso, per un verso ritenendo corretta la qualificazione giuridica del fatto operata dal Gip, ma al contempo considerando errate le conclusioni raggiunte in tema di esclusione dell'elemento soggettivo. In particolare, i giudici di legittimità hanno osservato come non fosse idonea a escludere la configurabilità del coefficiente psicologico la circostanza che la condotta posta in essere dall'imputato fosse sorretta dalla semplice volontà di accantonare i materiali, prelevati dai sacchi contenenti la spazzatura, che non gli risultassero utili. Ad avviso della Suprema Corte, difatti, tale componente deve considerarsi estranea all'accertamento del dolo, posto che afferisce alle ragioni che hanno spinto l'agente a delinquere. A conferma di tale assunto i giudici di legittimità hanno rilevato come la fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 639, comma 2, c.p. sia punita a titolo di dolo generico, risultando pertanto indifferente il fine per il quale il soggetto agisca, posto che l'analisi deve limitarsi ad accertare che il reo si sia rappresentato l'evento dannoso ed abbia agito di conseguenza. Sulla scorta di tali rilievi, la decisione in oggetto perviene a statuire che il comportamento posto in essere da parte dell'imputato risulti espressivo dell'intento di deturpare ed imbrattare. In seconda istanza, la Cassazione rinforza il proprio ragionamento contraddicendo la conclusione raggiunta dal giudice di merito in tema di esclusione della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ad avviso dei giudici di legittimità, difatti, non può escludersi il dolo in ragione della natura episodica della condotta, tenuto conto del fatto che la fattispecie non richieda una ripetizione dei comportamenti, potendosi individuare il momento consumativo del delitto allorché si produca l'effetto di imbrattamento o deturpamento. La questione
La questione concerne l'individuazione di taluni degli aspetti caratterizzanti il delitto di deturpamento o imbrattamento di cose altrui, la cui disciplina è dettata dall'art. 639 c.p. In particolare ci si interroga in ordine alla natura del reato sotto un duplice profilo: si tratta di un reato istantaneo ovvero di un reato abituale? È richiesta la presenza del dolo specifico ovvero si tratta di fattispecie punibile a titolo di mero dolo generico? Le soluzioni giuridiche
La questione affrontata dalla Corte di cassazione – concernente la condotta di un soggetto che, dopo aver estratto talune buste contenenti rifiuti dai cassonetti della spazzatura, una volta prelevato il materiale da cui poter trarre una qualche utilità, abbandonava lungo la pubblica via il residuo non risultatogli utile – non pare constare di precedenti analoghi in seno alla giurisprudenza di legittimità ma risulta comunque idonea a fornire uno spunto ricostruttivo dei principali tratti caratterizzanti il delitto di deturpamento o imbrattamento di cose altrui, con particolare riferimento all'ipotesi aggravata, di cui al comma 2 dell'art. 639 c.p. Giova sin da subito evidenziare come, nel presente caso, la Suprema Corte sia pervenuta a ritenere configurato il delitto in parola, smentendo la soluzione a cui era approdato il Gip presso il tribunale di Salerno che, pur riconoscendo, sotto il profilo materiale, l'avvenuta commissione di una condotta di imbrattamento da parte dell'imputato, ne aveva escluso la responsabilità penale in ragione del difetto del coefficiente psicologico richiesto ai fini della configurabilità dell'illecito. Dal punto di vista dell'elemento oggettivo, i giudici di legittimità sanciscono che la condotta consistente nell'abbandonare lungo la strada pubblica del materiale proveniente dai cassonetti dell'immondizia produca l'effetto di imbrattamento, in quanto la superficie ove tali materiali vengono depositati risulta insudiciata, con correlato pregiudizio – che definiremmo di natura prettamente oggettiva – dell'estetica e della pulizia della strada medesima e con l'ulteriore effetto negativo (che potrebbe definirsi a carattere riflesso) – di natura, stavolta, spiccatamente soggettiva – inerente l'insorgere di un senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini. Anche