Il Blue Whale Challenge è un “gioco” odioso ma perché vi sia reato non è sufficiente la semplice istigazione
08 Maggio 2018
Massima
Perché possa dirsi integrato il paradigma normativo di cui all'art. 580 c.p. occorre che l'istigazione al suicidio venga accolta, in quanto la norma postula che il soggetto indotto commetta effettivamente l'atto autolesivo; la figura tipica si realizza altresì allorquando il soggetto istigato – appunto accogliendo l'istigazione – compia un tentativo di suicidio (fatto che di per sé non costituisce reato) e, non riuscendo a realizzare il proposito, si procuri almeno una lesione grave o gravissima. Rimangono quindi fuori dall'alveo previsionale della disposizione codicistica suddetta tutte quelle ipotesi di: a)istigazione non accolta; b) istigazione accolta ma non seguita dalla concretizzazione – a opera dell'istigato – di un tentativo di suicidio; c) istigazione accolta, alla quale faccia seguito l'esecuzione di un atto suicida, che sia però tale da comportare solo lesioni lievi o lievissime. Il caso
Nella concreta fattispecie, la Suprema Corte si è pronunciata in sede di ricorso avverso un'ordinanza pronunciata dal tribunale del riesame, che aveva confermato il sequestro probatorio di un telefono cellulare e di vario altro materiale informatico. Per quanto qui di interesse, era stato contestato all'indagato di aver inviato ad una minore un messaggio di tenore francamente inequivocabile (questo testualmente lo scritto: “manda audio in cui dici ke sei mia schiava e della vita non ti importa niente e me la consegni”); il tutto si inseriva nell'ambito appunto del gioco noto come Blue Whale Challenge (qui il termine gioco è inserito in corsivo e ciò vale – così come del resto le virgolette adoperate dalla Cassazione – quale ovvia manifestazione di sincero disprezzo nei confronti di questa pratica ripugnante). Pur confermando il sequestro in relazione al delitto ex art. 609-undecies c.p., la Corte ha però stabilito l'insussistenza – nella concreta fattispecie – del fumus del reato di cui all'art. 580 c.p. Tale modello legale non è infatti configurabile in assenza della realizzazione – da parte del soggetto istigato – di un suicidio realizzato oppure, in via alternativa, di un tentativo di suicidio sfociato almeno nella produzione di lesioni gravi o gravissime. La questione
La quaestio iuris involge quindi la delimitazione dei confini dell'istigazione penalmente rilevante. In particolare, si pone il tema della differenziazione fra le differenti gradazioni dell'istigazione. Da una parte, l'istigazione per così dire fine a se stessa (che è punibile solo allorquando ciò sia espressamente previsto dal Legislatore, come ad esempio nelle figure tipiche ex artt. 266, 302, 414, 414-bis, 415 c.p., pure richiamate in motivazione giudici di legittimità); dall'altra invece quella forma di istigazione che – venendo accolta dal destinatario, il quale finisca così per sposare il proposito dell'agente – conduca alla concretizzazione di un atto autolesivo di almeno rilevante entità. Rammentiamo peraltro come il far nascere un proposito presupponga – tanto quanto il fatto di fortificare una intenzione antecedente – una reale attitudine della condotta a convincere, a suggestionare profondamente o addirittura a plagiare definitivamente l'altrui psiche. La norma postula quindi che l'attività persuasiva influisca in concreto sulla volontà del soggetto passivo. Ricordiamo però anche che laddove tale condotta – da suggestiva e allettante – si faccia invece intimidatoria e assertiva, o anche ingannevole, si verterà in tema di omicidio volontario: verrà infatti in tal caso a mancare il requisito della libera scelta da parte del suicida.
