Qualche incertezza della Cassazione sul concetto di interesse dell'ente in caso di reati commessi dal suo amministratore
01 Febbraio 2018
Massima
In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, la responsabilità della persona giuridica sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell'ente. In definitiva, perché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l'interesse del medesimo. Il caso
In una vicenda di indebita corresponsione di pubblici contributi, in sede di merito veniva condannato l'amministratore di una società per il reato di cui all'art. 640-bis c.p. nonché veniva dichiarata responsabile ai sensi degli artt. 5, comma 1 lett. a), 6 e 24 d.lgs. 231 del 2001 la società a cui i suddetti contributi erano pervenuti in conseguenza della condotta illecita tenuta dal dirigente apicale. In sede di ricorso per cassazione i difensori dell'ente collettivo lamentavano che i giudici di merito non si fossero minimamente soffermati sulla ricorrenza dell'interesse dell'ente, presupposto indefettibile perché se ne potesse dichiarare la colpevolezza ai sensi del d.lgs. 231 del 2001. Di conseguenza, veniva riscontrato un vizio di motivazione e si chiedeva l'annullamento della decisione. La questione
Come è noto, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231 del 2001 l'ente risponde solo dei reati commessi nel suo interesse o vantaggio. La scelta di richiedere – ai fini dell'affermazione della responsabilità per il fatto di reato – che la persona giuridica abbia comunque ricevuto benefici economici dall'altrui condotta criminosa è funzionale all'esigenza di dare piena attuazione, anche in tale ambito sanzionatorio, al principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. In base al citato art. 5 del d.lgs. 231/2001, infatti, la sussistenza della responsabilità da reato dell'ente collettivo si fonda su un duplice presupposto, ovvero da un lato la circostanza che l'illecito sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica e dall'altro che il reato sia stato posto in essere da un determinato novero di soggetti. Tuttavia, laddove il Legislatore avesse ritenuto sufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità della societas, la sola sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica fra soggetto agente ed ente collettivo si sarebbe attestato su una interpretazione del canone di personalità della responsabilità penale assolutamente minimale, ritenendo di poter esaurire la lettura di tale principio costituzionale nella necessaria ricorrenza di una relazione fra l'agente singolo e la società di appartenenza, senza «dare alcun rilievo a momenti interni all'ente medesimo [e senza considerare] fatti riconducibili al potere generale di organizzazione come la lacuna organizzativa oppure la politica d'impresa» (SELVAGGI). Rispetto a tale impostazione, i redattori del d.lgs. 231/2001 hanno invece ritenuto che per una corretta attuazione del disposto di cui all'art. 27 Cost. nella materia de qua fosse necessario richiedere anche che la persona fisica avesse agito delittuosamente nell'interesse dell'ente ovvero che questi avesse comunque tratto un vantaggio dall'illecito. Non si è quindi reputata sufficiente – ai fini della dichiarazione di responsabilità della societas – la circostanza che il singolo avesse agito per conto dell'organizzazione, perché la responsabilità di quest'ultima non può fondarsi sulla mera esistenza di un rapporto di compenetrazione organica fra singolo e persona giuridica, senza alcuna considerazione delle conseguenze che l'ente può ottenere dalla altrui condotta delittuosa, mentre è proprio la considerazione di tali esiti che permette di comprendere se l'azione del singolo vada riferita alla posizione apicale che egli riveste all'interno della società o se si sia invece in presenza di una condotta tenuta in assoluta autonomia ed anche in spregio agli obblighi di gestione societaria. La tesi assolutamente prevalente tanto in dottrina che in giurisprudenza è quella secondo cui il requisito dell'interesse va diversificato rispetto a quello del vantaggio. A supporto di tale conclusione possono in effetti addursi diverse considerazioni. In primo luogo considerare l'espressione normativa in esame come una mera tautologia «mal si concilia con il criterio ermeneutico di conservazione delle norme». In secondo luogo, non può dimenticarsi come l'art. 12 d.lgs. 231/2001, nel fissare uno dei casi di pagamento della sanzione