Forme del dolo e difficoltà probatorie nel delitto tentato
24 Maggio 2017
Massima
Al fine di stabilire se il colpevole volesse effettivamente la morte del soggetto passivo è necessario ricorrere a una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali – in assenza di circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose siano andate diversamente dall'id quod plerumque accidit – è sufficiente per dimostrare la volontà omicidiaria. Senza cioè una attendibile confessione dell'autore del fatto, la prova del dolo nel tentato omicidio è generalmente rimessa alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa quali: il comportamento antecedente e susseguente al reato; la natura del mezzo usato; le parti del corpo della vittima attinte, la eventuale reiterazione dei colpi, nonché tutti quegli elementi che hanno un valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza. Il caso
La Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado con la quale il giudice dell'udienza preliminare, all'esito di un processo celebrato nelle forme del rito abbreviato, aveva condannato un soggetto alla pena finale di anni di tre, mesi uno e giorni dieci di reclusione e ulteriori pene accessorie per il delitto di tentato omicidio. L'intero impianto motivazionale della sentenza si regge sulla ricostruzione fornita dalla persona offesa nella sua deposizione e sugli accertamenti espletati dalla polizia giudiziaria. I fatti, in particolare, sono scaturiti da una discussione tra l'imputato e la persona offesa per questioni economiche che poi è degenerata. In un primo momento l'imputato avrebbe spintonato la persona offesa facendola rovinare al suolo. Questi, dopo essersi rialzato, avrebbe cercato di riportare la situazione alla calma ma invano. Infatti l'imputato, dopo aver improvvisamente afferrato un coltello appuntito e affilato e con lama lunga 23 centimetri, avrebbe vibrato con tale oggetto un colpo in direzione del volto o della gola della persona offesa. Il colpo, però, non avrebbe attinto il collo o la gola per la reazione difensiva posta in essere dalla vittima che, alzando il braccio sinistro a protezione, sarebbe riuscita a intercettare il coltello con il polso sinistro, provocandosi così una profonda lesione da taglio. Sulla base di ciò il giudice di prime cure, con sentenza confermata in appello, ha ritenuto l'oggetto usato e più in generale gli atti posti in essere dall'imputato idonei a cagionare la morte della persona offesa. Inoltre si è dedotta la volontà omicida (nella forma del dolo diretto) dall'avere l'imputato diretto il colpo di coltello in direzione del collo o del volto della persona offesa. Sempre ad avviso dei giudici di merito, il collo è una parte del corpo priva di protezioni « ed una coltellata vibrata in tale direzione ha una elevatissima probabilità di recidere importanti vasi sanguigni, cagionando la morte». Viceversa viene ritenuto irrilevante sul piano del dolo di omicidio tentato il fatto che immediatamente dopo il fatto sia stato l'imputato ad attivare i soccorsi. Nel proprio ricorso in cassazione, la difesa dell'imputato deduce vizi di violazione di legge e difetto di motivazione (art. 606, comma 1, lett b) e c), c.p.p.). Nello specifico ci si duole del fatto che il giudice di appello avrebbe travisato le prove acquisite nel momento in cui in sentenza si afferma che la lama del coltello era sporca di sangue, circostanza che non emergerebbe né nel verbale di arresto né nell'annotazione di polizia giudiziaria. Da tale travisamento sarebbe scaturita la incoerenza della motivazione in quanto, puntualizza la difesa, lo stato di dubbio in ordine all'oggetto usato non può incidere in negativo sull'imputato. Viceversa, proprio tale stato di dubbio, non permetterebbe di ritenere la sussistenza di alcuna volontà omicida, soprattutto se posto in correlazione con le ulteriori circostanze. In particolare si sottolinea che: il colpo sferrato è uno solo; la ferita concerne il polso; la lesione ha una prognosi di guarigione di sette giorni; non è dato desumere con certezza a quale parte del corpo il colpo di coltello fosse diretto; subito dopo il ferimento l'imputato ha chiamato personalmente il pronto soccorso; i fatti si sono svolti in pochi secondi, con la conseguenza che il ricorrente, pur avendo voluto cagionare le lesioni, non avrebbe potuto aver presente l'evento morte neppure come conseguenza anche solo eventuale della propria condotta. La questione
Il provvedimento in analisi ruota essenzialmente intorno alla fattispecie di tentato omicidio, cercando di fare chiarezza in ordine al delicatissimo tema dell'elemento soggettivo necessario e sufficiente alla integrazione della stessa e alle connesse difficoltà probatorie. In particolare, dalla lettura della motivazione, ferma la incompatibilità tra dolo eventuale e tentativo, sembra potersi inferire la conclusione secondo cui il limite minimo è rappresentato dal dolo diretto alternativo.
