Peculato, peculato d’uso o abuso d’ufficio? La Cassazione definisce i confini

11 Dicembre 2017

Le questioni di diritto sollevate nei motivi di ricorso, attinenti alla configurabilità dei delitti di peculato, peculato d'uso e abuso d'ufficio, hanno consentito ai giudici della Suprema Corte di pronunciarsi sugli elementi caratterizzanti le richiamate fattispecie, delimitandone il confine.
Massima

Sussiste il delitto di peculato quando vi è stata una vera e propria cessione del bene, da parte del pubblico ufficiale, a un terzo, perché lo utilizzi uti dominus, in maniera continuativa ed esclusiva, in violazione del vincolo di destinazione attribuito dall'amministrazione. In questo modo si realizza l'interversio possessionis, con la conseguente perdita della disponibilità del bene. Contrariamente al delitto di abuso d'ufficio, ove la violazione dei doveri del P.U. rappresenta la condotta tipica del reato e l' evento coincide con l'ingiustizia del profitto, nel peculato la violazione dei doveri d'ufficio costituisce solo la modalità della condotta appropriativa e l'evento tipico coincide con la stessa appropriazione. Inoltre l'appropriazione, nel peculato, ha come effetto l'estromissione dell'amministrazione proprietaria rispetto al bene, mentre nell'abuso d'ufficio la destinazione del bene, sebbene viziata dalla condotta dell'agente, mantiene la sua natura pubblica e non favorisce interessi estranei all'amministrazione (Nel caso in oggetto un assessore comunale ha ceduto illegittimamente – in violazione del vincolo di destinazione – alla figlia, che la ha utilizzata uti dominus, in via esclusiva e continuativa, una scheda sim ricevuta nelle sue funzioni di consigliere comunale).

Il caso

La Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del 28 marzo 2014 con cui il Gup del tribunale di Monza, all'esito di giudizio abbreviato, aveva riconosciuto responsabile del reato di peculato l'assessore del Comune di Monza, condannandolo alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, con l'interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena detentiva.

Costui infatti, avendo per ragioni d'ufficio la disponibilità dell'utenza tim intestata al Comune e pagata dallo stesso ente pubblico, se ne appropriava, consegnando la scheda telefonica alla figlia minore, che la utilizzava per le sue esigenze personali, anche all'estero, con bollette addebitate al Comune di Monza.

La Corte d'appello di Milano ha ritenuto provata la responsabilità dell'imputato per aver dato in uso pressochè esclusivo e continuato, alla figlia minore, la scheda telefonica, utilizzo che non è avvenuto all'insaputa dell'imputato, ma con il suo pieno consenso.

I giudici hanno inoltre escluso la configurabilità dell'ipotesi di peculato d'uso, ritenendo che nella specie non vi sia stato né un uso momentaneo della scheda né la sua immediata restituzione dopo l'uso, né, infine l'intenzione di restituire il bene dopo l'uso temporaneo.

Sono state infine negate le circostanze attenuanti di cui agli artt. 323-bis e 62 n. 4 c.p.

Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, deducendo, in ordine, l'inosservanza della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'art. 314 c.p. ed alla configurabilità di una condotta appropriativa sorretta dalla portata offensiva e dal dolo richiesti dalla norma incriminatrice; l'esclusione della configurabilità dell'ipotesi del peculato d'uso; esclusione della riqualificazione del fatto nell'ipotesi di cui al reato all'art. 323 c.p., stante la mancanza di interversione del possesso; il mancato riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt. 62 n. 4 e 323-bis c.p.

Più nello specifico.

Nel primo motivo, l'imputato, deduceva l'inosservanza della legge penale e l'illogicità della motivazione in relazione all'art. 314 c.p., lamentando la configurabilità di una condotta appropriativa non sorretta dalla portata offensiva e dal dolo, in quanto il mero uso del telefono, concesso per ragioni d'ufficio, non può equipararsi all'appropriazione richiesta dalla norma. L'oggetto materiale della condotta, infatti, consisterebbe nella scheda sim, mai uscita dalla sfera di disponibilità e dal controllo dell'amministrazione.

Inoltre, sempre nel primo motivo di ricorso, si deduceva l'inoffensività della condotta appropriativa, in ragione dell'esistenza di accordi contrattuali secondo i quali lo sforamento del limite di spesa, relativo al traffico telefonico, avrebbe comportato un onere di rimborso da parte dell'imputato, sicché non avrebbe in alcun modo potuto essere oggetto di appropriazione.

