Il delitto di atti persecutori tra esigenze di determinatezza, rilevanza delle dichiarazioni della vittima e "giurisprudenza di genere"

Valeria Crudo
18 Luglio 2018

La pronuncia in commento ribadisce la centralità delle dichiarazioni della vittima in relazione ai reati posti a tutela della libertà morale e sessuale, condividendo l'approccio giurisprudenziale particolarmente attento alla simmetria del consenso in riferimento al reato di violenza sessuale e la configurazione del delitto di stalking sempre più come reato d'evento “psicologico”.
Massima

In tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla determinazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto l'astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in relazione alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Il caso

Con sentenza del 5 luglio 2013, all'esito di giudizio abbreviato, il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Taranto condannava l'imputato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, riconoscendolo responsabile per i reati di cui agli artt. 612-bis, 527 e 609-bis c.p. (previo riconoscimento dell'ipotesi di minore gravità di cui all'ultimo comma). Nello specifico, a quest'ultimo veniva contestato di aver molestato e minacciato la sua ex ragazza, telefonandole più volte in varie ore del giorno e della notte, inviandole messaggi telefonici, seguendola dappertutto e minacciandola di dire al suo attuale fidanzato dei loro precedenti rapporti anche di natura sessuale, al fine di costringere la persona offesa a ritornare con lui, così cagionandole un perdurante e grave stato d'ansia e di paura, ingenerandole un fondato timore per l'incolumità propria e del ragazzo e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita. Inoltre, all'imputato veniva contestato di aver costretto la sua ex ragazza a subire atti sessuali in macchina (nella medesima strada in cui i due si erano appena fermati per un ulteriore chiarimento), consistiti prima nel toccarla nelle parti intime e subito dopo nel penetrarla per via vaginale.

Investita dell'impugnazione, la Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 3 ottobre 2016, riconosceva all'imputato il beneficio della non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza impugnata.

La difesa dell'imputato proponeva tempestivo ricorso per cassazione avverso la suddetta pronuncia rilevando la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione ai seguenti profili:

  • la valutazione delle dichiarazioni rese della persona offesa, che, secondo la prospettazione dell'impugnante, presentavano significative incongruenze nella descrizione sia dei fatti di causa sia del rapporto sussistente tra i ragazzi, tanto più in considerazione di alcuni messaggi scambiati tra i due, attestanti che il rapporto era proseguito anche dopo la fine del fidanzamento;
  • la ritenuta sussistenza del reato di atti persecutori in difetto delle prove del ricatto e delle minacce asseritamente patite dalla persona offesa e, in ogni caso, della prova dell'evento del delitto;
  • la sussistenza del reato di violenza sessuale nonostante l'assenza di riscontri all'esito della visita medica, sì da doversi escludere il requisito della violenza così come quello della minaccia, non avendo la persona offesa manifestato alcuna opposizione al rapporto sessuale, che, quindi, per l'imputato non era molto diverso da quelli consumati nei mesi precedenti, quando i due non erano già più fidanzati ufficialmente.

I giudici della terza Sezione della Corte di cassazione annullavano senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla fattispecie di cui all'art. 527 c.p. (in quanto non più prevista dalla legge come reato), dichiarando al contempo inammissibili per manifesta infondatezza tutte le doglianze difensive avanzate con l'atto di impugnazione.

Dopo aver chiarito –con puntuali e approfonditi passaggi argomentativi – la corretta valutazione operata dai giudici del merito in relazione alla credibilità della persona offesa, la Corte di cassazione, quanto al reato di cui all'art. 612-bis c.p., aderiva all'orientamento già consolidato secondo cui: «in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla determinazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente edì anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in relazione alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata».

Parimenti, in riferimento al reato di violenza sessuale, il rilievo difensivo sulla mancanza di riscontri di natura medica veniva rigettato in virtù dell'orientamento secondo cui «l'assenza di segni di violenza fisica o di lesioni sulla vittima non esclude la configurabilità del delitto di violenza sessuale, in quanto il dissenso della persona offesa può essere desunto da molteplici fattori e perché è sufficiente la costrizione a un consenso viziato, come appunto avvenuto nella vicenda de qua».

La questione

La pronuncia in commento ribadisce la centralità delle dichiarazioni della vittima in relazione ai reati posti a tutela della libertà morale e sessuale, condividendo l'approccio giurisprudenziale particolarmente attento alla simmetria del consenso in riferimento al reato di violenza sessuale e la configurazione del delitto di stalking sempre più come reato d'evento “psicologico”.

In ambedue i casi il risultato interpretativo è lo stesso: ai fini probatori la certificazione medica non è un elemento necessitato.