In motivazione La Suprema Corte sottolinea come «La prova del dolo (anche nella modalità definita come dolo alternativo, affatto compatibile con il dolo diretto: cfr., fra le molte, Cass. Sez. 1, n. 385 del 19 novembre 1999, dep. 200, Denaro, Rv. 215251; Cass. Sez. 1, n. 27620 del 24 maggio 2007, Mastrovito, Rv. 237022; Cass. Sez. 1, n. 9663 del 3 ottobre 2013, dep. 2014, Nardelli, Rv. 259465) del delitto di omicidio e di tentato omicidio deve essere desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario: da fatti esterni certi, aventi un sicuro valore sintomatico, si inferisce l'esistenza del dolo con l'ausilio di appropriate massime di esperienza. Per stabilire dunque se il colpevole abbia effettivamente voluto la morte del soggetto passivo è necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali - quando non sussistano circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose sono andate diversamente da come vanno le umane cose - è sufficiente per dimostrare la volontà di uccidere (cfr. Cass. Sez. 1, n. 1172 del 27 novembre 1991, dep. 1992, Terranova, Rv. 189074) ». Concludendo il proprio ragionamento con l'affermazione secondo cui:«[...] in mancanza di attendibile confessione resa dall'autore del fatto, la prova del dolo omicida è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima colpite, la reiterazione dei colpi, nonchè tutti quei dati che, secondo l'id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 1, n. 30466 del 7 luglio 2011, Metta e altro, Rv. 251014; in senso sostanzialmente conforme, cfr. Cass. Sez. 1, n. 35006 del 18 aprile 2013, Polisi, Rv. 257208)» Le soluzioni giuridiche
La prima Sezione della Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza Corte di appello ritenendo non adeguatamente approfondita la disamina dell'elemento soggettivo della condotta di omicidio tentato per la quale l'imputato era stato condannato con doppia pronuncia conforme. Nel rimettere gli atti ad altra Sezione della Corte di appello, i giudici della Suprema Corte hanno individuato il principio di diritto in base al quale: « per integrare l'elemento psicologico del delitto di omicidio tentato è necessario che dalla analisi del comportamento complessivo dell'agente (anteriore e successivo al compimento del gesto) e degli altri elementi di fatto rilevanti nel caso concreto, sia desumibile con certezza l'intento di cagionare la morte della persona offesa ». In altri termini, nella vicenda specificamente giudicata, i giudici hanno ritenuto l'iter logico-motivazionale sostenuto nei due gradi di merito non conforme al costante insegnamento della Suprema Corte alla cui stregua, laddove manchi una confessione spontanea da parte del reo, la prova del dolo è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa. Queste, come è noto, devono essere valutate in base alle comuni regole di esperienza e includono: il comportamento serbato dall'imputato prima e dopo la commissione del reato; la natura dei mezzi utilizzati; le parti del corpo della vittima mirate e attinte; il numero di corpi inferti; nonché tutti i dati che, secondo l'id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico. Più volte si è puntualizzato come si debba rifuggire da ogni presunzione nella valutazione circa l'esistenza o meno dell'animus necandi. Un siffatto modo di procedere, infatti, non solo si porrebbe in contrasto con il principio sancito dall'art. 27, comma 1, cost, del carattere personale della responsabilità penale; ma neppure si concilierebbe con l'essenza del dolo che, al contrario, richiede un'indagine di fatto, rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, a base della quale può essere posto qualsiasi dato probatorio ritenuto rilevante che sia stato legittimamente acquisito al processo. (Cfr. Cass. pen., Sez. I, 7 luglio 2011, n. 30466; in senso sostanzialmente conforme, cfr. Cass. pen., Sez. I, 18 aprile 2013, n. 35006). Viceversa, nel caso oggetto di ricorso, il giudice di appello si è discostato da tali regole di giudizio. La Corte di appello ha sostanzialmente pretermesso la valutazione di elementi determinanti per stabilire la sussistenza o meno del dolo di omicidio, in questo caso nella forma tentata. A tal uopo, procede il Supremo Collegio, doveva essere compiutamente valutata: la unicità del colpo (in questo caso di arma bianca) vibrato all'indirizzo della persona offesa e il limitato arco temporale della azione (il tutto si sarebbe verificato in di pochi secondi). Al di là di ciò, non è stato accertato se il solo colpo sia stato sferrato con la punta ovvero con il taglio del coltello; né è stata ricostruita la dinamica del movimento del corpo dell'aggressore; e neppure vi è una descrizione