L'aver stabilito un limite alle spese telefoniche esimeva l'amministrazione da ogni controllo sul traffico e sulla destinazione delle telefonate, fermo restando che l'importo, assai minore di quello di cui al capo di imputazione, ed il periodo temporale di riferimento, non avrebbero comunque leso, ad opinione della difesa, la funzionalità dell'amministrazione, risultando, pertanto, la condotta inoffensiva.

Da ultimo si lamentava l'insussistenza del dolo in virtù di alcune emergenze processuali (la mancata segnalazione da parte dell'amministrazione comunale dello sforamento del plafond; le denunce di smarrimento presentate dall'imputato e le dichiarazioni rese dalla figlia, utilizzatrice della scheda sim).

Nel secondo motivo si deduceva la mancata configurabilità del peculato d'uso, in virtù del fatto che l'uso momentaneo non debba intendersi come uso “istantaneo” ma “temporaneo”; nonché la mancanza di prova circa la disponibilità in via continuativa della scheda, per l'intero periodo indicato nel capo di imputazione, da parte dlla figlia dell'imputato.

Nel terzo motivo veniva dedotta la mancata riqualificazione nell'ipotesi di cui al 323 c.p. in assenza di una interversione del possesso, ed infine, nel quarto motivo, la gravosità del trattamento sanzionatorio e la mancata concessione delle attenuanti di cui al 62 n. 4 e del 323-bis c.p.

La Suprema Corte, investita della questione, ha dichiarato i primi tre motivi infondati, mentre, accolto il quarto motivo, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla configurabilità delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, comma 1, n. 4 e 323-bis c.p. rinviando ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.

Chiamati ancora una volta a pronunciarsi sulla fattispecie del peculato, gli Ermellini, analizzando e argomentando su ciascuno dei motivi di ricorso dedotti, sono giunti a tracciare un confine tra le figure del peculato, del peculato d'uso e dell'abuso d'ufficio, chiarendo nel dettaglio la natura intrinseca di ciascun reato.

Quanto al primo motivo, la Suprema Corte ha rilevato come, nel caso in oggetto, debba correttamente ritenersi sussistente il delitto di peculato, in quanto vi è stata «una vera e propria cessione del bene (scheda sim) da parte del pubblico ufficiale ad un terzo, perché lo utilizzasse uti dominus, in violazione del vincolo di destinazione attributo dall'amministrazione. Si è dunque verificata una interversio possessionis con la conseguente perdita della disponibilità del bene. […]La condotta dell'imputato è consistita in una tipica forma di appropriazione, realizzatasi attraverso la cessione illegittima del bene ad un terzo che ne ha fatto un uso continuativo ed esclusivo, in violazione del vincolo di destinazione».

Non può pertanto, a detta della Cassazione, ritenersi sussistente il peculato d'uso (reato ritenuto sussistente da alcune decisioni delle Sezioni unite in materia di uso indebito del telefono d'ufficio) in quanto «non si è trattato», nel caso in esame, «di un uso illegittimo del bene per fini personali e al di fuori dei casi d'urgenza o di specifiche esigenze, ma di una vera e propria cessione della disponibilità della sim ad un terzo estraneo alla pubblica amministrazione». Inoltre «non vi è stato un uso momentaneo della cosa con la sua immediata restituzione dopo l'uso, né l'intenzione di restituire il bene dopo averne fatto un uso temporaneo».

Vi è stata invero una «cessione definitiva, o meglio un atto di disposizione di fatto, per un uso continuo ed esclusivo del bene al terzo» .

Nel peculato d'uso, in sostanza, vi è un «abuso del possesso ma non una stabile inversione in dominio».

Quanto alla dedotta insussistenza dell'inoffensività della condotta, la Suprema Corte ha rilevato che, stante la cessione del bene, il limite del plafond di spesa non riveste alcuna rilevanza ai fini dell'esistenza del reato, ma tutt'al più, ai soli fini del trattamento sanzionatorio.

In relazione al terzo motivo, ovvero alla riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui all'art. 323 c.p., la Corte, conformandosi ad una precedente sentenza del 2001, ha ribadito come nell'abuso d'ufficio «la violazione dei doveri del pubblico ufficiale rappresenta la condotta tipica del reato, il cui evento coincide con l'ingiustizia del profitto, mentre nel peculato la violazione dei doveri d'ufficio costituisce solo la modalità della condotta appropriativa e l'evento tipico coincide con la stessa appropriazione. Inoltre, l'appropriazione cui si riferisce il peculato, ha come effetto l'estromissione dell'amministrazione proprietaria rispetto al bene, invece nell'abuso d'ufficio la destinazione del bene, sebbene viziata dalla condotta dell'agente, mantiene la sua natura pubblica e non favorisce interessi estranei all'amministrazione».