pecuniaria in maniera ridotta, consideri l'ipotesi in cui l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, ipotizzando così il verificarsi di una situazione in cui sussistono entrambi i presupposti dell'interesse dell'autore materiale dell'illecito ed il vantaggio, sia pur minimo, ricavato dalla persona giuridica in conseguenza della altrui condotta illecita. In terzo luogo, sembra arduo non considerare come sia di ostacolo alla ritenuta equivalenza di significato dei due termini il fatto che nel comma primo dell'art. 5 le parole interesse e vantaggio siano separate dalla particella disgiuntiva o, proprio a segnare il loro diverso e non sovrapponibile significato (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn e altri; Cass. pen., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265, Banca Italease S.p.a.; Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo). Quanto al significato, diverso, di questi due termini, l'interesse ha un'indole – per così dire – soggettiva, inequivocabilmente riferita alla sfera volitiva del soggetto persona fisica che agisce, per cui la presenza o meno di tale requisito è suscettibile di valutazione ex ante, potendosene sostenere la sussistenza nella misura in cui la persona fisica non abbia agito in contrasto con gli interessi della società. Di contro, la caratterizzazione del vantaggio è prettamente oggettiva ed opera ex post, per cui la responsabilità della persona giuridica può sussistere anche laddove il soggetto abbia agito prescindendo da ogni considerazione circa le conseguenze che in capo all'ente collettivo sarebbero derivate dalla sua condotta e sempre che fra le conseguenze del reato possa annoverarsi anche il maturare di un beneficio economico a favore dell'organizzazione collettiva. In sostanza, mentre il giudizio circa il fatto che il reato sia stato commesso per il perseguimento di un interesse societario richiede una valutazione in ordine al contenuto e all'atteggiamento della sfera volitiva del soggetto che pone in essere la condotta, l'accertamento in ordine ai vantaggi tratti dalla persona giuridica a seguito dell'accaduto presenta invece una caratterizzazione oggettiva, nel senso che quand'anche la persona fisica abbia agito nel suo esclusivo interesse, se da tale condotta delittuosa è derivato comunque un beneficio patrimoniale in capo alla società tale circostanza è sufficiente – unitamente ad altri profili richiamati dal d.lgs. 231/2001 – per poterne affermare la responsabilità. Come è stato sostenuto in giurisprudenza, si deve «distinguere un interesse “a monte" per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo). Le soluzioni giuridiche
Nella decisione in commento, la Cassazione ha ribadito i concetti da ultimo espressi ma ha anche formulato alcune considerazioni – opinabili, come vedremo – in ordine alla nozione di interesse. Dopo aver ribadito che interesse e vantaggio sono due concetti differenti, la Corte definisce il vantaggio come la «potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto», valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito. Sulla base di tale ricostruzione la sentenza impugnata viene confermata giacché il reato commesso dall'imputato, amministratore unico e legale rappresentante della società accusata, fu realizzato senz'altro a vantaggio di quest'ultima, avendo tale persona giuridica ottenuto ingenti e indebiti finanziamenti agevolati, consolidando così la propria posizione sul mercato di riferimento, mediante l'ingente iniezione di liquidità ottenuta grazie alla condotta illecita posta in essere da un suo organo apicale, e incrementò illecitamente le proprie disponibilità finanziarie, sfruttando un indebito vantaggio concorrenziale, mediante l'ottenimento di ingenti contributi agevolati per investimenti, giustificati solo nella misura in cui ad essi si fosse accompagnato un contestuale esborso di denaro da parte della società finanziata. Secondo i giudici di legittimità quindi la Corte territoriale avrebbe correttamente dimostrato che il soggetto, ricoprente all'interno della società posizioni apicali, ha commesso il reato presupposto a vantaggio (inteso come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale ed accertabile in modo oggettivo) dell'ente, con la conseguenza che non essendo stato neppure dedotto che l'ente avesse adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati, l'affermazione di responsabilità dell'ente non presta il fianco ad