specifica della ferita derivata. Peraltro, anche per quanto concerne la direzione della lama, si dubita che la stessa fosse effettivamente diretta al collo e non al volto che, ovviamente non presenta i medesimi organi vitali del collo. Da ultimo, anche il comportamento dell'imputato immediatamente successivo alla condotta, sostanziandosi nella richiesta di soccorso medico per la persona da lui ferita e l'attesa dell'ambulanza, avrebbe dovuto essere preso in considerazione in funzione della qualificazione del dolo connotante l'azione dell'imputato. Le considerazioni che precedono vanno però rettamente intese per comprendere fino in fondo la decisione assunta dalla Suprema Corte. Invero, la formula adottata dell'annullamento con rinvio con la individuazione del principio di diritto enunciato, non lascia adito a dubbi. Non si tratta cioè di una differente valutazione del merito della vicenda, quanto piuttosto della enunciazione della regola di giudizio a cui uniformarsi. In altri termini, all'esito del giudizio, non è escluso che la Corte possa giungere alla medesima conclusione della sentenza cassata ma attraverso un percorso motivazionale differente che si conformi al principio di diritto enunciato, considerando quegli elementi non compiutamente valutati dalla pronuncia annullata. Osservazioni
La sentenza, come ricordato nei paragrafi precedenti, affronta il tema del dolo nella fattispecie di tentato omicidio. Dalla lettura della stessa sembra in particolare emergere come, in siffatta ipotesi, il limite minimo al di sotto del quale non sarebbe possibile configurare il delitto tentato sia quello del dolo diretto alternativo. Procedendo con ordine, occorre premettere che, in termini generali, la struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata dall'elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione dell'evento e dall'elemento volitivo della proiezione della volontà verso la produzione dell'evento stesso. La rappresentazione e la volizione debbono avere ad oggetto, come è noto, tutti gli elementi costitutivi della fattispecie – condotta, evento e nesso di causalità materiale – e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta. Più complessa per l'interprete si è da sempre rivelata l'analisi della struttura del momento volitivo del dolo ma proprio in base alla intensità della volizione sono state individuate diverse forme di dolo. Per quello che in questa sede interessa, assume preliminare rilievo la consueta (anche se non accettata da tutta la dottrina) tripartizione tra: dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale. Tale distinzione poggia sul presupposto che la realizzazione del fatto tipico possa anche non essere la causa ultima della condotta posta in essere dall'agente e rispetto a ciò le tre figure procedono in ordine decrescente. Più nello specifico, si ha dolo intenzionale nel caso in cui il fatto tipico è l'obiettivo consapevolmente perseguito dal soggetto attivo. In questo caso, il fatto rientra negli scopi in vista dei quali il soggetto si determina ad agire e l'agente lo persegue intenzionalmente quale scopo finalistico della propria azione od omissione. Viceversa, il dolo è diretto (o semplice) nel caso in cui il soggetto si rappresenti il fatto tipico come conseguenza del suo agire ma esso non è il risultato che persegue intenzionalmente. La fattispecie è cioè pienamente voluta ma non è ciò che anima la condotta. In altri termini, la rappresentazione del fatto tipico non ha efficacia determinante sulla volizione della condotta che rappresenta uno strumento necessario perché il soggetto realizzi il proprio ulteriore scopo. La terza forma di dolo è costituita invece dal dolo eventuale che si caratterizza per il fatto che il soggetto agisce rappresentandosi la probabilità o possibilità che l'evento si verifichi, senza che questo, ovviamente, rappresenti lo scopo dell'azione. Atteso che probabilità e possibilità sono categorie comuni all'addebito colposo, è evidente come il dolo eventuale sia la figura di confine rispetto alle imputazioni colpose e, proprio per tale ragione, l'accertamento del coefficiente volontaristico necessario è uno degli snodi più problematici del diritto penale. D'altronde, è appena il caso di sottolineare che si tratta di un tema con ripercussioni pratiche molto marcate, non fosse altro per le sostanziali differenze sul piano sanzionatorio tra illecito doloso e colposo. Esula dal taglio e dalle finalità del presente lavoro la disamina delle varie teorie elaborate in materia di dolo eventuale (teoria dell'accettazione del rischio; criterio del bilanciamento; formula di Frank su cui cfr. Cass. pen., Sez. unite, 26 novembre 2009, n. 