Il divieto di bis in idem non opera nei rapporti tra processo canonico e giudizio penale
19 Giugno 2018
Massima
In caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino membro del corpo ecclesiastico, soggetto anche alla giurisdizione della Santa Sede, con cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina di cui all'art. 11 c.p., la condanna alle sanzioni previste dal diritto canonico, all'esito del processo celebrato innanzi agli organi giurisdizionali ecclesiastici, non preclude il giudizio innanzi al giudice penale per i medesimi fatti, non costituendo il divieto di bis in idem convenzionale principio generale del diritto internazionale riconosciuto e automaticamente recepito dall'ordinamento interno ai sensi dell'art. 10 Cost. Ne deriva che, in caso di irrogazione della sanzione massima della dimissione allo stato clericale nei confronti di un sacerdote imputato del delitto di violenza sessuale commesso in danno di alcuni minori, non sussiste preclusione processuale per il giudizio penale, non essendo applicabile né l'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'accordo Schengen, cui non ha aderito la Santa Sede, né l'art. 4, prot. n. 7 della Convenzione Edu, non essendo la Santa Sede Stato parte della Convenzione ma solo uno dei cinque paesi che godono dello status d'osservatore presso il Consiglio d'Europa, né esistendo, infine, accordi bilaterali tra Italia e Santa Sede che deroghino alle regole indicate dall'art. 11 c.p. Il caso
Un sacerdote veniva ritenuto responsabile di condotte di abuso su minori, all'esito del processo canonico innanzi agli organi di giurisdizione della Santa Sede e condannato, con decreto Pontificio, non impugnabile, alla sanzione "severa" della riduzione allo stato laicale dell'imputato. Nei confronti del medesimo soggetto il Gup emetteva sentenza di condanna, all'esito del giudizio abbreviato, per plurimi episodi di violenza sessuale commessi ai danni di cinque diversi ragazzi, alcuni minori di anni quattordici all'epoca dei fatti e altri minori di anni diciotto, pena rideterminata dal giudice di appello in anni 4, mesi 7 e giorni 10 di reclusione. Nel ricorso la difesa dell'imputato eccepisce la violazione dell'art. 649 c.p.p., in quanto i procedimenti canonico e penale avrebbero riguardato gli stessi fatti e non vi sarebbe dubbio sulla natura sostanzialmente e formalmente penale della sanzione (riduzione allo stato laicale, qualificata come la sanzione massima e più grave che possa essere inflitta a un sacerdote) definitivamente irrogata dal tribunale ecclesiastico (nella specie, dalla Congregazione per la dottrina della fede, all'esito del “processo penale amministrativo ex can. 1720 CIC”, cui ha fatto seguito il decreto del Sommo Pontefice). Si censura, in particolare, la decisione del giudice di appello che ha respinto l'eccezione ritenendo non sussistente alcuna preclusione ex art. 649 c.p.p., non essendo invocabile l'art. 54 della Convezione di applicazione dell'accordo Schengen non avendovi aderito la Santa Sede, né la Cedu, art. 4, prot. n. 7 non avendovi aderito la Santa Sede, né, infine, essendo in vigore tra Italia e Vaticano accordi bilaterali derogatori alla disciplina di cui all'art. 11 c.p., comma 1. Si argomenta, da un lato, che lo Stato Città del Vaticano, pur non avendo mai fatto formale richiesta di adesione all'Ue, ne condivide i principi fondamentali, svolgendo un ruolo di alto profilo nella costruzione dell'UE; dall'altro che il divieto di doppio giudizio sancito dall'art. 4, par. 7 Convenzione Edu e dall'art. 54 del T.F.Ue costituisce un principio generale di diritto riconducibile alla categoria delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, oggetto di ricezione automatica ex art. 10 Cost. A sostegno del valore di principio generale dell'ordinamento richiama quanto affermato da Corte costituzionale con sentenza n. 58 del 1992 e dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 34655 del 2005, evidenziando che diversamente si violerebbe l'art. 24 Cost., essendo impensabile che un soggetto che abbia espiato la pena prevista dal codice canonico debba essere sottoposto ad un nuovo regime sanzionatorio in forza di una seconda sentenza che abbia giudicato sui medesimi fatti. La questione