Pende poi come noto – in riferimento all'art. 580 c.p. – la questione di legittimità costituzionale «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 I comma e 117 della Costituzione in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 II comma e 27 III comma della Costituzione» (Assise Milano 14 febbraio 2018, n.r. ord. 43/2018, in G.U. del 14 marzo 2018). Le soluzioni giuridiche
La struttura del reato di istigazione al suicidio è ben nota. In particolare, gli esegeti della norma hanno sempre avvertito l'esigenza di delineare bene il perimetro della tipicità di tale figura; di segnare quindi nettamente i confini esterni della materialità del fatto. Occorre così anzitutto distinguere tale modello legale rispetto al delitto di omicidio del consenziente (in ragione del grado e delle modalità di partecipazione alla soppressione, che connotano l'agire del soggetto agente; sulla base inoltre dell'ulteriore criterio differenziale, costituito dal mantenimento – da parte della vittima – di una signoria in ordine al dipanarsi dell'iter causale). Nell'omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., si verifica infatti una vera e propria sostituzione del reo alla vittima, al momento della realizzazione dell'atto omicidiario di natura commissiva o omissiva; nel caso dell'istigazione al suicidio punita dall'art. 580 c.p., la condotta tipizzata è invece rappresentata da una forma di determinazione, di aiuto ovvero di rafforzamento rispetto ad un proposito suicidario. Con la conseguenza che è sempre il soggetto passivo a conservare il dominio degli accadimenti; ed è lo stesso istigato che dovrà rendersi materialmente autore del gesto autolesivo. Altro confine oggettivo della fattispecie tipica è rappresentato dalla esistenza di una soglia di punibilità; dalla sussistenza quindi – quale conseguenza diretta dell'atto autolesivo indotto dall'istigazione – almeno di una lesione grave o gravissima (sarebbe a dire: occorre che il tentativo di suicidio produca quantomeno una delle conseguenze fisiche dettate dal primo e dal secondo comma dell'art. 583 c.p.). E in effetti, allorquando il Legislatore ha inteso arretrare sensibilmente la soglia di punibilità di un determinato comportamento umano – in tal modo elevando a condotta punibile la mera istigazione, pur se non seguita da atti esecutivi concretamente apprezzabili – ha creato delle specifiche fattispecie di reato. La Corte richiama infatti, come sopra accennato, le previsioni di cui agli artt. 266, 302, 414, 414-bis o 415 c.p. Si pensi ad esempio al dettato dell'art. 266 c.p. (reato formale, di mera condotta e di pericolo), in relazione al quale il verbo istigare è evidentemente sinonimo di indurre, tentare di convincere altri, stimolare al compimento di una determinata azione, che logicamente sia contraria alle norme. Insomma persuadere taluno, mediante suggerimenti ed esortazioni, al compimento di determinate azioni illecite. Qui è però specificamente prevista la punibilità del mero fatto di istigazione (purché ovviamente connotato da una concreta capacità propulsiva, ossia caratterizzato dall'idoneità a creare un pericolo di induzione - nei confronti di destinatari ben determinati nel numero e nell'entità - alla commissione di fatti illeciti). La fattispecie di istigazione al suicidio postula al contrario la concretizzazione del proposito; sarebbe a dire: la traduzione in atti dell'azione oggetto dell'opera di persuasione o rafforzamento. Perché poi sia configurabile l'ipotesi delittuosa ex art. 580 c.p. – sub specie di rafforzamento dell'altrui (seria e conosciuta dall'agente) intenzione suicida – è necessaria una duplice contestuale prova. Anzitutto, si deve acquisire la certezza oggettiva dell'efficienza deterministica del contributo dell'agente, rispetto al gesto lesivo altrui; in secondo luogo, occorre che il soggetto attivo si rappresenti il fatto autolesivo altrui quale conseguenza causalmente ricollegabile al proprio agire (il principio di diritto è ben spiegato in Cass. pen., Sez. V, n. 22782/2010, laddove si censura proprio il procedimento logico che a volte conduce ad assorbire la prova del dolo in quella della causalità). Osservazioni
Il concetto di istigazione è stato ampiamente dibattuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In generale, trattasi di una condotta che può avere un carattere diretto o indiretto. La distinzione si fonda sulla circostanza che essa abbia un contenuto di aperto e immediato incitamento, o invece si presenti più come una persuasione e proceda attraverso argomentazioni, riflessioni e deduzioni. Il confine negativo della condotta di istigazione viene abitualmente fissato – da quasi tutti gli studiosi delle varie fattispecie penali che richiamano tale condotta – sulla linea della mera manifestazione di pensiero. Ciò in quanto la semplice espressione di opinioni (che prospettino o esaltino l'azione autolesiva, restando però entro l'alveo del puro pensiero