alcuna censura Tuttavia, secondo la Cassazione, nel caso di specie potrebbe affermarsi che il reato è stato commesso, non solo – come appare indiscutibile – a vantaggio dell'ente ma anche nell'interesse (inteso come proiezione finalistica dell'azione) di questi. Secondo i giudici di legittimità infatti gradualmente la giurisprudenza si sarebbe avviata verso una concezione oggettiva non solo del vantaggio ma anche dell'interesse, giacché in diverse pronunce si è affermato che «ai fini della configurabilità della responsabilità dell'ente, è sufficiente che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l'effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell'illecito e purché non sia […], contestualmente stato accertato che quest'ultimo sia stato commesso nell'esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi. Appare, dunque, corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel primo comma dell'art. 5 d.lgs. 231/2001 una dimensione non propriamente o esclusivamente soggettiva, che determinerebbe una deriva psicologica nell'accertamento della fattispecie, che invero non trova effettiva giustificazione nel dato normativo. È infatti evidente come la legge non richieda necessariamente che l'autore del reato abbia voluto perseguire l'interesse dell'ente perché sia configurabile la responsabilità di quest'ultimo, né è richiesto che lo stesso sia stato anche solo consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta. Per converso, la stessa previsione contenuta nell'art. 8 lett. a) d.lgs. 231/2001 – per cui la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è identificato o non è imputabile – e l'introduzione negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell'ente per reati di natura colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere». In quest'ottica, secondo la Suprema Corte, «l'interesse dell'autore del reato può coincidere con quello dell'ente (rectius: la volontà dell'agente può essere quella di conseguire l'interesse dell'ente), ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell'ente» (POTETTI). In definitiva, perché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l'interesse del medesimo (Cass. pen., Sez. V, 26 aprile 2012, n. 40380, Sensi). Sulla scorta di queste indicazioni, si può dunque ritenere che la nozione dell'interesse esclusivo dell'agente che ha commesso il reato presupposto va individuata nei fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo, per un fine personalissimo o di terzi e quindi con condotte estranee alla politica di impresa, mentre le condotte dell'agente, poste in essere nell'interesse dell'ente, sono quelle che rientrano nella politica societaria ossia tutte quelle condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria. Osservazioni
La decisione della Corte lascia in qualche modo perplessi. Intanto, non convince pienamente, la tesi secondo cui anche l'interesse avrebbe una caratterizzazione oggettiva. A ben vedere, infatti, le decisioni citate in proposito dalla Cassazione non affermano affatto tale principio ma evidenziano come si possa parlare comunque di responsabilità dell'ente nel caso in cui il soggetto agente abbia agito nel suo prevalente interesse ma al contempo la persona giuridica abbia ricavato un vantaggio da tale condotta illecita, il che è tutt'altro che una novità posto che è quanto espressamente prevede l'art. 12 comma 1 lett. a) del d.lgs. 231/2001 secondo cui «la sanzione pecuniaria è ridotta […] se: a) l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo». È bene dunque non confondere i concetti: la presenza dell'interesse richiede una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo in relazione all'elemento psicologico della specifica persona fisica autore dell'illecito – e sotto questo profilo è corretta l'affermazione della decisione laddove si sostiene che, di fatto, di condotta tenuta nell'interesse dell'ente può parlarsi solo con riferimento a reati commessi nell'ottica della politica d'impresa -, mentre il criterio del vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito ed indipendentemente dalla finalizzazione originaria del reato. In secondo luogo, sarebbe stato a nostro parere opportuno che la Cassazione avesse ribadito, nella definizione di vantaggio dell'ente, le riflessioni presenti nella decisione Cass. pen., Sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778. In quell'occasione, infatti, la Corte ha negato si possa affermare