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte, affronta la questione della preclusione processuale ex art. 649 c.p.p. derivante dalla celebrazione del “processo amministrativo penale con rito canonico” nei confronti di appartenenti all'ordine clericale per gravissimi delitti violativi della Legge universale e dei precetti del Decalogo e della cumulabilità delle sanzioni canoniche inflitte e sanzioni penali per il medesimo fatto (nella specie, condotte commesse da un sacerdote sussumibili in “fatti con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con minori al di sotto dei sedici anni”, di cui al can. 1395, n. 2 e nella ipotesi incriminatrice di atti di violenza sessuale di cui all'art. 609-bis c.p.). Nella specie, il ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 649 c.p.p. e del principio del ne bis in idem internazionale, oggetto di ricezione automatica ex art. 10 Cost., la cui operatività va al di là del singolo ordinamento nazionale, quale principio tendenziale che ispira l'ordinamento internazionale rispondendo a evidenti ragioni di garanzia, sottesa al riconoscimento dell'efficacia preclusiva ad una sentenza straniera che abbia irrevocabilmente giudicato di un reato commesso in Italia da un cittadino straniero. La Suprema Corte, ritenuta astrattamente prospettabile la questione della preclusione, cui è connessa la potenziale sovrapponibilità della grave sanzione canonica a quelle penali, procede alla preliminare verifica della sussistenza delle condizioni per l'operatività del divieto di bis in idem, valutando la medesimezza del fatto oggetto del precedente giudizio (canonico) e, quindi, alla individuazione dei confini applicativi del divieto di doppio giudizio, alla luce della natura convenzionale o pattizia dello stesso, che trova la propria fonte legittimante nell'art. 4, prot. 7, della Convenzione Edu e nel conforme art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Le soluzioni giuridiche
Premessa. Il divieto di doppio giudizio nell'interpretazione Cedu e della Corte costituzionale. Giova premettere quanto elaborato sul tema dalla giurisprudenza della Corte Edu nell'ipotesi di contestuale irrogazione, con provvedimento definitivo e non più opponibile, di sanzioni amministrative pecuniarie (per illeciti penali violativi di norme tributarie e per ipotesi di market abuse) e di condanna penale per i medesimi fatti. La Corte Edu, sin dalla storica sentenza Corte Edu, Sez. II, del 4 marzo 2014, causa Grande Stevens ed altri c. Italia, in relazione a sanzioni irrogate ai sensi degli artt. 187-bis e 187-ter del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Tuf), si è orientata per una interpretazione restrittiva del divieto di duplicazione di giudizi penali e amministrativi e di cumulo delle relative sanzioni per il medesimo fatto, non ritenendo ostativo in tal senso la norma convenzionale in caso di parallelo svolgimento dei due diversi procedimenti penale ed amministrativo. L'orientamento si è consolidato attraverso le pronunce Corte Edu, IV Sezione, del 20 maggio 2014, nella causa Nykanen contro Finlandia, che, ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in idem, richiede la verifica della natura sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate alla luce dei noti “Engel criteria” (definiti da Corte Edu nella decisione 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, serie A, n. 22); nonché Corte Edu, V Sezione, del 27 novembre 2014, nella causa Lucky Dev contro Svezia e, ancor prima, Corte Edu, Grande Camera, del 10 febbraio 2009, nella causa Sergey Zolotukin c. Russia che riconduce il presupposto del “medesimo fatto” alla dimensione storico-naturalistico (rticonducibilità dei fatti contestati innanzi all'autorità amministrativa e al giudice penale alla stessa condotta naturale); infine, Corte Edu – Grande camera del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, in tema di violazioni tributarie, ha chiarito che la scelta legislativa interna di prevedere in materia tributaria un doppio binario, penale ed amministrativo, per lo “stesso fatto” non può essere suscettibile di sindacato e non è ex se in contrasto con il divieto di doppio giudizio, indicando le condizioni ed i requisiti per i quali può ritenersi legittimo il doppio binario sanzionatorio (una “stretta connessione sostanziale e temporale” tra i procedimenti, come già ritenuto da Cedu n. 73661/01, del 13 dicembre 2005, Nilsson v. Sweden). Dal canto suo, la Corte Costituzionale, con la recente sentenza Corte cost. n. 43 del 24 gennaio 2018, proprio in virtù del mutamento giurisprudenziale espresso con dalla Corte Edu con la sentenza sul caso A e B c. Norvegia, ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente per nuovo esame dello jus superveniens in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. – per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 4 Prot. 7 Cedu, nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo – nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei casi di processo penale nei confronti di soggetto destinatario di sanzioni tributarie irrogate in via definitiva,aventi natura sostanzialmente penale. Con due recenti arresti, inoltre, la Suprema Corte (Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2018, n. 23043, P.G. c. Gentile; Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2017, n. 43435, P.G. c. Cataldo, sulla base della consolidata giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 348 del 2007; Corte cost.,n. 311 del 2009; Corte cost.,n. 317 del 2009; Corte cost.,n. 113 del 2011; Corte cost., n. 49 del 2015) ha affermato che il giudice nazionale nell'interpretazione delle norme interne, è vincolato dai soli orientamenti consolidati della Corte di Strasburgo e non può disapplicare una norma interna per contrasto con una norma convenzionale, ma ha l'onere di sollevare questione di costituzionalità della norma interna da disapplicare, per contrasto con l'art. 117, comma primo, della Costituzione, onde consentire alla Corte costituzionale (unica attributaria del relativo potere-dovere) di verificare se tale interpretazione della norma della Convenzione Edu non si ponga in conflitto con altre norme costituzionali, ovvero di valutarne la compatibilità con il nostro ordinamento costituzionale. In altri termini, la norma convenzionale assume rango costituzionale in quanto elemento integrativo dell'art. 117, comma 1, Cost. e, nel sistema delle fonti è soggetta alle operazioni di interpretazione e bilanciamento,della Corte costituzionale, nell'ambito dei giudizi di sua competenza. Infine, deve evidenziarsi che il divieto di bis in idem sancito dall'art. 4, Prot. n. 7, Conv. Edu, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha natura processuale e non sostanziale, consentendo astrattamente l'applicazione, per il medesimo fatto, di più sanzioni, anche tutte da ritenersi sostanzialmente penali, ove sussistenti i parametri dettati dagli Engel criteria, purché all'esito del medesimo procedimento, ovvero di procedimenti legati da un nesso sostanziale e temporale "sufficientemente stretto". In tal senso, oltre a Cortecost., n. 102 del 2016, si è espressa anche Corte Edu, Sez. IV, 13 giugno 2017, Simkus c. Lituania, in un caso di applicazione di una sanzione amministrativa successiva alla conclusione del processo penale, conclusosi con la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati contestati, che ha ritenuto irrilevante la mancata irrogazione della sanzione penale ai fini della operatività della preclusione processuale per il procedimento amministrativo per lo “stesso fatto".
Il divieto di doppio giudizio tra processo canonico e processo penale. Determinato l'ambito applicativo della disposizione, nel caso esaminato da Cass. pen., Sez. III, n. 21997 del 13 marzo 2018, la Corte ha ritenuto che non possa dubitarsi della natura "penale" della sanzione inflitta all'imputato in base all'ordinamento canonico. La dimissione dallo stato clericale (già prevista dal Codice di diritto canonico del 1917 come "riduzione allo stato laicale") è infatti la pena massima istituita per i chierici colpevoli di gravissimi delitti, ai sensi di can. 290, n. 2, comminabile solo nei casi tassativamente previsti dalla Legge universale (tra questi, gli atti contro il sesto precetto del Decalogo fatti con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con minori al di sotto dei sedici anni, di cui a can. 1395, n. 2). La sanzione viene irrogata dal tribunale ecclesiastico competente, a norma dei cann. 1720-1728, all'esito di un processo simile a quello penale, ciò che rende in astratto prospettabile la questione della violazione del divieto di doppio giudizio, essendo stato giudicato l'imputato, in sede penale dall'autorità giudiziaria penale italiana, per fatti di violenza sessuale. In concreto, tuttavia, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che ha escluso l'identità tra fatti già giudicati e fatti oggetto del presente giudizio, non essendovi assoluta certezza di corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato rispetto a quanto accertato dalla Congregazione per la dottrina della fede, sia per la genericità della descrizione degli atti sessuali contestati, sia per la diversità delle persone offese, genericamente indicate negli atti del processo canonico. In tal senso, la dedotta violazione dell'art. 649, c.p.p. non può fondarsi su un giudizio di verosimiglianza, che necessiti di accertamenti di fatto, non consentiti nel giudizio di legittimità (in tali termini, Cass. pen., Sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 598, B). In ogni caso, trattandosi di sanzione