L’individuazione dell'interesse e del vantaggio dell'ente in caso di reati colposi
21 Maggio 2018
Massima
In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs. 231 del 2001 all'interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento.
Sulla scia della ormai consolidata giurisprudenza successiva alla celebre sentenza delle Sezioni unite n. 38343/2014, relativa al noto caso Thyssenkrupp, la Cassazione, con la sentenza n. 16713/2018 ha ribadito come l'interesse e/o vantaggio della società nei reati colposi sia da ricondurre al risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento alla normativa antinfortunistica e al risparmio di tempo nello svolgimento dell'attività lavorativa, entrambi volti alla massimizzazione del profitto ad ogni costo, anche a discapito della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori
Il caso
Nel corso di lavori di manutenzione di grondaie svolti sul tetto di un capannone il dipendente di una società, a seguito dello sfondamento di una lastra di vetroresina posta sul tetto, cadeva rovinosamente al suolo e decedeva sul colpo. In sede di indagini, l'infortunio veniva ricondotto a plurime violazioni della normativa antinfortunistica con la conseguenza che venivano condannati il soggetto preposto ed il legale rappresentante della società datore di lavoro nonché era condannata, ai sensi dell'art. 25-septies d.lgs. 231/2001, la medesima società cui era contestata in particolare una grave negligenza nella gestione del rischio, in ragione della mancata nomina del responsabile del servizio prevenzione e protezione, della omessa valutazione del rischio e della mancata formazione del lavoratore, senza che potesse valere – ad escludere la responsabilità tanto delle persone fisiche che dell'ente collettivo – l'assunzione da parte dello stesso lavoratore deceduto di un comportamento abnorme ed imprevedibile. Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione tutti i soggetti coinvolti ed in particolare, per quanto di interesse in questa sede, la società negava che le fossero stati affidati i lavori di manutenzione nel corso dei quali si era verificato il sinistro e quindi era radicalmente insussistente la responsabilità penale del suo legale rappresentante e poi contestava l'esistenza dell'interesse per la società richiesto dal combinato disposto degli artt. 5 e 25-septies del d.lgs. 231/01 perché l'ente sia ritenuto responsabile del reato commesso da un suo dipendente (apicale o subordinato). La questione
Come è noto, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231/2001 l'ente risponde solo dei reati commessi nel suo interesse o vantaggio. La scelta di richiedere – ai fini dell'affermazione della responsabilità per il fatto di reato – che la persona giuridica abbia comunque ricevuto benefici economici dall'altrui condotta criminosa è funzionale all'esigenza di dare piena attuazione, anche in tale ambito sanzionatorio, al principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. In base al citato art. 5 del decreto 231/2001, infatti, la sussistenza della responsabilità da reato dell'ente collettivo si fonda su un duplice presupposto, ovvero da un lato la circostanza che l'illecito sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica e dall'altro che il reato sia stato posto in essere da un determinato novero di soggetti. Tuttavia, laddove il Legislatore avesse ritenuto sufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità della societs, la sola sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica fra soggetto agente ed ente collettivo si sarebbe attestato su una interpretazione del canone di personalità della responsabilità penale assolutamente minimale, ritenendo di poter esaurire la lettura di tale principio costituzionale nella necessaria ricorrenza di una relazione fra l'agente singolo e la società di appartenenza, senza «dare alcun rilievo a momenti interni all'ente medesimo … [e senza considerare] fatti riconducibili al potere generale di organizzazione come la lacuna organizzativa oppure la politica d'impresa» (SELVAGGI). Rispetto a tale impostazione, i redattori del decreto legislativo 231/2001 hanno invece ritenuto che per una corretta attuazione del disposto di cui all'art. 27 Cost. nella materia de qua fosse necessario richiedere anche che la persona fisica avesse agito delittuosamente nell'interesse dell'ente ovvero che questi avesse comunque tratto un vantaggio dall'illecito. Non si è quindi reputata sufficiente – ai fini della dichiarazione di responsabilità della societas – la circostanza che il singolo avesse agito per conto