Concessione della grazia: i diversi ruoli del Capo dello Stato e del Guardasigilli secondo la Consulta
23 Luglio 2015
Massima
1. Assunto come causa di menomazione delle attribuzioni di altri poteri dello Stato. Fra le attribuzioni di cui all'art. 110 Cost. debbono essere inclusi tutti i compiti spettanti al suddetto Ministro in forza di precise disposizioni normative, purché in rapporto di strumentalità rispetto alle funzioni afferenti alla organizzazione ed al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, comprese quelle concernenti l'organizzazione dei servizi relativi all'esecuzione delle pene e delle misure detentive. 2. Non spetta al Ministro della Giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento volto alla adozione della determinazione del Presidente della Repubblica relativa alla concessione della grazia. Una volta recuperato l'atto di clemenza alla sua funzione di mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie è necessario riconoscere nell'esercizio di tale potere – conformemente anche alla lettera dell'art. 87, comma 11, Cost. – una potestà decisionale del Capo dello Stato, quale organo super partes, “rappresentante dell'unità nazionale” che in modo imparziale è chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto dei presupposti umanitari che giustificano l'adozione del provvedimento di clemenza. Qualora il Presidente della Repubblica abbia sollecitato il compimento dell'attività istruttoria ovvero abbia assunto direttamente l'iniziativa di concedere la grazia, il Guardasigilli può soltanto rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento 3. A fronte della determinazione presidenziale favorevole alla adozione dell'atto di clemenza, la controfirma del decreto concessorio da parte del Ministro della Giustizia costituisce l'atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la completezza e la regolarità dell'istruttoria nonché del procedimento seguito. 4. L'assunzione della responsabilità politica e giuridica del Ministro controfirmante, a norma dell'art. 89 della Costituzione, trova il suo naturale limite nel livello di partecipazione del medesimo al procedimento di concessione dell'atto di clemenza. Il caso
Con ricorso del 10 giugno 2005 il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, promuoveva conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro della giustizia in ragione del rifiuto, da quest'ultimo opposto, di dare corso alla determinazione di concessione della grazia, adottata dal Capo dello Stato. Il Guardasigilli comunicava di non poter aderire alla richiesta formulata atteso che il testo della Costituzione vigente pone la responsabilità di formulare la proposta di grazia in capo al solo Ministro della giustizia. Veniva dunque sollevato conflitto ai sensi degli artt. 37 e ss. della legge 11 marzo 1953, n. 87 per violazione degli artt. 87 e 89 Cost. Assumeva il ricorrente che il rifiuto da parte del Ministro di formulare la proposta di grazia si sarebbe sostanziato de facto nella rivendicazione del potere di interdire con la sua decisione (o addirittura inerzia) l'esercizio del potere presidenziale di concessione della grazia sancito all'art. 87 Cost. Tuttavia, la finalità “umanitaria ed equitativa” dell'istituto, sorto per attenuare l'applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa si fosse scontrata con il sentimento della giustizia sostanziale, avrebbe dovuto rappresentare l'esercizio di un potere riservato in via esclusiva al Capo dello Stato in quanto garante super partes della Costituzione e dunque estraneo a valutazioni di natura prettamente politica. Da ultimo, ritenute oramai superate le ragioni storiche che avevano in passato giustificato un regime di collaborazione fra Presidente della Repubblica e Guardasigilli alla luce della progressiva individuazione di nuovi percorsi di risocializzazione del condannato, con contestuale perdita delle finalità di politica penitenziaria poste originariamente a giustificazione dell'istituto, la natura esclusivamente presidenziale del potere di concedere la grazia, secondo il ricorrente, sarebbe stata desumibile dalla stessa giurisprudenza costituzionale relativa alle fasi di esecuzione della pena (Corte cost. 31 maggio 1990, n. 274; Corte cost. 6 agosto 1979, n. 114; Corte cost. 22 luglio 1976, n. 192; Corte cost.4 luglio 1974, n. 204; Corte cost.23 aprile 1974, n. 110.).
La questione
La Corte costituzionale si è pronunciata nel giudizio per il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente della Repubblica avverso il rifiuto del Guardasigilli di predisporre il relativo decreto di concessione malgrado il Capo dello Stato avesse manifestato la propria determinazione favorevole alla adozione del provvedimento di clemenza. La Corte è stata chiamata ad esprimersi anche sulla legittimazione passiva del Ministro della giustizia a resistere nei giudizi per conflitto quale diretto titolare delle competenze previste dall'art. 110 Cost.