Nel caso in esame essendo intervenuta la cessione di fatto “definitiva” del bene, a favore di soggetto estraneo all'amministrazione comunale, non può che configurarsi il delitto di peculato.

Sul quarto e ultimo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio, i giudici hanno ritenuto scarsamente motivata la sentenza e quindi hanno annullato con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello limitatamente alla configurabilità delle circostanze attenuanti.

La questione

Le questioni di diritto sollevate nei motivi di ricorso, attinenti alla configurabilità dei delitti di peculato, peculato d'uso e abuso d'ufficio, hanno consentito ai giudici della Suprema Corte di pronunciarsi sugli elementi caratterizzanti le richiamate fattispecie, delimitandone il confine.

L'aumento esponenziale, negli ultimi anni, dei reati commessi da pubblici ufficiali ha spinto infatti i giudici, in tutte le sentenze che si sono succedute sull'argomento, a delineare con sempre maggior attenzione e precisione le fattispecie oggi richiamate, al fine di evitare sconfinamenti interpretativi, dubbi e fuorvianti, e di impedire che, condotte ben distinte tra loro, con proprie peculiarità, possano, sulla scorta di un'apparente similitudine, essere indistintamente richiamate e dunque erroneamente applicate.

La questione principale sottesa alla decisione in oggetto ha riguardato dunque i limiti di applicabilità del peculato d'uso e dell'abuso d'ufficio, nel caso in cui un bene, uscito dalla sfera di controllo e disponibilità dell'amministrazione pubblica, venga utilizzato, in modo continuato ed esclusivo, uti dominus, da un soggetto estraneo all'ente e dunque, attraverso una vera e propria interversione del possesso del bene stesso.

Le soluzioni giuridiche

Particolarmente sensibilizzata sull'utilizzo improprio, da parte di pubblici ufficiali, di beni di cui gli stessi hanno disponibilità in ragione del proprio ufficio o delle proprie funzioni, la Suprema Corte, più volte nel corso degli ultimi anni è intervenuta per chiarire la natura intrinseca dei delitti contro la P.A., con particolare attenzione ai delitti di peculato e abuso d'ufficio, soprattutto alla luce della riforma introdotta prima con la legge 86 del 26 aprile 1990, poi con la legge 190 del 6 novembre 2012 e infine con la legge 69 del 27 maggio 2017 (norme queste ultime che hanno notevolmente inasprito il trattamento sanzionatorio dei delitti commessi contro la P.A.)

Il Legislatore ha ritenuto infatti necessario, attraverso la legge 86/1990, cancellare dal delitto di peculato la condotta distrattiva, superando così numerosi dubbi interpretativi generati dalla vecchia formulazione dell'art. 314 c.p. (peculato per distrazione). Per alcuni, infatti, ai fini della configurabilità del peculato per distrazione, era sufficiente che il bene oggetto materiale del delitto fosse utilizzato per il perseguimento di uno scopo diverso da quello cui era destinato, anche se la sua destinazione continuava ad orbitare nell'interesse pubblico; per altri invero era penalmente perseguibile solo la distrazione che comportava la destinazione verso uno scopo difforme da qualsiasi utilità pubblica, con esclusivo profitto dell'agente o di terzi.

Di contro, il Legislatore ha ritenuto doveroso e opportuno ampliare la fattispecie dell'abuso d'ufficio, ritenendo che la condotta distrattiva assumesse rilievo solo se integrava gli estremi dell'art 323 c.p., così di fatto, comportando una sorta di continuità intrinseca tra il vecchio peculato per distrazione ed il nuovo abuso d'ufficio.

Tale soluzione non ha però risolto molti dei dubbi interpretativi circa l'incriminazione della condotta distrattiva, al punto che, in dottrina, alcuni orientamenti ritenevano che il peculato per distrazione rientrasse nel nuovo abuso d'ufficio; altri che nel peculato doveva continuare a sanzionarsi anche la condotta distrattiva, considerata quale particolare forma di appropriazione; per altri ancora doveva farsi riferimento alla tipologia di profitto (se pubblico, rientrava nell'abuso d'ufficio, se privato nel peculato). Disparità di vedute che si sono manifestate non solo in dottrina ma anche nelle pronunce della Suprema Corte, che ha aderito, alternativamente, alle richiamate possibilità.