Stante le peculiarità del reato di atti persecutori, trattasi di un risultato coerente con il principio di determinatezza della fattispecie? Et quid accidit nei casi in cui la condotta è posta in essere nell'ambito di un contesto affettivo particolarmente conflittuale?

Le soluzioni giuridiche

Con la sentenza in oggetto, la terza Sezione della Corte di cassazione ha ribadito l'orientamento giurisprudenziale particolarmente accorto alla volontà e alla libertà di autodeterminazione della vittima dei reati di violenza sessuale e di atti persecutori.

Dopo una breve premessa sui limiti del sindacato del giudice di legittimità sui vizi della motivazione e sui limiti di deducibilità del travisamento della prova nell'ipotesi di cosiddetta “doppia conforme”, in effetti, la Corte ha confermato la correttezza delle decisioni di merito nella valutazione delle dichiarazioni della persona offesa.

La narrazione della ragazza, ha scritto la terza Sezione, «al di là di alcune marginali contraddizioni, peraltro attentamente esaminate e ridimensionate in entrambe le sentenze di merito, è risultata coerente, sufficientemente dettagliata e priva di risentimenti o intenti calunniatori, avendo avuto inizio le denunce il giorno dopo l'episodio del [omissis], giunto al culmine di una situazione di tensione che andava avanti da mesi, pur nell'alternanza tra minacce, ricatti e fasi di dialogo, talora sfociati anche in sporadiche relazioni sessuali, la cui esistenza tuttavia non è stata correttamente ritenuta idonea a mettere in discussione l'impianto accusatorio, a fronte di una pluralità di elementi fattuali rivelatori di una ben diversa realtà, contraddistinta da una netta prevalenza di condotte chiaramente prevaricatrici», confermando il richiamo al valore intimidatorio di numerosi messaggi (scambiati sia tramite sms che tramite Facebook) tra l'imputato e l'ex ragazza, con conseguente stato di esasperazione di quest'ultima che in più di una circostanza palesava il suo profondo disagio.

La Corte ha evidenziato, inoltre, la presenza di ulteriori riscontri dichiarativi al racconto della persona offesa provenienti dalle affermazioni di diverse persone a conoscenza dei fatti (quali: la madre, il fidanzato dell'epoca della vittima, l'amica intima ed un amico comune con l'imputato), ritenendo – in definitiva – che la valutazione di attendibilità della persona offesa sia stata effettuata prima dal Gup e poi dalla Corte di appello attraverso «una disamina attenta, critica e soprattutto non frammentaria dell'ampio materiale probatorio acquisito», riferito non solo all'episodio sfociato nella violenza sessuale ma anche al periodo ad esso precedente e successivo e dunque all'intero contesto dei rapporti tra i due ragazzi.

In prosieguo, avendo riguardo allo specifico motivo di ricorso relativo all'evento del reato di atti persecutori, il giudice di legittimità ha ribadito l'irrilevanza della mancanza di documentazione medica attestante l'origine degli asseriti turbamenti psicologici, confermando le valutazioni della Corte territoriale secondo cui le dichiarazioni della persona offesa e delle persone a lei vicine erano risultate molto precise in ordine alla descrizione della grave alterazione dell'equilibrio psicologico della persona offesa, quale effetto della condotta dell'imputato da ritenersi certamente abituale.

In tal modo, dunque, è stato ‘rafforzato' l'orientamento giurisprudenziale – esplicitamente richiamato con il riferimento alla sentenza della quinta Sezione, n. 17795 del 2 marzo 2017 – che, in tema di prova dell'evento del delitto di atti persecutori, valorizza le dichiarazioni della stessa vittima del reato e i suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente quali elementi sintomatici del turbamento psicologico patito dalla stessa.

Rispondendo anche all'ultimo motivo di ricorso, infine, i giudici della terza Sezione hanno, altresì, escluso la rilevanza della mancanza di documentazione medica in relazione al reato di violenza sessuale ritenendo provata l'assenza del consenso della persona offesa rispetto al compimento del rapporto sessuale e, dunque, del delitto in contestazione in virtù del principio – già da tempo granitico – secondo cui l'assenza di segni di violenza fisica o di lesioni sulla vittima non esclude la configurabilità del reato di violenza sessuale, atteso che il dissenso della persona offesa ben può essere ricavato da molteplici fattori ed è sufficiente la costrizione a un consenso viziato, come appunto avvenuto nella vicenda oggetto di giudizio.

Osservazioni

Premessa la piena condivisibilità delle conclusioni della sentenza in commento sulla irrilevanza della certificazione medica o comunque – si aggiunge – sulla non necessità di eclatanti indizi di violenza fisica ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, la pronuncia della terza Sezione della Corte di cassazione offre lo spunto per approfondire taluni aspetti del reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., quale reato abituale di evento.

Come è noto, infatti, per la configurazione dell'illecito la norma richiede, alternativamente, la prova di uno dei tre eventi tipizzati nel medesimo disposto.

