Sui possibili rimedi in caso di revoca o sostituzione della misura cautelare e mancato avviso alla persona offesa
05 Febbraio 2018
Massima
La persona offesa di un reato commesso con violenza alla persona, nell'ipotesi di mancata notifica dell'istanza di sostituzione o revoca di misura cautelare in atto applicata, non può impugnare autonomamente il provvedimento ma deve necessariamente sollecitare, ai sensi dell'art. 572 c.p.p., il P.M. ad impugnare l'ordinanza viziata. Il caso
Le persone offese, assistite dal loro difensore hanno impugnato l'ordinanza di revoca delle misure cautelari (divieto di dimora e obbligo di presentazione alla P.G.) applicate nei confronti degli indagati, autori di atti persecutori in loro danno. Le misure de quibus, disposte con ordinanza restrittiva del 27 febbraio 2017 sono state revocate il 10 marzo 2017, posto il venir meno della ritenuta gravità indiziaria, all'esito di una richiesta della difesa degli indagati, formulata dopo lo svolgimento dell'interrogatorio di garanzia. Nel ricorso si fa rilevare che la richiesta di revoca non è stata notificata alle persone offese o al loro difensore, come prescritto dall'art. 299, comma 3, c.p.p. all'esito delle modifiche introdotte nel 2013. Alle stesse persone offese non è stato così consentito presentare memorie nei successivi due giorni, come sarebbe stato loro diritto; il provvedimento, peraltro, risulta emesso anche sulla base di elementi non formalmente acquisiti (la visione di un filmato che sarebbe avvenuta durante l'interrogatorio anzidetto, rimasto non versato negli atti del fascicolo). La questione
Quali sono i rimedi e gli strumenti che l'ordinamento conferisce a tutela della persona offesa che non sia stata debitamente avvisata della domanda di sostituzione o revoca della cautela in corso d'esecuzione ai sensi dell'art. 299, comma 4-bis c.p.p.? In particolare, può la persona offesa (sia pure attraverso un difensore, eventualmente munito di procura speciale) ritenersi legittimata a proporre ricorso per cassazione contro l'ordinanza che modifica in melius il regime de libertate del soggetto sottoposto a restrizione? Le soluzioni giuridiche
Dopo aver premesso che alle persone offese – nella peculiare fattispecie concreta – sarebbe senz'altro spettato l'avviso della cui omissione i ricorrenti si dolgono, e aver rinnovato l'esegesi della nozione di delitti commessi con violenza alla persona, indicata nell'art. 299, comma 2-bis, c.p.p. già autorevolmente fornita delle Sezioni unite ( seppur rispetto alla parallela disposizione in tema di avviso della richiesta di archiviazione exart. 408, comma 3-bis c.p.p.) secondo la quale essa «è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 c.p.», in quanto l'espressione violenza alla persona deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale e di diritto comunitario recepite (Cass. pen., Sez. unite, 29 gennaio 2016, n. 10959, C.; nello stesso senso, v. anche Cass. pen., Sez. II, 24 giugno 2016,n. 30302, Opera), la Sez. V esclude, innanzitutto, che la persona offesa possa dirsi legittimata a proporre ricorso per cassazione contro il provvedimento che modifica in melius il regime de libertate del soggetto sottoposto a restrizione. Per il Supremo Collegio a condurre nel senso anzidetto inducono, da un lato, delle ragioni di ordine logico, posto che una diversa opzione implicherebbe, certamente, l'annullamento di un'ordinanza de libertate, necessariamente migliorativa dello status della persona già sottoposta a misura cautelare, formalmente viziata ma adottata sulla base della (sola) domanda della persona offesa e non come ammette la legge su (esclusiva) iniziativa del P.M.; dall'altro, il dato letterale degli artt. 301 e 311 c.p.p., che consentono, rispettivamente, l'appello contro le misure cautelari di sostituzione o revoca, mentre è inibito il ricorso immediato per cassazione , a sua volta proponibile solo contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge. Come ha ammesso, in altra occasione, la stessa Sez. V, in tal senso inducono, peraltro, l' art. 568 , comma 2 c.p.p., a mente del quale i provvedimenti concernenti lo status libertatis non sono altrimenti impugnabili (Cass. pen., Sez. V, 31 marzo 2015, n. 35735, S.) e, quanto al ricorso immediato, l'art. 569 c.p.p. che rinvia, esplicitamente, alle sole sentenze. Scartata la facoltà di un'autonoma impugnazione da parte della persona offesa, in secondo luogo, la Corte individua nell'art. 572 c.p.p. il mezzo idoneo a dare effettività al (pretermesso) diritto della persona offesa. Viene, dunque, identificato nel pubblico ministero, l'organo istituzionalmente preposto a "mediare" le richieste di impugnazione della parte offesa, in tutti i casi in cui la legge non attribuisce a quest'ultima un potere di impugnazione diretta. Sulla scorta di tali considerazioni, per il Supremo Collegio, le persone offese ricorrenti avrebbero perciò dovuto sollecitare il P.M. a impugnare ex art. 310 c.p.p. l'ordinanza viziata, anche al fine di far valere la violazione del diritto dei ricorrenti a ricevere la notifica della richiesta di revoca o sostituzione della misura e, conseguentemente, a rilevare l'inammissibilità della richiesta e il vizio incidente sulla successiva ordinanza, salvo poi proporre, eventualmente, il ricorso per cassazione. L'impugnazione, infatti, per espressa previsione del citato art. 572 c.p.p., avrebbe avuto valore a ogni effetto penale, ivi compreso il necessario ripristino, alle condizioni di legge, della misura revocata o sostituita. La conclusione raggiunta dalla Sez. V si segnala, indubbiamente, per la sua capacità d'individuare all'interno dei contrapposti orientamenti giurisprudenziali esistenti in materia, un rimedio funzionale che, tuttavia, come si dirà, presenta non pochi limiti applicativi. La decisione in commento si colloca, infatti, all'interno di un indirizzo giurisprudenziale, più ampio, che, in virtù del principio di tassatività (dei mezzi, dei casi e dei soggetti) e ai dati testuali già richiamati di cui agli artt. 310 e 311 c.p.p. e agli artt. 568 e 569 c.p.p. nega che possa assegnarsi alla persona offesa, pregiudicata dal mancato avviso della domanda di modifica in melius della cautela in corso d'esecuzione, irrogata per i segnalati reati, il diritto a ricorrere autonomamente per cassazione (Cass. pen. Sez. I, 10 aprile 2013, n. 18963, Bandiera; successivamente, Cass. pen., Sez. III, 29 gennaio 2015,n. 20565, Velia). Una diversa prospettiva è, invece, abbracciata da altra parte della Cassazione. In alcune decisioni si è affermato che anche nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa può dedurre con ricorso per cassazione l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive (diverse dal divieto di espatrio e dall'obbligo di presentazione alla P.G.) applicate all'imputato, qualora quest'ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle, ai sensi dell' art. 299, comma 4-bis, c.p.p., l'istanza di revoca, di modifica o anche solo di applicazione della misura con modalità meno gravose. Un tale diritto, secondo la Sez. VI sarebbe ricavabile dall'intera ratio sottesa alle modifiche che hanno investito la disciplina (d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119) stabilendo l'obbligo de quo nel caso in cui l'istanza non sia presentata in sede di interrogatorio di garanzia (art. 299 c.p.p., comma 3) o nel corso dell'udienza (art. 299,comma 4-bis, c.p.p.) e salvo che la persona offesa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. Se, com'è noto, quell'intervento ha inteso tutelare le vittime di reati caratterizzati da violenza alla persona, in relazione alla possibilità che il soggetto a cui i reati sono attribuiti, si renda ancora pericoloso, conferendogli l'opportunità di apprestare preventivamente le proprie difese e fornendo al decidente elementi idonei a