teorico), è comunque altro, rispetto alla effettiva esortazione all'azione suicidaria. Nella fattispecie tipica ex art. 580 c.p., dunque, la morte del suicida rappresenta l'evento del reato, mentre la lesione qualificata si pone – come sopra detto – quale soglia minima di rilevanza penale del fatto dell'istigatore. E qui la punibilità solo per l'ipotesi qualificata di lesioni è evidentemente giustificata dalla natura eccezionale della responsabilità per istigazione (v. art. 115 c.p.). Ma la pericolosità del Blue Whale Challenge risiede nella platea sicuramente particolare alla quale esso potrebbe andare a rivolgersi. L'opera di induzione, di sottile persuasione trova infatti un terreno estremamente fertile, allorquando venga condotta in danno di soggetti psichicamente fragili; condizionabili ed attaccabili o in ragione dell'esistenza di disturbi mentali di vario genere, o anche semplicemente perché si tratti di personalità ancora in formazione, non completamente strutturate, tormentate dalle angosce e dai turbamenti che naturalmente si connettono all'età evolutiva. Il dettato normativo prevede del resto casi nei quali viene data preminente importanza alle condizioni soggettive nelle quali versi la persona istigata. Esiste infatti una previsione aggravante, che ricorre allorquando il suicida si trovi in una delle situazioni tipizzate dai numeri 1 e 2 dell'art. 579 c.p. (ossia, in presenza di soggetto minore di età ma ultraquattordicenne, ovvero infermo di mente, ovvero ancora che si trovi in condizioni di deficienza psichica correlata ad infermità o ad abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti). È invece da ricondurre – non solo sotto il profilo sanzionatorio, bensì anche quanto a qualificazione giuridica – entro l'alveo previsionale dell'omicidio volontario, la condotta di chi istighi al suicidio un infraquattordicenne o un soggetto privo della capacità di intendere e di volere. Il problema del blue whale challenge è allora tutto qui. Se si ha infatti ben chiara la natura stessa del gioco (si adopererà ancora questo incongruo termine, nella speranza che ne sia definitivamente chiara l'accezione negativa) e, soprattutto, la tipologia di utenti e le modalità di diffusione, non potrà non convenirsi circa la sostanziale inadeguatezza degli strumenti punitivi attualmente disponibili. In chiave allora di estrema sintesi. Di tale pratica si è inteso parlare soprattutto a partire dal maggio 2017; la vasta eco ha tratto origine da un noto programma televisivo, che ha avuto grande diffusione e che ha provocato profonda impressione nel pubblico. Tale gioco pare dunque consistere in una serie di sfide e nell'adozione di un climax di comportamenti profondamente dannosi, per l'integrità fisica dello stesso protagonista; il tutto è fondato sulla capacità, da parte dei manovratori di tali sfide, di operare un progressivo condizionamento psichico in danno degli aderenti. Il culmine del gioco consiste infine nel suicidio del giocatore. È forse utile anche precisare come – dopo un iniziale periodo di forte emozione e di comprensibile panico diffuso – l'allarme mediatico si sia parecchio ridimensionato. Rimane naturalmente costante ed alto il livello di allerta, tanto nelle istituzioni, quanto all'interno delle famiglie. E allora, non ci si può esimere da una ulteriore considerazione. Il Blue Whale Challenge – sinceramente, quale che ne sia l'effettiva attitudine alla diffusione e pure indipendentemente dalla reale pericolosità del fenomeno – pone il tema della funzione spesso supplente, che incongruamente viene affidata al diritto penale. Gli strumenti investigativi, preventivi e repressivi apprestati dal nostro ordinamento, però, non assegnano al Magistrato penale il compito di colmare eventuali lacune riscontrabili a livello pedagogico o culturale. Non è quindi pensabile che si possa attendere l'intervento in sede penale, perché certe sacche di deserto etico e morale – purtroppo presenti ed anzi in forte espansione nella società moderna – possano esser poste in condizioni di non nuocere. Occorrerebbe invece – ad avviso di chi scrive - un intervento molto più a monte, in questo come in molti altri settori. BERTOLINO, Suicidio (istigazione o aiuto al), in Digesto penale, XIV, Torino, 1999; BRAMANTE – LAMARRA, Bullismo e cyberbullismo. Dinamiche e interventi di prevenzione, in ilPenalista, 15.6.2017; DI MARZO, Aiuto al suicidio e tutela della vita tra doveri di solidarietà e diritti di libertà, in ilPenalista, 15.6.2018; MANTOVANi, Persona (delitti contro la), in Enciclopedia del Diritto, II, Milano, 2008; MARINI, Omicidio, in Digesto penale, VIII, Torino, 1994; PATALANO, I delitti contro la vita, Padova, 1984; PULITANÒ, Diritto penale, parte speciale, Torino, 2014; RAMACCI, I delitti di omicidio, Torino, 1997; RONCO, Digesto Penale, V, 2010; RODOTÀ, La vita e le regole, Milano, 2006; SEMINARA, Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere, in DPP, 2004; |