Omesso versamento di ritenute: il giro di vite della Cassazione sulla causa di non punibilità ex art. 13 d.lgs. 74/2000
16 Novembre 2017
Massima
Nei reati tributari la causa di non punibilità ex art. 13 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, come modificato ad opera della d.lgs.158 del 2015, trova applicazione ai fatti commessi precedentemente alla sua entrata in vigore e ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 158 del 2015, anche qualora, alla data predetta, era già stato aperto il dibattimento di primo grado se i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e interessi, risultano essere stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche se a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previsto dalle norme tributarie. Il caso
L'imputato, in qualità di legale rappresentante di una società, veniva condannato in primo e secondo grado, per il reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in relazione all'omesso versamento delle ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituti di imposta per l'ammontare di € 339.597,00 per il periodo di imposta 2010, alla pena di mesi otto di reclusione, pene accessorie e confisca per equivalente della somma di € 298.247,00. La difesa dell'imputato proponeva ricorso per cassazione per i seguenti cinque motivi: a) violazione di cui all'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione all'art. 2 c.p. e 13 d.lgs. 74/2000, come modificato dal d.lgs. 158 del 2015, argomentando di aver ottenuto la rateizzazione del debito e di aver corrisposto il pagamento della prima rata e di aver avanzato, alla prima udienza utile nel dibattimento in grado di appello, richiesta di sospensione per il pagamento del debito al fine dell'applicazione della causa di non punibilità ex art. 13 d.lgs. 74/2000, erroneamente respinta dalla Corte d'appello in violazione dell'art. 2, comma 4, c.p. e del principio di retroattività della lex mitior di cui all'art. 7 Cedu, come interpretato dalla Corte di giustizia; b) violazione di legge penale in relazione all'art. 10-bis d.lgs. 74/2000, e vizio di motivazione per avere la Corte d'appello affermato la responsabilità sulla scorta del mero dato documentale ricavato dal modello 770, anziché della prova dell'elemento costitutivo del reato dell'avvenuto rilascio delle certificazioni ai lavoratori. Sul punto, si richiama la giurisprudenza in base alla quale, per la sussistenza del fatto, non è sufficiente la mera omissione del versamento delle ritenute certificate, ma occorre anche il rilascio delle certificazioni ai sostituti anteriormente alla scadenza del termine entro il quale il sostituto deve presentare la dichiarazione; c) violazione di cui all'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione all'elemento soggettivo del reato in presenza di una crisi di liquidità della società, che non avrebbe consentito l'adempimento dell'obbligazione tributaria; d) violazione di legge penale in relazione all'art. 12-bis del d.lgs. 74 del 2000, avendo la Corte d'appello erroneamente ritenuto di poter disporre la confisca per equivalente sull'intero ammontare del debito tributario, non scomputando la somma relativa ai ratei versati, nonché nei confronti del legale rappresentante della società contribuente in assenza di verifica della possibilità di procedere a confisca diretta del profitto del reato nei confronti dell'ente; e) violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio ritenuto eccessivo. La questione
Il caso di specie solleva, principalmente, due questioni: a) la prima riguarda la struttura del delitto previsto dall'art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000 nella precedente formulazione applicata al caso in esame, con particolare riferimento all'elemento del rilascio della certificazione ai sostituti; b) la seconda concerne l'operatività della causa di non punibilità ex art. 13 del d.lgs. 74 del 2000, con particolare riferimento ai fatti antecedenti al d.lgs. 158 del 2015 e ai procedimenti in corso all'entrata in vigore della riforma.