sulla scorta dell'argomentazione elaborata dalla pronuncia in oggetto, è possibile trarre talune rilevanti conclusioni in ordine alla corretta individuazione degli elementi costitutivi del delitto in parola. In specie risulta chiaro come, in conformità al dato linguistico comune, il comportamento consistente nell'insudiciare un determinato bene debba essere ascritto nel paradigma normativo dell'imbrattamento, così operandosi una prima distinzione rispetto all'evento di deturpamento, a sua volta penalmente rilevante ai sensi del primo comma dell'art. 639 c.p. Tale seconda tipologia di evento appare, difatti, integrata laddove si assista a una deformazione, ovvero ad un'alterazione dell'aspetto originario della res oggetto della condotta deturpativa (come, ad es., nell'ipotesi di una profonda incisione operata su una scultura). Appare quindi possibile enucleare una distinzione tra tali tipologie di evento, individuandosi un quid di maggior gravità nell'evento deturpativo, il quale, ove integrato, parrebbe necessitare di un'attività maggiormente complessa finalizzata alla sua rimozione, a condizione, peraltro, che le circostanze connotanti il caso concreto lo permettano. Alla luce di tali rilievi, risulta agevole sancire che l'ipotesi criminosa delineata dall'art. 639 c.p. configuri, sotto il profilo della condotta, un reato a forma libera, nel senso che il deturpamento o l'imbrattamento integrino i due eventi tipici previsti in via alternativa dal Legislatore, ben potendo i medesimi esser cagionati da qualsiasi forma di condotta che risulti idonea a produrli. Giova, peraltro, annotare come nel caso in parola risulti configurata l'ipotesi aggravata disciplinata dal secondo comma dell'art. 639 c.p., in ragione del fatto che l'attività di imbrattamento abbia ad oggetto la pubblica via, entità riconducibile al genus “beni immobili” che, al pari degli altri beni elencati nel capoverso del medesimo articolo, contribuiscono ad aggravare il disvalore del fatto, in ragione della tutela più pregnante che l'ordinamento intende ad essi accordare. La pronuncia in esame fornisce, inoltre, un'ulteriore indicazione concernente la natura del reato. La Cassazione statuisce che ai fini della realizzazione del fatto tipico sia sufficiente un unico comportamento posto in essere da parte dell'agente, a condizione che da esso derivi l'effetto di imbrattamento o deturpamento, non richiedendosi, invece, la reiterazione di una pluralità di comportamenti. In tal modo i giudici di legittimità, in conformità al disposto normativo di cui all'art. 639 c.p., escludono la natura abituale del reato, smentendo pertanto le conclusioni raggiunte dal giudice di merito, il quale aveva ritenuto insussistente il dolo anche in ragione della natura episodica della condotta ascritta all'imputato. Da ultimo gli ermellini offrono talune indicazioni afferenti all'elemento soggettivo richiesto per l'esistenza del reato. In sostanza si sancisce che l'illecito sia punibile a titolo di dolo generico, con la conseguenza che l'agente debba rappresentarsi e volere tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato, risultando al contempo irrilevante il fine per cui agisce. In tal modo la Suprema Corte si discosta dalla ricostruzione operata dal Gip, che era pervenuto a sancire il difetto di tipicità del comportamento dell'agente proprio in ragione dell'assenza, nel caso concreto, del coefficiente psicologico richiesto dalla fattispecie astratta, in quanto il soggetto avrebbe agito con la mera intenzione di disfarsi di quei materiali prelevati dai sacchi della spazzatura poi reputati inutili. Sul punto i giudici di legittimità osservano che la volontà di disfarsi dei materiali privi di utilità, che ha sorretto la condotta dell'agente, attiene alle ragioni che lo hanno spinto a delinquere, trattandosi quindi di profilo estraneo all'accertamento del dolo e, per tal motivo, di per sé inidoneo ad escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo. Osservazioni