rappresentare situazioni che sconsiglino la revoca o la sostituzione delle cautele adottate, è palese che quel diritto le debba venir riconosciuto proprio in ossequio al quadro di diritti e facoltà più ampiamente riconosciute alle vittime di reato (v. al riguardo, Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, dell'11 maggio 2011, ratificata con l. 77 del 2013, e con le istanze che hanno ispirato la direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 recante norme minime in tema di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, cui è stata data attuazione con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212) (Cass. pen., Sez. VI, 9 febbraio 2016,n. 6864, P.). Una diversa opzione, d'altro canto, originerebbe un grave vulnus alle prerogative specificamente riconosciute alla persona offesa (così, pur nell'ambito di una specifica fattispecie, Cass. pen., Sez. I, 28 giugno 2016, Zacheo). Osservazioni
La decisione in commento, pur nella sua peculiarità, non appare del tutto condivisibile. In primo luogo, non convince il rinvio alla sollecitazione al P.M. quale strumento “mediato”, in grado di tutelare il diritto violato della persona offesa: troppe appaiono le variabili prospettabili. Così, ad esempio, nulla esclude che, pur sollecitato, il P.M. non formuli la richiesta d'appello o che questi si sia (invece) già espresso favorevolmente alla revoca o alla sostituzione della misura. Peraltro, nel caso prospettato, quella sollecitazione si fa più gravosa, posto che le cautele risultano revocate in ragione del constatato mutamento della gravità indiziaria, il ché, come si comprende, rende più arduo fronteggiare la scelta operata dal giudice. Dunque, per quanto certamente condivisibile “in astratto”, il rinvio al mezzo individuato dalla Corte non sembra del tutto idoneo a tutelare in concreto la persona offesa. Indubbiamente, la sentenza ha il pregio di aver messo in evidenza il grave vulnus esistente sul tema. All'atto del varo delle interpolazioni apportate alla legislazione processuale già menzionata sulla scorta delle indicazioni sovranazionali, il Legislatore non pare aver, dunque, confezionato una disciplina completa e capace di soddisfare effettivamente gli interessi che le fonti europee e sovranazionali hanno inteso soddisfare. Sotto tale aspetto non va tralasciato il fatto che analoga carenza si riscontra all'atto dell'eventuale rigetto della misura eventualmente richiesta del p.m. o ancora prima quando, dopo la presentazione della querela da parte della persona offesa, il P.M. sia rimasto inerente e non abbia formulato alcuna istanza cautelare, o, infine, nell'ipotesi di annullamento della misura da parte del tribunale del riesame ex art. 310 c.p.p. D'altro canto, proprio rispetto al quesito affrontato nella sentenza in commento, va osservato come una precedente decisione della Sez. V abbia affermato che il diritto all'impugnazione sarebbe dipeso dalla stessa sanzione dell'inammissibilità, la cui previsione, comporta conseguentemente, la possibilità di farla valere dalla parte nei cui confronti la sanzione è stata eminentemente apprestata. Tuttavia, si fa notare, il Legislatore non ha inserito la nuova previsione nel sistema delle impugnazioni delle misure coercitive, improntato all'iniziativa del (solo) pubblico ministero, dell'imputato e del suo difensore. L'art. 299 c.p.p. non prevede, infatti, un rimedio in favore della persona offesa e, comunque, come detto, la possibilità della persona offesa di "interloquire" nell'ambito del procedimento cautelare costituisce un novum che non trova pregresse specifiche previsioni normative. Ne discende che anche il caso in questione lascia emergere l'incuria e qualche “slabbratura” all'interno di una legislazione del tutto peculiare qual' è quella introdotta del 2013, che per quanto apprezzabile, sicuramente, a qualche anno dalla sua entrata in vigore, merita una ulteriore “messa a punto”. |