Omesso versamento di ritenute dovute o certificate. Il testo originario dell'art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, come introdotto a seguito dell'entrata in vigore della legge 311 del 2004, art. 1, comma 441, puniva con la reclusione da sei mesi a due anni «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore, a € 150.000,00 per ciascun anno di imposta». A seguito delle modifiche operate dall'art. 7, comma 1, lett. b), del d.lgs. 158 del 2015, oggi è punito «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore, a € 150.000,00 per ciascun anno di imposta». La precedente formulazione della fattispecie incriminatrice in parola contemplava, quindi, esclusivamente l'omesso versamento di ritenute certificate; si trattava di reato a condotta “mista”, in parte attiva ed in parte omissiva, articolandosi in una prima condotta (attiva) di rilascio ai sostituti delle certificazioni relative alle ritenute operate, ed in una seconda condotta (omissiva) di mancato versamento delle predette ritenute. In particolare, sotto il profilo probatorio dell'elemento costitutivo dell'avvenuto rilascio della certificazione delle ritenute operate si erano formati nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti contrapposti. Secondo un primo orientamento, si era ritenuto che la prova del rilascio delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto d'imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituti, potesse essere fornita dal pubblico ministero mediante prove documentali, testimoniali o indiziarie e, in articolare, mediante la dichiarazione fiscale acquisita agli atti ovvero il modello 770, la testimonianza del funzionario erariale sul contenuto della dichiarazione stessa (cfr. Cass.pen., Sez. III, 22 maggio 2014, n. 20778; Cass. pen., Sez. III, 31 luglio 2013, n. 33187; Cass. pen., Sez. III, 11 gennaio 2013, n. 1443). In base al secondo orientamento,poiché la condotta punita è quella del mancato versamento delle ritenute certificate nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell'anno precedente, si è affermata essere necessaria la prova che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti le certificazioni da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso. Secondo tale impostazione, il reato è pertanto ravvisabile solo in seguito al materiale rilascio della certificazione di cui deve essere data prova, non sussistendo alcun illecito penale nel caso in cui il soggetto che ha effettuato le ritenute non le abbia poi versate al fisco e non abbia rilasciato ai sostituiti la relativa certificazione, ovvero l'abbia rilasciata in ritardo. Dunque, la presentazione del modello 770 può assumere la valenza di mero indizio dell'avvenuto versamento delle retribuzioni e dell'effettuazione delle ritenute, in quanto con tale modello il datore di lavoro dichiara di averle appunto effettuate, ma non può costituire elemento di prova dell'avvenuto rilascio delle certificazioni ai sostituiti prima del termine previsto per presentare la dichiarazione, «dal momento che tale modello non contiene anche la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni» (cfr. Cass. pen., Sez. III, 18 marzo 2015, n. 11335). Di conseguenza, si è affermato il principio secondo cui la prova dell'elemento costitutivo rappresentato dal rilascio ai sostituti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, il cui onere incombe all'accusa, non può appunto essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro o dalle dichiarazioni testimoniali aventi ad oggetto tale circostanza (cfr., tra le altre, Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2015, n. 6203; Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 2014, n. 40526).
La causa di non punibilità prevista dall'art. 13 del d.lgs. 74 del 2000. Nell'ambito dei reati tributari previsti dal d.lgs. 74 del 2000, la punibilità può essere esclusa in presenza di alcuni presupposti indicati dalla legge. Difatti, ai sensi del nuovo art. 13 del d.lgs. 74/2000, come riscritto dal d.lgs. 158 del 2015, nelle ipotesi di omesso versamento di ritenute certificate o dovute (art. 10-bis) o di Iva (art. 10-ter) e nei casi di indebita compensazione (art. 10-quater), le condotte che rientrano nelle “nuove” soglie di reato potranno comunque beneficiare della non punibilità a condizione che, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, vengano estinti i debiti tributari, comprensivi di sanzioni amministrative e interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti. A tal fine, ci si potrà avvalere dei diversi istituti deflattivi previsti nell'ordinamento tributario, quali le procedure conciliative e di adesione all'accertamento, nonché del ravvedimento operoso. Se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, il pagamento del debito residuo dovrà avvenire entro tre mesi, termine prorogabile una sola volta per altri tre mesi a discrezione del giudice penale. Si tratta, a ben vedere, di un istituto che riflette, l'intenzione del legislatore del 2015 di mitigare l'impatto applicativo dei reati di omesso versamento dei tributi, in relazione alle ipotesi in cui lo stesso dipenda da situazioni di crisi di liquidità, perlomeno provvisorie e contingenti. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione ritiene fondato il ricorso con riguardo al secondo motivo, con il quale il ricorrente lamenta l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta prova dell'elemento costitutivo del reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000. Dopo aver ricostruito la normativa vigente all'epoca dei fatti contestat, e dopo aver dato atto del contrasto giurisprudenziale sopra illustrato, la Corte, ritenendo «non […] condivisibile l'affermazione della sufficienza del modello 770 a dimostrare il rilascio della certificazione ai sostituti, non avendo alcuna efficacia confessoria», ribadisce l'orientamento ormai consolidato in tema di onere della prova della condotta omissiva nella vigenza della precedente disciplina, affermando il seguente principio di diritto: «nel reato di omesso versamento di ritenute certificate di cui all'art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 nella precedente formulazione applicata al caso in esame ratione temporis, spetta all'accusa fornire la prova dell'elemento costitutivo rappresentato dal rilascio ai sostituti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate e tale prova non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro». Tale assunto viene avvalorato attraverso l'utilizzo del criterio logico dell'argumentum a contrario, desunto dalla novella del 2015 che ha inserito la dichiarazione annuale del sostituto d'imposta accanto alla certificazione rilasciata ai sostituiti, «intendendo estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute sulla base della dichiarazione mod. 770 (per i fatti successivi alla sua entrata in vigore)»; tale addizione testuale comporta - secondo i giudici di legittimità - la conclusione per la quale la precedente formulazione della fattispecie racchiudeva nel proprio perimetro di tipicità soltanto l'omesso versamento di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti d'imposta, il che richiede, sotto il profilo probatorio, la dimostrazione dell'avvenuto rilascio della certificazione medesima ai sostituiti (sul punto la Corte richiama anche la giurisprudenza intervenuta all'indomani della modifica normativa del 2015, segnalando tra le altre Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2016, n. 10104; Cass. pen., Sez. III, 30 marzo 2016, n. 41468; Cass. pen., Sez. III, 20 settembre 2016, n. 48302; Cass. pen., Sez. III, 29 novembre 2016, n. 51417). Per tale ragione, la Corte annulla con rinvio la sentenza impugnata per un nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d'appello di Milano, e dichiara assorbiti gli altri motivi di ricorso ed in particolare il primo motivo, con il quale il ricorrente chiedeva l'applicazione dell'art. 13 del d.lgs. 74 del 2000, rispetto al quale i giudici di legittimità forniscono al giudice del rinvio delle importanti indicazioni ermeneutiche. In mancanza di una disciplina transitoria, si pone infatti il problema dell'applicabilità della causa di non punibilità in questione ai procedimenti in corso e nei quali si è eventualmente già superato lo sbarramento processuale della dichiarazione di apertura del dibattimento. In simili evenienze, la Suprema Corte, aveva in precedenza affermato che avrebbe potuto comunque godere della causa di esclusione della punibilità l'imputato che avesse provveduto all'estinzione del debito tributario, in una delle modalità previste, entro la pronuncia della sentenza definitiva (cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 settembre 2016, n. 40314, fattispecie nella quale aveva beneficiato dell'istituto di cui all'art. 13 un imputato che aveva terminato di pagare le rate del suo debito tra le due udienze fissate dalla Cassazione per il suo processo). Nel caso in esame, invece, la Cassazione opera un revirement, discostandosi dal proprio precedente sulla base dei seguenti rilievi. Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 236 del 2011, richiamata anche nella più recente sentenza n. 240 del 2015), «la Corte europea dei diritti dell'uomo, ritenendo che il principio di retroattività della legge penale più favorevole sia un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 Cedu, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il principio di retroattività della lex mitior, come in generale “le norme in materia di retroattività contenute nell'art. 7 della Convenzione”, concerne secondo la Corte le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso senso, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia). Perciò è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità». Alla luce di ciò, osserva la Corte di Cassazione, deve escludersi che la causa di non punibilità sia ricompresa nel perimetro della retroattività della lex mitior ex art. 7 Cedu, giacché, «diversamente dalle cause di giustificazione e dalle cause di esclusione della colpevolezza, lascia intatta l'illiceità del fatto e non fa venir meno il reato, ma ne esclude la punibilità per ragioni di opportunità politico-criminale operate dal legislatore». Sennonché, la retroattività della lex mitior comporta l'applicabilità della disposizione più favorevole anche ai fatti che si sono verificati prima della sua entrata in vigore, ma non si estende agli strumenti processuali che ne consentono l'operatività. Secondo la Suprema Corte l'art. 13 del d.lgs. 74/2000 contiene una doppia previsione: una sostanziale, rappresentata dal pagamento del debito che estingue il fatto-reato commesso prima della sua entrata in vigore; e una processuale, declinata nel pagamento prima dell'apertura del dibattimento. In altri termini, in assenza di una disciplina transitoria, la preclusione processuale è conseguenza del normale regime temporale della norma processuale e non si pone in contrasto con l'art. 7 Cedu sotto il profilo della mancanza della retroattività della norma penale di favore. Peraltro, al fine di evitare una violazione dell'art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento, il Collegio ritiene che «il limite temporale normativamente previsto (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado), debba essere interpretato, con conseguente applicazione della causa di non punibilità, laddove il pagamento integrale del debito tributario sia già avvenuto prima della prima data utile per chiedere l'applicazione della causa di non punibilità a seguito dell'introduzione della stessa ad opera della legge del 2015; non potendosi, viceversa, ritenere l'applicazione retroattiva ai fatti di reato per i quali il pagamento integrale del debito tributario non sia avvenuto entro tale termine»; diversamente opinando si determinerebbe una generalizzata rimessione in termini con problematiche ulteriori, in assenza di una disciplina transitoria, prima fra tutte la prescrizione del reato che potrebbe intervenire nelle more del pagamento. Pertanto, la Corte afferma il seguente principio di diritto: «nei reati tributari la causa di non punibilità ex art. 13 d.lgs. 74/2000, come modificato ad opera del d.lgs. 158/2015, trova applicazione ai fatti commessi precedentemente alla sua entrata in vigore e ai procedimenti in corso a tale data, anche qualora, alla data predetta, era già stato aperto il dibattimento di primo grado, se i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e interessi, risultano essere stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche se a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previsto dalle norme tributarie» (in senso conforme, cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 marzo 2017, n. 15237; contra Cass. pen., Sez. III, 28 settembre 2016, n. 40314). Osservazioni
La pronuncia in rassegna appare degna di nota con particolare riferimento al secondo principio di diritto ivi espresso, dal momento che attribuisce una insolita qualificazione alla causa di non punibilità prevista all'art. 13 del d.lgs. 74/2000 affermandone la natura parzialmente processuale, laddove dispone che il pagamento del debito tributario debba avvenire prima dell'apertura del dibattimento. Condivisibile o meno che sia la soluzione offerta dalla sentenza in esame, possiamo certamente prendere atto del fatto che il legislatore del 2015 avrebbe potuto meglio ponderare l'introduzione della causa id non punibilità di cui all'art. 13 del d.lgs. 74/2000, dotandola anche di una chiara disciplina transitoria, e soprattutto adattandola alle tempistiche proprie dei piani di pagamento di un debito tributario, in modo tale da evitare eventuali irragionevoli disparità di trattamento tra soggetti responsabili della medesima violazione, in ragione del superamento o meno della preclusione processuale rappresentata dall'apertura del dibattimento. S. DE BONIS, Il delitto di omesso versamento di ritenute dovute o certificate, in A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (a cura di), Diritto penale dell'economia, vol. I, Milano, 2017, pp. 924 ss; M. L'INSALATA, L'omesso versamento dell'Iva, in A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (a cura di), Diritto penale dell'economia, vol. I, Milano, 2017, pp. 978 ss; A. LANZI, P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, Milano, 2017, pp. 331 ss.- 418 ss; A. LANZI, Diritto penale dell'economia. Commentario, Roma, 2016, pp. 258 ss.; A. PERINI, voce Reati tributari, in Digesto disc. pen., IX Agg., Torino, 2016. |