La questione sottoposta al vaglio della Corte di cassazione nella sentenza in commento assume una significativa rilevanza, involgendo una problematica che, nel corso degli ultimi anni, ha raggiunto una dimensione allarmante, implicante risvolti non solo da un punto di vista strettamente giuridico, bensì operando anche sul piano sociale. La complessa materia relativa alla gestione e al trattamento dei rifiuti s'interseca con l'emergere, sempre più frequente, di situazioni di degrado urbano, dettate dalla incessante presenza lungo le pubbliche vie di cumuli di rifiuti, sovente derivante dalla scarsa efficienza del servizio di pulizia e rimozione. A tale componente deve aggiungersi l'agire di quei soggetti che, versando in condizioni di indigenza, tentino di soddisfare le esigenze primarie rovistando all'interno dei cassonetti della spazzatura, per poi effettuare una cernita, mediante l'apprensione di quei materiali reputati utili a veder soddisfatti i propri bisogni e al contempo abbandonando, con atteggiamento radicalmente noncurante delle regole volte a garantire l'ordine e la pulizia dei luoghi pubblici, i restanti materiali ritenuti privi di qualsivoglia utilità. Malgrado l'assenza, allo stato attuale, di precedenti analoghi in materia, si tratta di una fattispecie che, attraverso un giudizio prognostico, appare destinata a replicarsi nell'avvenire, apparendo in tal modo utile verificarne la rilevanza penale e provando, altresì, a esplorare i confini applicativi della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 639 c.p. Con specifico riferimento alla sentenza resa dalla Suprema Corte possono formularsi talune osservazioni: se, da un lato, risulta possibile aderire al ragionamento formulato dai giudici di legittimità in ordine all'effettivo concretizzarsi, nel caso in esame, dell'elemento oggettivo della fattispecie de qua, per altro verso le statuizioni rese in ordine all'oggettività giuridica concretamente tutelata dalla fattispecie astratta, nonché le conclusioni raggiunte in tema di sussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'agente, appaiono più facilmente assoggettabili a una riflessione critica. Per quanto attiene alla verifica relativa alla sussistenza dell'elemento oggettivo tipizzato dall'art. 639c.p., può osservarsi come, nel caso concreto, esso appaia effettivamente integrato. Difatti, la condotta consistente nell'abbandonare lungo la pubblica via del materiale prelevato dai cassonetti della spazzatura (a prescindere dalla quantità concretamente depositata) produce l'effetto di alterare lo stato dei luoghi, dando vita ad una situazione che, oltre a produrre un ingombro fisico di un bene destinato all'uso pubblico, cagiona – ed è ciò che assume rilevanza ai fini della tipicità del fatto – una situazione di sudiciume e sporcizia, con correlato effetto di degrado. Situazione di sudiciume e sporcizia discendente direttamente dalla natura del materiale depositato, destinato, per la sua collocazione originaria, a un'eliminazione definitiva o, al più, necessitante dell'inserimento in un'attività di riciclo, da espletare nei luoghi ad essa deputati ed in attuazione delle regole all'uopo previste. A ciò si aggiunga che, ai fini del perfezionamento del reato, l'evento imbrattante non deve assumere i connotati dell'indelebilità, posto che in tal caso verrebbe in rilievo un effetto più grave, non espressamente richiesto dalla fattispecie astratta, al più riconducibile in un differente paradigma normativo. Per tale ragione, per la rilevanza penale del fatto, risulta sufficiente che, pur in presenza di un'alterazione dello stato originario del bene su cui insista la condotta illecita, essa possa essere rimossa mediante un'attività ripristinatoria dello status quo ante, che non debba peraltro apparire particolarmente onerosa. Perplessità maggiori sembrano, invece, insorgere riguardo alla corretta individuazione della oggettività giuridica concretamente tutelata dal delitto in oggetto, in considerazione delle affermazioni contenute nella sentenza in esame. In via preliminare deve difatti rammentarsi che il delitto di imbrattamento risulta collocato nell'ambito dei delitti contro il patrimonio e, pertanto, una corretta interpretazione della fattispecie criminosa, orientata al rispetto dei principi costituzionali che governano la materia penalistica – primo tra tutti