dell'organizzazione, perché la responsabilità di quest'ultima non può fondarsi sulla mera esistenza di un rapporto di compenetrazione organica fra singolo e persona giuridica, senza alcuna considerazione delle conseguenze che l'ente può ottenere dalla altrui condotta delittuosa, mentre è proprio la considerazione di tali esiti che permette di comprendere se l'azione del singolo vada riferita alla posizione apicale che egli riveste all'interno della società o se si sia invece in presenza di una condotta tenuta in assoluta autonomia ed anche in spregio agli obblighi di gestione societaria. La tesi assolutamente prevalente tanto in dottrina che in giurisprudenza è quella secondo cui il requisito dell'interesse va diversificato rispetto a quello del vantaggio (ASTROLOGO; BARTOLI; BERNARDO; CIALDELLA). In giurisprudenza, Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn e altri; Cass. pen., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265, Banca Italease Spa; Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615). Quanto al significato, diverso, di questi due termini, l'interesse ha un'indole – per così dire – soggettiva, inequivocabilmente riferita alla sfera volitiva del soggetto persona fisica che agisce, per cui la presenza o meno di tale requisito è suscettibile di valutazione ex ante, potendosene sostenere la sussistenza nella misura in cui la persona fisica non abbia agito in contrasto con gli interessi della società. Di contro, la caratterizzazione del vantaggio è prettamente oggettiva ed opera ex post, per cui la responsabilità della persona giuridica può sussistere anche laddove il soggetto abbia agito prescindendo da ogni considerazione circa le conseguenze che in capo all'ente collettivo sarebbero derivate dalla sua condotta e sempre che fra le conseguenze del reato possa annoverarsi anche il maturare di un beneficio economico a favore dell'organizzazione collettiva. In sostanza, mentre il giudizio circa il fatto che il reato sia stato commesso per il perseguimento di un interesse societario richiede una valutazione in ordine al contenuto ed all'atteggiamento della sfera volitiva del soggetto che pone in essere la condotta, l'accertamento in ordine ai vantaggi tratti dalla persona giuridica a seguito dell'accaduto presenta invece una caratterizzazione oggettiva, nel senso che quand'anche la persona fisica abbia agito nel suo esclusivo interesse, se da tale condotta delittuosa è derivato comunque un beneficio patrimoniale in capo alla società tale circostanza è sufficiente – unitamente ad altri profili richiamati dal d.lgs. 231/2001 – per poterne affermare la responsabilità. Come è stato sostenuto in giurisprudenza, si deve «distinguere un interesse "a monte" per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato "ex ante", sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo). La distinzione fra le nozioni di interesse e vantaggio è essenziale quando il reato presupposto ha natura colposa – come, peraltro, verificatosi nel caso di cui alla sentenza in commento. In proposito, va ricordato che dopo l'introduzione nel corpo normativo del decreto legislativo n. 231 del 2017 – che per la prima volta inseriva nell'ambito dei reati presupposto della società anche gli illeciti colposi ed in particolari i delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p., quando la morte o le lesioni sono conseguenza della violazioni di norme antifortunistiche – si era sostenuta l'incompatibilità fra i criteri di determinazione della responsabilità dell'ente (in particolare la circostanza che il reato debba essere commesso nell'interesse o a vantaggio della società) e l'ipotesi di responsabilità della persona giuridica per i reati di omicidio e lesioni colpose conseguente a violazione della normativa antinfortunistica. Tale tesi è però stata immediatamente respinta dalla giurisprudenza, dapprima di merito (Trib. Trani, Sez. dist. di Molfetta, 11 gennaio, in Corr. Merito, 2010, 410; Trib. Pinerolo, 23 settembre 2010, in rivista231.it; Gup Trib. Novara, 1 ottobre 2010, in Dir. pen. cont.) e successivamente, con maggiore autorevolezza ed i termini definitivi dalla Suprema Corte (Cass. pen., Sez. unite, 15 settembre 2014, n. 37712, ThyssenKrupp. Per altre decisioni, si vedano Cass. pen., Sez., IV, 19 febbraio2015, n. 18073; Cass. pen., Sez. IV, 16 luglio 2015, n. 31003, Italnastri Spa.; Cass. pen., Sez. V, 21 gennaio 2016, n. 2544; Cass. pen., Sez. IV, 20 luglio 2016, n. 31210). In particolare, secondo la Cassazione la sussistenza dell'interesse dell'ente si deve accertare in relazione alla condotta colposa e non