A seguito della riforma introdotta con la legge 234/1997, che ha ridefinito il reato di abuso d'ufficio, rimane tuttavia da chiarire cosa far rientrare nel concetto di appropriazione, ovvero se la distrazione vada collocata nel più ampio genus dell'appropriazione stessa.

La soluzione, frutto ormai di un consolidato orientamento giurisprudenziale, è stata quella di ritenere che, ove l'agente si comporti uti dominus nei confronti del bene, escludendone il vero titolare, allora si realizza l'appropriazione: per cui, o l'agente esclude il proprietario da qualsiasi rapporto con la cosa (espropriazione) ovvero crea un rapporto di fatto con il bene quale proprietario (impropriazione).

Inoltre, la condotta appropriativa deve provocare un danno nella sfera economica del soggetto cui la cosa appartiene.

Pertanto, a oggi, la Suprema Corte, qualifica il peculato, quale «appropriazione del bene di cui si ha la disponibilità in ragione dell'ufficio o della funzione, con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale lo si possiede, condotta dalla quale deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio pubblico e con l'incameramento da parte dell'agente. Il bene deve uscire in maniera definitiva dalla disponibilità dell'ente, senza che ve ne sia, anche successiva, restituzione».

Quando, invero, vi è un mero indebito uso del bene, che non ne comporta la perdita e la lesione patrimoniale in danno all'avente diritto, allora si ricade nella figura meno grave (e sussidiaria) dell'abuso d'ufficio, ove la condotta si identifica con l'abuso funzionale, cioè attraverso l'esercizio di potestà e l'uso di mezzi inerenti alla funzione pubblica ma per finalità ad essa estranee o diverse da quelle per le quali il potere è concesso, così volontariamente procurando un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio patrimoniale a sé o ad altri.

Condotta d'abuso di ufficio (e non di peculato) ravvisata dalle Sezioni unite nella sentenza n. 19054/2013, nella quale i giudici, valutando il caso di un imputato che utilizzava in modo programmaticamente momentaneo il fax dell'ufficio per scopi privati, ove l'abuso del possesso del bene non si era tradotto in una stabile interversione in dominio – posto che dopo l'uso il bene era stato restituito alla sua destinazione pubblicistica originaria – hanno chiarito che «in caso di utilizzo del telefono d'ufficio non sono oggetto di appropriazione definitiva né il bene materiale né l'energia elettrica, necessaria ad attivare le onde elettromagnetiche, che viene in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente legata al funzionamento dell'apparecchio e, pertanto, non può costituire l'oggetto diretto, specifico ed autonomo della condotta dell'agente, né il costo che la P.A. sopporta per l'utilizzo indebito del bene, trattandosi di una conseguenza della condotta dell'agente infedele, il quale non ha il previo possesso delle somme corrispondenti all'onere economico che la P.A. sostiene per effetto della sua condotta»

Osservazioni

Sono meritevoli di un breve approfondimento le questioni connesse marginalmente affrontate nella sentenza in oggetto e riferibili più nello specifico a:

  • offensività nel delitto di peculato;
  • dolo nel delitto di peculato e nell'abuso d'ufficio;
  • valore economico delle cose oggetto di appropriazione.

In relazione a tali argomenti, sono opportune delle brevi precisazioni a margine, con il richiamo ad alcune massime di giurisprudenza.

Il reato di peculato ha natura plurioffensiva, in quanto tutela non solo la legalità, l'efficienza, la probità e l'imparzialità della P.A., ma altresì il patrimonio della stessa. Ciò implica che l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del reato, rimanendo leso il bene del buon andamento della P.A. (Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 1999, n. 4328; Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2004, n. 2963)

Il dolo del peculato è un dolo generico, ovvero deve sussistete la coscienza e la volontà di appropriarsi del bene che si possiede per ragioni di ufficio o di servizio, bene appartenente ad altri, ovvero all'amministrazione, a nulla rilevando lo scopo che si intende raggiungere.

Il dolo dell'abuso d'ufficio, invece, è in un dolo diretto, in quanto il soggetto, intenzionalmente, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto.

L'oggetto giuridico del delitto di peculato si identifica con la tutela del patrimonio della P.A. da quanti sottraggano o pongano a profitto proprio o di altri, denaro o cose mobili rientranti nella sfera pubblica di cui sono in possesso per ragione del loro ufficio o servizio. La norma presuppone che le cose oggetto di peculato possiedano un valore economico, per cui non sussiste il reato ove le stesse ne siano prive o ne abbiano uno talmente esiguo che l'azione compiuta non configuri lesione alcuna dell'integrità patrimoniale della P.A. (Cass. pen., Sez. VI 19 settembre 2000, n. 10797).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.