quello di offensività – impone di ritenere integrato il fatto tipico ove sia concretamente riscontrabile un'offesa al bene patrimoniale, la quale imponga un'attività ripristinatoria fisiologicamente necessitante un utilizzo di risorse economicamente apprezzabili. Per un verso l'indicazione contenuta all'interno dell'apparato motivazionale, ove si sancisce che la condotta del reo avrebbe cagionato un pregiudizio dell'estetica e della pulizia, non desta un clamore particolare, posto che si limita ad aderire all'orientamento prevalente sviluppatosi all'interno del formante dottrinale in ordine alla portata applicativa della fattispecie ex art. 639 c.p. Ciò posto, però, è compito dell'interprete interrogarsi in ordine al bene che il Legislatore abbia concretamente inteso tutelare con la fattispecie incriminatrice in scrutinio, al fine di verificare se i concetti di estetica e pulizia possano assurgere al rango di beni meritevoli di una protezione attraverso la comminatoria di una sanzione penale o se, al contrario, l'oggettività giuridica che l'ordinamento intenda proteggere debba essere individuata altrove. Sul punto appare preferibile aderire all'opzione interpretativa che miri a valorizzare la collocazione sistematica del delitto di imbrattamento e, per tale ragione, ritenere integrato l'illecito, anche sul versante della concreta offensività del fatto, soltanto laddove si produca una menomazione della funzionalità del bene aggredito dalla condotta vietata. Menomazione che, pur non dovendo assumere il carattere della irreversibilità, né dovendo pervenire a un grado di intensità eccessivamente elevato, comunque implichi una perdita, seppur parziale, delle funzioni a cui il bene risulti adibito. Sicché, per rimanere alla fattispecie concreta, il suolo pubblico sul quale vengono depositati i rifiuti scartati dall'agente, presumibilmente adibito al transito dei pedoni ovvero dei veicoli, risulta inagibile o, comunque, inficiato da una situazione idonea a renderne più difficoltoso l'uso. Di contro, il mero pregiudizio all'estetica e alla pulizia del bene non parrebbe idoneo a configurare una lesione tale da ritenere integrata quella componente di offensività del fatto, abitualmente richiesta dall'ordinamento penale ai fini dell'irrogazione della relativa sanzione. Ciò posto, risulta innegabile che la produzione di un pregiudizio all'estetica e alla pulizia del bene integri un effetto immanente della condotta di imbrattamento; ad esso, però, sembrerebbe più coerente attribuire il rango di c.d. stadio di passaggio, nel senso che tale effetto, da un lato, risulta necessario per la produzione dell'offesa tipica, dall'altro, però, insufficiente a legittimare l'applicazione della pena, postulandosi l'esigenza della summenzionata menomazione (seppur minima) della funzionalità del bene. A conferma di tale assunto argomentativo potrebbe considerarsi la circostanza in cui un soggetto imbratti un bene di sua proprietà (ad esempio riempiendo di scritte effettuate con una bomboletta spray le pareti esterne della propria villetta). In tal modo parrebbe oggettivamente esistere un pregiudizio all'estetica dell'edificio, in specie se rapportato agli immobili adiacenti non inficiati dalla condotta dell'agente, ma l'ordinamento si asterrebbe dall'infliggere la sanzione penale, per un verso in virtù del difetto di tipicità del fatto – stante la mancanza di altruità della res imbrattata – e, per altro verso, in quanto non risulterebbe menomata la funzionalità che il bene aggredito deve conservare a beneficio dei terzi, posto che il proprietario appare l'unico soggetto legittimato a determinare le modalità di uso dei propri beni, anche qualora la condotta realizzata risulti discostarsi dall'abituale modalità di utilizzazione di quella specifica tipologia di cose. Perplessità ancor più intense sembra che possano affiorare dal riferimento esperito dalla sentenza di legittimità al senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini, cagionato dalla presenza lungo la pubblica via dei rifiutati asportati dal cassonetto. Difatti, pur apparendo innegabile che tale sia l'effetto ingenerato nei consociati da simili