che, nell'ambito di illeciti realizzati dall'amministratore di una società, possa qualificarsi quest'ultima come beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica. Nel decidere circa la sussistenza di un vantaggio in capo alla società in conseguenza di un illecito criminale posto in essere dai suoi amministratori, la valutazione non va svolta isolando le singole conseguenze del reato ma considerando in termini complessivi ed in un'ottica temporale più vasta rispetto a quella che considera il solo momento di svolgimento della condotta illecita quali siano gli effetti che in capo alla persona giuridica sono derivati dal reato stesso. Si pensi ad esempio all'amministratore il quale, consapevole dell'intenzione dell'assemblea dei soci di rimuoverlo dall'incarico per la sua incapacità gestionale, corrompa un pubblico ufficiale per evitare l'applicazione di sanzioni tributarie o previdenziali a carico della società ed evitare così la sua rimozione: in questa ipotesi non potrà sostenersi che la società si sia avvantaggiata della condotta corruttiva tenuta dall'amministratore, giacché a fronte delle sanzioni pecuniarie non versate si contrappone l'effetto pregiudizievole e di impatto decisamente negativo per l'impresa di non poter rimuovere un soggetto incapace dal ruolo di dirigente dell'azienda. Per le medesime ragioni non potrà mai parlarsi dell'esistenza di un vantaggio per l'ente allorquando vi sia un contrasto fra gli interessi patrimoniali della persona giuridica e la condotta delittuosa posta in essere dal singolo, anche se incidentalmente dal reato siano comunque derivate conseguenze favorevoli per la societas. Oltre alla vicenda presa in esame dalla decisione in parola, si pensi al caso degli amministratori che occultano utili maturati nel corso dell'anno con conseguente risparmio fiscale per l'impresa: in queste ipotesi, infatti, la circostanza che l'ente comunque benefici delle conseguenze dell'altrui crimine è davvero un evento accidentale e nient'affatto sufficiente a fondare un giudizio di corresponsabilità, proprio perché – stante il contrasto fra l'esigenze della società e le finalità del singolo delinquente – in nessun modo potrà sostenersi che il crimine sia riferibile all'organizzazione collettiva. Accanto a queste ipotesi cui fa riferimento la decisione in parola, riteniamo inoltre che deve ritenersi irrilevante il beneficio economico che maturi in capo alla società per ragioni assolutamente casuali ed episodiche ed in conseguenza di reati che sono assolutamente estranei all'ordinario svolgimento dell'attività aziendale. Si pensi all'amministratore di una casa editrice di grande importanza e rilievo per la vita culturale del paese il quale venga sorpreso in atteggiamenti sessuali con minori procuratigli da un'organizzazione che svolge attività di sfruttamento della prostituzione minorile; questi, per evitare lo scandalo, corrompe – magari con fondi prelevati dalle casse della società da lui gestita – gli investigatori e preclude lo svolgimento del processo nei suoi confronti, impedendo così che la vicenda travolga anche le sorti dell'azienda da lui gestita, la quale riceverebbe un grave danno dalla diffusione pubblica della notizia. In questo caso, nonostante la persona giuridica risulti beneficiata dall'altrui condotta illecita, è altresì vero che la circostanza che l'ente abbia ottenuto un qualche vantaggio non dimostra certo l'esistenza di una connessione, di un raccordo, fra il reato commesso dalla persona fisica e l'attività imprenditoriale dell'ente e ciò è sufficiente per concludere che l'ente collettivo debba ritenersi estranei alla condotta criminale. POTETTI, Interesse e vantaggio nella responsabilità degli enti (art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001), con particolare considerazione per l'infortunistica del lavoro, in Cass. Pen., 2013, 2032; SELVAGGI, L'interesse dell'ente collettivo quale criterio di iscrizione della responsabilità da reato, Napoli 2006;
A sostegno della tesi che il requisito dell'interesse va diversificato rispetto a quello del vantaggio: ASTROLOGO, Brevi note sull'interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, 657; BARTOLI, Le Sezioni Unite prendono coscienza del nuovo paradigma punitivo del "sistema 231", in Soc., 2015, 215; BERNARDO, Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato, in Dir. Prat. Soc., 2006, 60 CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. Pen., 2014, 1361; |