irrogata a seguito di processo canonico, celebrato innanzi ad autorità giurisdizionale della Santa Sede, la Corte ha ritenuto che la preclusione processuale operi comunque. Ciò in quanto non è applicabile l'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'accordo Schengen, cui non ha aderito la Santa Sede, né il citato art. 4, prot. n. 7 Convenzione Edu, non essendo Stato parte della Convenzione la Santa Sede, ma essendo solo uno dei cinque paesi che godono dello status d'osservatore presso il Consiglio d'Europa (a far data del 7 marzo 1970), ed in assenza di accordi bilaterali tra Italia e Santa Sede che deroghino alle regole indicate dall'art. 11 c.p. In definitiva, la Corte ritiene che il principio del ne bis in idem sia vincolante per l'ordinamento solo se espressione di fonte pattizia o convenzionale, escludendo che costituisca principio generale del diritto internazionale riconosciuto ed automaticamente recepito ex art. 10 Cost. Sul punto richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale – espresso in relazione a ipotesi parzialmente sovrapponibili a quella in esame – secondo cui in caso di reato commesso nel territorio nazionale da cittadino appartenente ad uno Stato estraneo all'area Schengen, con cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina di cui all'art. 11 c.p. (da ultimo, Cass. pen., Sez. I, 12 giugno 2014, n. 29664, P.G. in proc. Spalevic,; in senso conforme, Cass. pen., Sez. I, 5 aprile 2013, n. 20464, N.; Cass. pen., Sez. IV, 6 dicembre 2016, n. 3315, Shabani), il processo celebrato in quello Stato non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo il principio del ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell'ordinamento interno indipendentemente da disposizioni pattizie tra gli Stati. Ne deriva che, pur sussistente la astratta qualificabilità della sanzione canonica come "penale", ai fini dell'operatività del principio del ne bis in idem, al di là della insufficienza degli elementi certi da cui poter desumere l'identità dei fatti giudicati secondo l'ordinamento canonico e quelli giudicati dallo Stato italiano nel giudizio penale, non consente comunque la possibilità di estendere il divieto all'ordinamento dello Stato Italiano. Osservazioni
La sentenza della Suprema Corte in commento fissa, dunque, i limiti esterni di operatività e rilevanza del principio del ne bis in idem, ribadendone la natura convenzionale o pattizia ed escludendone espressamente l'applicabilità in caso di irrogazioni di sanzioni canoniche nei confronti di ecclesiastici, non avendo la Santa Sede aderito alla Convenzione Edu né alla convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen. Pur riconoscendo che si pone in astratto un problema di compatibilità tra la grave sanzione della dimissione dallo stato clericale irrogata nei confronti di un sacerdote per fatti di violenza commessi in danno di minori, espressamente contemplati dall'ordinamento della Chiesa quali violazioni della Legge universale, e quelle previste dal codice penale ex art. 609-bis, ove sia riconoscibile il presupposto dell'idem factum ex art. 4, prot. 7 della Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, tuttavia la Corte nega in radice l'operatività del citato divieto. La natura convenzionale del divieto non consente di ritenere corretta, ai fini del riconoscimento del principio del ne bis in idem nei rapporti tra Santa Sede e l'Italia, la proposta interpretazione dell'art. 23, comma 2 del Trattato lateranense, che consentirebbe un pieno riconoscimento della giurisdizione sovrana della Chiesa, attraverso la capacità di punire il responsabile di un delitto, riconoscendo lo Stato gli effetti all'interno del suo ordine; né pertinente l'interpretazione di tale norma fornita dal protocollo addizionale modificativo del Concordato, stipulato il 18 febbraio 1984 (punto 2, lett. c), per il quale «gli effetti civili delle sentenze e dei provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche […] vanno intesi in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani». C. INGRAO, L'art. 649 c.p.p. e il ne bis in idem dopo la sentenza della Corte costituzionale 200/2016. Applicazioni pratiche, in questa Rivista, 3 marzo 2018 F. MAZZACUVA, La materia penale e il "doppio binario" della Corte europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1899 ss. A. NOCERA, La Cedu detta le linee applicative del ne bis in idem, in questa Rivista, 23 dicembre 2016. C. SANTORIELLO, Il ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue: “così è se vi pare” (o almeno se così riterrà il singolo giudice nazionale), in questa Rivista, 23 aprile 2018. |