12433) apparendo sufficiente il richiamo al recente approdo delle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014 n. 38343). Secondo il supremo organo di nomofilachia, a tal fine non è sufficiente la semplice accettazione di una situazione rischiosa ma occorre che sia accettato un evento ben definito e il cui presupposto implichi una valutazione frutto di appropriata ponderazione. Occorre cioè un atteggiamento psichico che indichi e denoti un'adesione all'evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta. Il dolo eventuale, in altri termini, ricorre allorquando l'agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità dell'evento concreto, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, e nonostante ciò si sia determinato ad agire anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo così ad esso, per il caso in cui si verifichi. Se il dictum della Suprema Corte appare ineccepibile sul piano della teoria generale del dolo, i giudici non si nascondono come le problematiche restino sul piano probatorio. In questo senso, si sottolinea come « muovendosi infatti nella sfera interiore, entra in gioco il paradigma indiziario, dovendosi individuare nel fatto concreto i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della propria condotta. Bisogna tentare, nei limiti del possibile, di spiegare l'accaduto, di ricostruire l'iter decisionale, di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, in definitiva, perché ci si è determinati in una direzione. Occorrerà comprendere se l'agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell'evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso ed, infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l'eventualità della causazione dell'offesa » (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343). Pertanto, nel tentativo di mitigare le paventate difficoltà, si precisa come per fornire la dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento verificatasi, aderendo psicologicamente ad essa, l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'"iter" e l'esito del processo decisionale, possa e debba fondarsi su una serie elementi sintomatici quali, tra le altre cose: la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; la durata e la reiterazione dell'azione; il comportamento successivo al fatto; il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; la probabilità di verificazione dell'evento; le eventuali conseguenze negative per il soggetto attivo in caso di sua verificazione; il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta formula di Frank). Oltre a quelle riportate, il dolo è soggetto a molte altre classificazioni ma in questa sede è sufficiente il richiamo alle figure del dolo alternativo e del dolo indeterminato. In entrambi i casi il soggetto agisce rappresentandosi e volendo alternativamente o cumulativamente due o più risultati. Ricorre in particolare il dolo indeterminato nel caso in cui gli eventi alternativamente o cumulativamente voluti, non solo tra loro incompatibili. Viceversa nell'ipotesi del dolo alternativo i diversi fatti previsti sono incompatibili, nella misura in cui la realizzazione di uno esclude l'altro. Tuttavia, e il passaggio è puntualmente colto nella sentenza in commento, entrambe queste figure non rappresentano forme autonome di dolo ma riflettono situazioni concrete nelle quali il soggetto agente si rappresenta come conseguenza del suo agire più eventi, rispettivamente alternativi o cumulabili. In altri termini, sia il dolo indeterminato che il dolo alternativo potranno configurarsi come intenzionali, diretti o eventuali. L'analisi dell'elemento psicologico pone qualche problema in più laddove si passi dalle fattispecie consumate a quelle tentate. Occorre innanzitutto affermare che in quest'ultimo caso è esclusa la punibilità per colpa e ciò sia perché le ipotesi colpose devono essere esplicitamente previste e in materia di tentativo manca una disposizione analoga all'art. 42, comma 2, c.p., sia perché l'imputazione colposa appare ontologicamente incompatibile con il delitto tentato. Se quest'ultimo, infatti, si caratterizza per essere rappresentato da una serie di atti diretti univocamente a un risultato, sembra illogico ipotizzare un tentativo involontario. Inoltre, è stato correttamente osservato che la pena per il tentativo, a tenore dell'art. 56 c.p. è ridotta partendo da quella per il delitto che si “voleva” realizzare. Pertanto e concludendo, l'elemento soggettivo del tentativo è esclusivamente il dolo. L'oggetto del dolo, viceversa coincide con quello del delitto consumato. Il soggetto attivo, al momento della condotta, deve rappresentarsi e volere il