all'evento verificatosi, per cui l'interesse può essere correlato anche ai reati colposi d'evento, rapportando i due criteri indicati dal citato art.5 d.lgs. 231/2001 non all'evento delittuoso, bensì alla condotta violativa di regole cautelari che ha reso possibile la consumazione del delitto, mentre l'evento andrebbe ascritto all'ente per il fatto stesso di derivare dalla violazione di regole cautelari: come detto in una decisione di merito, «non c'è dubbio che solo la violazione delle regole cautelari poste a tutela della salute del lavoratore può essere commessa nell'interesse o a vantaggio dell'ente – allo scopo di ottenere un risparmio dei costi di gestione – e che l'evento lesivo in sé considerato [è] semmai controproducente per l'ente», con la conseguenza che «il collegamento finalistico che fonda la responsabilità dell'ente [...] non deve necessariamente coinvolgere anche l'evento, quale elemento costitutivo del reato, giacché l'essenza del reato colposo è proprio il risultato non voluto» (giudice dell'udienza preliminare di Novara, citata). A questa conclusione non può obiettarsi che – in questa prospettiva – gli eventi della morte o delle lesioni finirebbero con l'essere imputati automaticamente e oggettivamente all'ente tutte le volte in cui si accerti un suo interesse o vantaggio in relazione alla condotta imprudente della persona fisica che li ha causalmente determinati. In proposito, si è già sopra evidenziato come non sia sufficiente a radicare la responsabilità dell'ente collettivo la circostanza che lo stesso abbia ottenuto un vantaggio o perseguito un suo interesse a seguito della (o mediante la) commissione di uno dei fatti di reato di cui agli artt. 25 ss. d.lgs.231/2001, dovendosi anche rinvenire una colpevolezza dell'ente medesimo – la cosiddetta colpa di organizzazione -, da individuare nell'incapacità della persona giuridica di darsi una organizzazione e di fornirsi degli strumenti necessari ad evitare che nell'ambito della propria attività imprenditoriale vengano poste in essere determinate tipologie di illeciti. Proprio il necessario ricorrere di questo deficit organizzativo in capo alla persona giuridica – quale presupposto necessario per la sua dichiarazione di responsabilità – consente di comprendere come sia possibile sostenere che la condotta criminosa del singolo amministratore, pur connotata da colpa e negligenza, possa dirsi comunque essere stata assunta nell'interesse dell'ente collettivo di appartenenza: infatti, pur non avendo l'ente interesse né alla lesione del lavoratore né alla violazione della regola cautelare il concreto esame della vicenda potrà comunque far emergere prospettive puntuali, di regola collegate alla organizzazione e/o all'andamento della produzione – ad esempio, un risparmio mediante il taglio dei costi connessi alla sicurezza o un maggior livello produttivo – delle quali si può dire che manifestino l'interesse della compagine organizzata a non evitare il reato. Quanto poi alla possibilità di rinvenire in capo all'ente un profitto economico maturato e derivante dalla commissione di un reato colposo, secondo la giurisprudenza il profitto del reato è qualsiasi vantaggio economico che costituisca un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale che abbia una diretta derivazione causale dalla commissione dell'illecito (Cass. pen., Sez. unite, 3 luglio 1996, Chabni; Cass. pen., Sez. unite, 24 maggio 2004, Focarelli; Cass. pen., Sez. unite, 25 ottobre 2005, Muci). Tale impostazione però non comporta che tale beneficio debba essere individuato nell'utile che il reo trae dalla sua condotta delittuosa né tanto meno che debba tradursi in un accrescimento materiale del suo patrimonio – insomma non è necessario che in conseguenza del reato il responsabile dello stesso acquisisca la disponibilità di beni o somme di denaro, ulteriori rispetto a quello di cui era già in possesso -, giacché il profitto del crimine è nozione comprensiva anche di qualsivoglia utilità che il criminale realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa (Cass. pen., Sez. unite, 25 ottobre 2007, n. 10280, Miragliotta). Sulla scorta di queste riflessioni diventa agevole riconoscere che nulla preclude la possibilità di rinvenire un profitto anche in presenza di reati colposi, e in specie laddove la condotta colposa si concreti nella violazione della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. In tale ipotesi, infatti, il profitto può individuarsi, quanto meno, nel risparmio di spesa inerente l'ammodernamento e la messa a norma degli impianti e più in generale la mancata