comportamenti, in specie laddove gli stessi assumano il carattere della abitualità, è altresì opportuno constatare come tale effetto sembri assumere esclusivamente una valenza di carattere soggettivo, risultando peraltro assoggettato ad una componente di variabilità a seconda del livello di sensibilità proprio di ciascun individuo. Sicché esso non appare idoneo ad assurgere alla stregua di bene giuridicamente rilevante, financo meritevole di protezione attraverso la previsione della più severa tra le sanzioni tipizzate dal nostro ordinamento. Tale riflessione appare funzionale a confermare l'esigenza di esperire un'interpretazione della fattispecie in parola che miri ad individuarne il suo concreto contenuto di offensività, anche allo scopo di non arretrare eccessivamente la soglia della rilevanza penale del fatto. Sviluppate tali riflessioni e, prima di formulare taluni rilievi critici in ordine alla motivazione resa dai giudici di legittimità in punto di sussistenza dell'elemento psicologico nella condotta posta in essere dall'imputato, appare possibile elaborare talune sintetiche considerazioni che sembrerebbero sorreggere la soluzione prescelta dalla Suprema Corte. Difatti, appare innegabile come il fenomeno della presenza di cumuli di rifiuti lungo le strade pubbliche abbia ormai assunto il connotato della ordinarietà, raggiungendo picchi estremi in talune realtà territoriali e, come accennato nella parte introduttiva, tale situazione trova una duplice matrice: da un lato discende dalle inefficienze attribuibili alle strutture incaricate di svolgere il servizio di raccolta dei rifiuti e pulizia delle strade, dall'altro deriva dalle condotte poste in essere da singoli individui che si prodigano alla ricerca di materiale oggetto di scarto, non curandosi della situazione di sporcizia e degrado che contribuiscono a creare. A fronte di un siffatto quadro fattuale, la scelta dei giudici di legittimità di ritenere integrato il delitto ex art. 639, cpv., c.p. non parrebbe ancorata esclusivamente alle circostanze caratterizzanti il singolo caso ma sembrerebbe dettata da un'esigenza di carattere generale, protesa a lanciare ai consociati un monito volto a veder ridotte, se non addirittura eliminate, siffatte tipologie di comportamento. Ciò appare desumibile dal riferimento al connotato della dannosità sociale che, ad avviso dei giudici, risulterebbe conferito all'incriminazione dall' «abbandono ormai diffuso e sistematico dei rifiuti […] da parte di chi rovista nei cassonetti». Sul punto sembrerebbe che la Cassazione opti per una soluzione di carattere repressivo, protesa a contenere un fenomeno che, come rilevato, oltre ad assumere i tratti della ripugnanza e del disgusto, ha raggiunto dei picchi di gravità indubbiamente allarmanti. È al contempo innegabile, però, che l'intento di veder cessate tali tipologie di condotte dovrebbe, in prima istanza, esser perseguito con strumenti di carattere preventivo, diretti sia ad una migliore efficienza del servizio pubblico di nettezza urbana, sia ad ampliare gli strumenti di assistenzialismo in favore dei più bisognosi, dovendosi invece collocare solo in via residuale l'operatività dello strumento penale. L'ultimo profilo che merita di essere sviluppato concerne le statuizioni in tema di elemento soggettivo del reato. In prima analisi appare condivisibile la soluzione offerta dai giudici di legittimità, volta a statuire che la fattispecie di cui all'art. 639 c.p. sia punibile a titolo di dolo generico, non richiedendosi, oltre alla coscienza e volontà di realizzare gli elementi costitutivi del fatto tipico, il perseguimento di un fine particolare da parte dell'agente. Appare, invece, maggiormente spinosa la questione concernente l'effettiva sussistenza, nel caso de quo, del coefficiente psicologico in capo all'agente. Pur non revocandosi in dubbio il fatto che l'autore della condotta debba limitarsi a rappresentarsi e volere il novero degli elementi costitutivi del fatto di reato, non dovendosi quindi accertare le ragioni che lo abbiano indotto ad agire – potendo queste ultime, al più, operare sul piano dei motivi a delinquere e dunque rilevare in sede di commisurazione