perfezionamento del delitto intrapreso. Posta questa premessa, da sempre discussa è stata la compatibilità del tentativo con alcune forme di dolo. Se nessun problema sussiste nelle ipotesi di dolo intenzionale e dolo diretto determinati, più dibattuto è invece il rapporto con il dolo eventuale. Secondo un primo e risalente orientamento non vi sarebbe alcuna incompatibilità dal momento che il tentativo è delitto autonomo che permette ogni forma di dolo. Essendo cioè il delitto tentato differente da quello consumato solo sul piano materiale-oggettivo della compiuta realizzazione dell'iter criminis, ciò non comporterebbe modifiche sul piano soggettivo. Tale filone interpretativo è stato inizialmente avallato dalle Sezioni Unite con la nota sentenza Basile del 1983 (Cass. pen., Sez. unite, 18 giugno 1983, n. 6389), tuttavia, negli anni successivi le sezioni semplici hanno progressivamente sposato l'opposta ricostruzione. Ha infatti avuto largo successo l'opposto orientamento che muove dal presupposto che a fronte di una disposizione che richiede atti diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto, gli atti debbono avere una direzione finalistica certa sia sul piano oggettivo che soggettivo. Tale direzione finalistica sarebbe invece assente nel caso in cui un soggetto si rappresenti soltanto come possibile il verificarsi di un evento che costituisce reato (Cass. pen., Sez. I, 23 aprile 1990, n. 7388). Benché a tale ricostruzione si sia obiettato che in realtà la univocità degli atti è requisito meramente oggettivo che nulla sposta sul piano psicologico, negli anni lo stesso si è via via consolidato. In particolare si è a più riprese sottolineato, con approdo tuttora imperante e implicitamente ribadito dalla pronuncia in commento, che il « dolo eventuale non é configurabile nel caso di delitto tentato, poiché, quando l'evento voluto non sia comunque realizzato e quindi manchi la possibilità del collegamento ad un atteggiamento volitivo diverso dall'intenzionalità diretta, la valutazione del dolo deve avere luogo esclusivamente sulla base dell'effettivo volere dell'autore, ossia della volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificatosi » (Cfr. Cass. pen., Sez. I, 14 novembre 2007, n. 44995; Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2012, n. 14342, Cass. pen., Sez. I, 31 marzo 2010, n. 25114). Giunti a questo punto, resta infine da comprendere se in presenza di dolo indeterminato o alternativo il quadro in qualche modo muti. Se ci si conforma all'orientamento che nega una reale autonomia a entrambe queste figure, occorre valutare se la combinazione delle stesse siano compatibili con il delitto tentato. Certamente non incidono rispetto alla forma più intensa del dolo intenzionale. La circostanza che ci siano due fatti che il soggetto si rappresenta e vuole indifferentemente e che ne indirizzano finalisticamente la propria condotta è sufficiente a ritenere integrato il coefficiente psicologico minimo del delitto tentato. Analoghe considerazioni, in senso contrario, valgono per il dolo eventuale. Escluso cioè che lo stesso rilevi in quanto tale quale elemento psicologico nel tentativo, men che meno potrà rilevare il dolo eventuale alternativo o indeterminato. Qualche problema potrebbe astrattamente porsi per la forma intermedia del dolo diretto (o di secondo grado) ove, come è noto, il fatto reato non è ciò che muove il soggetto attivo ma è viceversa un passaggio necessario per il perseguimento del proprio ulteriore fine. La questione è stata però più volte affrontata dalla giurisprudenza che, con orientamento conforme alla pronuncia in commento, ha valorizzato il dato che in questo caso l'agente prevede e vuole in maniera equipollente e/o cumulativa due o più eventi, ricavandone la piena compatibilità con il tentativo (Cass. pen. Sez. V, 17 febbraio 2005, n. 6128). Sul piano probatorio, pur dovendosi valutare i medesimi elementi richiamati per il delitto consumato, si è osservato come si assista ad una inversione del percorso ricostruttivo. Nel delitto consumato l'accertamento del dolo segue l'accertamento del fatto, mentre nel delitto tentato occorre rilevare dapprima l'intenzione e poi valutare l'univocità e l'idoneità degli atti In altri termini, la prova del dolo - ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell'imputato – conserva la propria natura spiccatamente indiretta e deve derivare dagli elementi esterni più volte richiamati che, dotati di pacifica potenzialità semantica, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente (Cass. pen., Sez. I, 15 marzo 2000, 3185; Cass. pen, Sez. I, 7 giugno 1997, n. 5389; Cass. pen., Sez. V, 17 febbraio 2005, n. 6128). |