Ora, deve riconoscersi che se è più agevole acquisire la prova dello stalking laddove si verifica l'evento di far mutare al soggetto passivo le abitudini di vita trattandosi di «un fatto constatato dall'esperienza come comportamento necessitato cui la vittima ricorre per sottrarsi agli atti persecutori» (v. Cass. pen, Sez. III, 7 marzo 2016, n. 9221), l'accertamento è senza dubbio meno agevole nei casi in cui gli stessi atti persecutori cagionano un grave e perdurante stato di ansia o di paura o un fondato timore per l'incolumità, trattandosi di eventi con risvolti che attengono all'equilibrio psico-fisico della persona

Sul punto, nonostante i rischi di derive soggettivistiche paventati da più parti, giova sin da subito chiarire che la determinatezza della fattispecie di cui all'art. 612-bis c.p. è stata confermata dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 172 dell'11 giugno 2014, rigettando la questione di legittimità sollevata in riferimento all'art. 25, comma 2, Cost.

La pronuncia merita attenzione in questa sede poiché il dubbio di legittimità costituzionale ha avuto ad oggetto proprio (e anche) quella parte dell'art. 612-bis c.p. in cui non risulterebbe sufficientemente determinato «cosa debba intendersi per perdurante e grave stato di ansia e di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi ‘fondato'» (cfr. ordinanza del tribunale ordinario di Trapani, Sezione distaccata di Alcamo, 24 giugno 2013, n. 284).

Orbene, nel rigettare la questione, la Corte costituzionale ha chiarito quanto segue: «Quanto al perdurante e grave stato di ansia o di paura e al fondato timore per l'incolumità, trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità dell'equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, n. 14391/2012), ha precisato che la prova dello stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all'agente, e come tali necessariamente rientranti nell'oggetto del dolo. Anche sotto tale profilo, dunque, è dimostrato che l'enunciato legislativo di cui all'art. 612-bis c.p., pur richiedendo un'attenta considerazione dei dati riscontrabili sul piano dei comportamenti e dell'esperienza, consente al giudice di appurare con ragionevole certezza il verificarsi dei fenomeni in esso descritti e, pertanto, non presenta vizi di determinatezza, ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost.».

A ciò si aggiunge che «l'aggettivazione in termini di grave e perdurante stato di ansia o di paura e di “fondato” timore per l'incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l'area della incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima», spettando al Giudice ricostruire e circoscrivere l'area della tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base di consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività (cfr. sentenza n. 172/2014, cit.).

In virtù della pronuncia costituzionale, dunque, l'orientamento giurisprudenziale avallato dalla sentenza qui in commento non solo risulta corretto ma riceve esplicita ‘copertura costituzionale'.

D'altra parte, è certamente significativo che, nell'esame dei passaggi argomentativi della Corte costituzionale in relazione all'evento dello stato di ansia e di paura e alla prova dello stesso, non è dato riscontrare alcun rinvio alla letteratura medica.

Tanto chiarito, si ritiene che la sentenza della terza Sezione della Corte di cassazione abbia mancato l'occasione per fare maggiore chiarezza rispetto a quei casi – come quello di specie – in cui le condotte di atti persecutori vanno a collocarsi nell'ambito di un rapporto sentimentale particolarmente conflittuale.

È indubbio, in effetti, che la sussistenza di taluni atteggiamenti ‘conciliativi' da parte della persona offesa – quali, a mero titolo di esempio, la reciprocità delle chiamate e dei messaggi, il continuare ad avere rapporti sessuali con l'imputato, l'acconsentire ad incontri con il medesimo – sia un dato quantomeno prima facie incongruo rispetto ad uno stato di grave turbamento emotivo della vittima, come tipizzato dall'art. 612-bis c.p. (cfr. sul punto Cass. pen., Sez. III, 7 marzo 2016, n. 9221).

Pertanto, in disparte le specificità del caso concreto, dovrebbe forse riconoscersi che allorquando vi sia da parte della persona offesa un atteggiamento comunque “altalenante” nei confronti dell'imputato si imponga un particolare sforzo di contestualizzazione della condotta e una specifica prudenza valutativa sia in relazione alla prova dell'evento del reato di atti persecutori - tanto più in quei casi in cui l'evento è di tipo “psicologico”-, sia in riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in capo all'agente.

Guida all'approfondimento

LIBERALI, Il reato di atti persecutori. Profili costituzionali, applicativi e comparati, 2012, Milano.

MARINUCCI – DOLCINI (diretto da), Trattato di diritto penale, parte speciale, Vol. X, I delitti contro la persona, 2015, Assago.

PARZIALE – BARTOLUCCI, La violenza sessuale, 2012, Varese.

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