della pena – pare altresì innegabile che, in virtù della collocazione sistematica della fattispecie in analisi, nonché della circostanza che la condotta debba prendere di mira un bene altrui, sia necessario riscontrare la sussistenza, in capo all'agente, di una specifica volontà protesa a cagionare l'effetto imbrattante della res aliena (volontà che potremmo denominare dolus inquinandi). A tale componente volontaristica deve affiancarsi la consapevolezza della produzione di una menomazione la quale, seppur non particolarmente intensa, comunque sia in grado di alterare la funzionalità del bene aggredito. Poste tali coordinate, appare evidente che l'intento concretamente perseguito dall'imputato consistesse esclusivamente nel reperimento di taluni materiali che, destinati alla eliminazione definitiva, potessero rivelare una pur minima forma di utilità personale, apparendo invece più difficile, in specie in assenza di specifici elementi comprovanti tale intento, affermare che il soggetto intendesse imbrattare il suolo pubblico, in modo da cagionare il relativo effetto pregiudizievole per gli utenti del suddetto bene. A diversa soluzione si dovrebbe pervenire, come peraltro avvenuto in un precedente caso posto al vaglio della Suprema Corte, qualora l'abbandono lungo la pubblica via (se non addirittura il getto) di rifiuti prelevati dai cassonetti costituisca la modalità appositamente prescelta dall'agente per cagionare l'effetto di imbrattamento del suolo pubblico. Sulla scorta di tali osservazioni, non sembrerebbe, pertanto, del tutto erronea la ricostruzione operata dal giudice di merito, dalla quale si desume in via principale (se non esclusiva) un atteggiamento di noncuranza da parte dell'imputato, propenso a perseguire un fine prettamente egoistico e al contempo mentalmente svincolato dall'esigenza di rispettare le regole preposte ad una convivenza civile improntata a canoni di ordine e nettezza dei beni destinati all'uso della collettività. A fortiori, tale conclusione sembrerebbe pertinente in ragione delle condizioni di indigenza in cui, evidentemente, versava l'imputato; condizioni che avrebbero implicato una diminuzione – di per sé non necessariamente scusabile – della capacità di conformarsi alle ordinarie regole della convivenza civile. Ciò posto, alla luce di tali considerazioni, pur volendo aderire al contenuto della pronuncia resa dai giudici di legittimità, sembrerebbe utile formulare talune precisazioni (che risultano assenti dal corpo della sentenza), nel senso di ritenere esclusa una componente di intenzionalità nella condotta del reo, in virtù del presumibile difetto del c.d. dolus inquinandi, anche in ragione dell'obbiettivo concretamente perseguito. Sicché potrebbe ritenersi ascrivibile all'agente una componente psicologica assumente le forme del dolo diretto, nel senso che malgrado l'obiettivo primario della condotta fosse il reperimento di materiali protesi a garantire un autosostentamento, la susseguente scelta di abbandonare i rifiuti scartati, anziché ricollocarli nel cassonetto di provenienza, oltreché riprovevole da un punto di vista morale, potrebbe apparire idonea a denotare quel coefficiente psicologico consistente nella certezza, o quantomeno nell'elevato grado di probabilità, di cagionare un evento ulteriore, vietato dalla legge penale, consistente nell'imbrattamento di un bene altrui. Tale conclusione appare coerente con quell'orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto punibile il delitto de quo anche in presenza del coefficiente psicologico doloso meno intenso, estrinsecantesi nel c.d. dolo eventuale. BONETTO, Deturpamento e imbrattamento di cose altrui, in Studium iuris, 2003, 9, 1117-1118. BRICOLA, Danneggiamento (dir. pen.), in Enc. dir., Vol. XI, Milano, 1962, 599 ss. FIANDACA – MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, vol. II, tomo 2°, 7ª ed., Bologna, 2015. MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, 5ª ed., Padova, 2014, 155 ss. MANTOVANI F., Danneggiamento e deturpamento di cose altrui, in Dig. disc. pen., Vol. III, Torino, 1989, 307. MANTOVANI F., Danneggiamento, in Noviss. dig. it., Vol. V, Torino, 1968, 112 ss. |