adozione delle doverose misure di sicurezza e prevenzione degli infortuni e malattie professionali – dovendosi poi considerare, accanto a tale profilo, anche il beneficio pervenuto in capo alla società dalla prosecuzione dell'attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza: la nozione di profitto assume significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui è il termine è richiamato ed in presenza di reati colposi di evento, posto che la responsabilità del reato è attribuita all'ente in quanto la condotta violativa delle regole cautelari è stata assunta nel suo interesse, l'idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l'ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Le soluzioni giuridiche
Nel confermare la responsabilità della società in relazione al decesso del lavoratore, la Cassazione premette che il datore di lavoro deve vigilare sul rispetto delle regole di cautela da parte del dipendente, esigendo che questi operi in conformità alle norme sulla sicurezza, con la conseguenza che se l'evento lesivo o mortale, derivato dalla violazione di una regola cautelare, rappresenta proprio la concretizzazione del rischio che la norma mirava ad evitare e tale rischio era prevedibile ex ante dall'autore della violazione, egli non potrà che rispondere per l'evento dannoso che avrebbe dovuto prevenire attraverso l'osservanza della norma cautelare violata. Pertanto, la condotta colposa della vittima – salvo il caso in cui il comportamento del dipendente sia così abnorme per la sua eccezionalità ed imprevedibilità da sfuggire completamente al controllo del garante – non esonera da responsabilità il datore di lavoro che, essendo il destinatario della normativa antinfortunistica, deve prevenire anche scelte sconsiderate (ma prevedibili anzi tempo) da parte del dipendente indisciplinato, idonee a compromettere la sua incolumità psico-fisica. Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte ha escluso che nel caso di specie si versasse nell'ipotesi di un incidente occorso in seguito a una condotta assolutamente straordinaria del dipendente, riscontrandosi profili di responsabilità del datore di lavoro ed amministratore dell'impresa collettiva e da ciò derivava, con riferimento al sistema sanzionatorio d.lgs. 231 del 2001, la sussistenza del primo profilo necessario perché potesse riconoscersi la sussistenza della responsabilità della società, ovvero l'essere il reato stato commesso ed attribuibile alla responsabilità del vertice aziendale. Quanto all'ulteriore profilo necessario per la sussistenza della responsabilità ex d.lgs. 231/2001, ovvero la sussistenza di un interesse o vantaggio riconducibile all'evento delittuoso verificatosi, la Corte richiama la giurisprudenza sopra esaminata in tema di compatibilità logica tra la non volontà dell'evento (tipica delle fattispecie colpose) e il finalismo che sottende l'idea di perseguimento di un interesse o di un vantaggio, ribadendo che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento antigiuridico che questa determina – non presentando di conseguenza nessuna incoerenza l'affermazione secondo cui una condotta violativa di una norma cautelare risulta essere stata adottata per realizzare un interesse o un vantaggio dell'ente, pur prevedendo che da essa possa scaturire un evento lesivo che però non si intende cagionare. In quest'ottica, e riferendo le suddette affermazioni ai reati di omicidio e lesioni colpose conseguente alla violazione di normative antinfortunistiche, risulta comprensibile – secondo la Cassazione – che l'interesse o vantaggio perseguito dall'ente con la mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza possa individuarsi nel risparmio di risorse economiche conseguente all'omessa predisposizione di tali misure antinfortunistiche. È innegabile, infatti, che l'ente realizzi un risparmio di spesa se non investe nelle misure precauzionali che avrebbe dovuto adottare per prevenire l'incidente poi verificatosi, così come realizza un risparmio di tempo, conseguente alla velocizzazione dell'attività lavorativa che altrimenti sarebbe stata rallentata dalla necessità di osservare attentamente tutte le regole di cautela: in tali casi, se non si verità nessun incidente allora la vicenda porterà ad una completa satisfazione dell'azienda la quale avrà ottenuto un effettivo vantaggio, rappresentato dai suddetti risparmi di spesa o di tempo nell'esecuzione dei lavori, mentre quando alle carenze organizzative ed antinfortunistiche seguirà il verificarsi di un sinistro ciò non farà venire meno l'interesse per lo stesso che l'agente si era configurato in termini di massimizzazione del profitto a discapito dei costi da sostenere per un'adeguata sicurezza dei lavoratori. Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano giustamente individuato il vantaggio economico indiretto che la società aveva tratto dalla vicenda nel risparmio dei costi non sostenuti in conseguenza della mancata adozione delle misure di sicurezza richieste dalla legge in materia di infortuni sul lavoro. Tale considerazione, unitamente alla circostanza che la persona giuridica non era stata in grado di dimostrare (in tal caso, tale onere probatorio gravava sull'ente in quanto, come detto, uno dei soggetti condannati per il reato era un organo apicale dell'impresa) l'adozione e l'efficace attuazione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire i reati della stessa specie di quello verificatosi e l'elusione fraudolenta delle procedure e prescrizioni ivi contenute da parte degli autori materiali del reato, hanno correttamente condotto i giudici di merito a condannare la società. Osservazioni
La sentenza in commento è per più aspetti condivisibile anche perché ribadisce un orientamento ormai assolutamente consolidato della giurisprudenza – orientamento rispetto al quale avevamo fin dall'origine e prima ancora che lo stesso venisse adottato dalla Corte di cassazione (SANTORIELLO) – ma al contempo necessita di alcune precisazioni onde evitare che, ammessa la compatibilità commissione fra reati colposi e perseguimento di un interesse o vantaggio a beneficio dell'ente collettivo, tale conclusioni si tramuti in una sorta di automatismo in base al quale ogni qualvolta si verifichi una violazione antinfortunistica da cui derivi una malattia o un infortunio del lavoratore possa per ciò solo dirsi dimostrata la circostanza che l'ente ha tratto dalla vicenda un vantaggio economico derivante dal risparmio dei costi o da una accelerazione dei tempi di lavoro. Di contro, va osservato che non tutte le violazioni delle disposizioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro sono riconducibili allo scopo di far conseguire un vantaggio economico all'impresa, ben potendo individuarsi, nella casistica giurisprudenziale, casi in cui gli infortuni si verificano per cause non direttamente riconducibili ad una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza. Di conseguenza, occorre sempre – e anzi potrebbe dirsi soprattutto quando si tratti di reati colposi –che il giudice fornisca adeguata prova del fatto che gli addebiti di colpa specifica ascritti all'imputato persona fisica siano qualificabili come condotte deliberatamente strumentali al conseguimento di un apprezzabile risparmio di spesa da parte dell'ente, differenziando l'ipotesi in cui la violazione delle regole cautelari corrisponda alla realizzazione di una precisa politica d'impresa, orientata in tal senso per fini economici dai casi in cui tale circostanza dipenda, invece, da una errata gestione o omessa vigilanza sulla normativa antinfortunistica (indipendentemente da un interesse specifico dell'ente). Laddove la prova circa il fatto che il soggetto apicale abbia commesso il fatto nell'interesse o a vantaggio dell'ente manchi, allora la società deve andare comunque esente da pena, pur se non ha adottato alcun modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati, non può essere ritenuto responsabile di alcunché”, divenendo di contro essenziale per l'ente dimostrare di avere adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati quando un'acquisizione probatoria in ordine ai vantaggi che lo stesso ha conseguito dalla vicenda - o relativamente all'interesse perseguito con il proprio comportamento riprovevole - venga conseguita (Cass., sez. II, 10 luglio 2015, n. 29512). ASTROLOGO, Brevi note sull'interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, 657; BARTOLI, Le Sezioni Unite prendono coscienza del nuovo paradigma punitivo del "sistema 231", in Soc., 2015, 215; BERNARDO, Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato, in Dir. Prat. Soc., 2006, 60; CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. Pen., 2014, 1361; SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell'interesse o a vantaggio della società, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 1, 161; ID., I requisiti dell'interesse e del vantaggio della società nell'ambito della responsabilità da reato dell'ente collettivo, 2008, 3, 49 SELVAGGI, L'interesse dell'ente collettivo quale criterio di iscrizione della responsabilità da reato, Napoli 2006;
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