La legittimazione passiva del Ministro della giustizia La Corte, dopo aver preliminarmente affermato, sul piano processuale, la legittimazione del Presidente della Repubblica a proporre il conflitto, conferma altresì la piena legittimazione passiva del solo Ministro della giustizia, competente ratione materiae ad effettuare l'istruttoria sulla grazia, a predisporre il relativo decreto di concessione, a controfirmarlo ed a curarne l'esecuzione. Tale legittimazione trova fondamento nella previsione di cui all'art. 110 Cost., norma di cui si è esclusa una interpretazione restrittiva da parte della stessa giurisprudenza (sent. 142 del 1973 e 168 del 1963) e che include fra le attribuzioni spettanti al Ministro tutti quei compiti previsti da apposite disposizioni normative e che si trovino in un rapporto di strumentalità rispetto alle funzioni “afferenti all'organizzazione ed al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, comprese quelle concernenti “l'organizzazione dei servizi relativi all'esecuzione delle pene e delle misure detentive” (sent. 383 del 1993). Si riconosce, pertanto, la legittimazione del Ministro della giustizia a resistere nei giudizi per conflitto in quanto “diretto titolare delle competenze determinate dall'art. 110 Cost.”, il cui esercizio venga assunto come causa di menomazione delle attribuzioni di altri poteri dello Stato (sent. 379/1992).
I rapporti fra Capo dello Stato ed il Ministro della giustizia Inquadrato storicamente l'istituto, la Corte passa ad individuare il vero thema decidendum della questione incentrato non tanto sulla titolarità del potere di grazia (oltretutto espressamente attribuita dalla Costituzione al Presidente della Repubblica ex art. 87, comma 11) bensì sulle concrete modalità del suo esercizio e sui rapporti intercorrenti fra il Capo dello Stato ed il Ministro della giustizia quale responsabile dell'attività istruttoria e dunque partecipe del procedimento complesso in cui si snoda l'esercizio del potere in esame. Il giudice costituzionale si occupa di perimetrare la funzione propria dell'istituto ricollegandola a finalità essenzialmente umanitarie e suscettibili di incidere sulla esecuzione di una pena validamente inflitta da un organo imparziale con le garanzie formali e sostanziali offerte dall'ordinamento del processo penale. Scopo dell'istituto è dunque quello di attuare i valori costituzionali consacrati nel terzo comma dell'art. 27 Cost., garantendo soprattutto il “senso di umanità” cui debbono ispirarsi tutte le pene e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto dei principi desumibili dall'art. 2 Cost. L'esercizio del potere di grazia, tuttavia, costituendo una deroga al principio di legalità, deve essere contenuto entro ambiti circoscritti, destinati a valorizzare soltanto le eccezionali esigenze di natura umanitaria scongiurando, in questo modo, il rischio di una ingiustificata violazione dell'art. 3 Cost. Stante la funzione mitigatrice o di elisione del trattamento sanzionatorio dell'atto di clemenza, la Corte ritiene necessario riconoscere una potestà decisionale del Presidente della repubblica nell'esercizio di tale potere, in quanto organo super partes, chiamato a rappresentare l'unità nazionale e, dunque, estraneo al circuito politico-governativo: l'esigenza che si impone è proprio quella di evitare che nella valutazione dei presupposti per l'adozione di un provvedimento dalla efficacia ablativa del giudicato penale possano assumere rilievo le determinazioni di organi appartenenti al potere esecutivo. Alla controfirma ministeriale, pertanto, va attribuito carattere sostanziale quando l'atto sottoposto alla firma del Capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell'Esecutivo, mentre deve esserle riconosciuto valore soltanto formale qualora l'atto sia espressione di poteri propri del Presidente della Repubblica (quali – ad esempio – quelli di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita o dei giudici costituzionali) fra i quali rientra a pieno titolo quello di concessione della grazia riconosciuto dall'art. 87 Cost. Le soluzioni giuridiche
Sono stati conclusivamente affermati i seguenti principi di diritto:
Osservazioni
La natura del decreto di grazia ha da sempre alimentato scontri in dottrina: alcuni autori hanno ritenuto si trattasse di un atto formalmente presidenziale e sostanzialmente ministeriale; altri ne hanno ribadito la natura formalmente e sostanzialmente presidenziale; altri ancora hanno parlato di atto a “partecipazione uguale”. Si tratta, ad ogni modo, per la dottrina dominante non già di un atto giurisdizionale o legislativo ma di atto politico o di diritto pubblico, distinto dagli altri provvedimenti clemenziali per la tipica afferenza all'esecuzione di una pena nei confronti di un singolo condannato. Con la pronuncia della Consulta si è inteso valorizzare il ruolo del Presidente della Repubblica quale organo super partes che, forte delle prerogative lui riconosciute dalla stessa Costituzione all'art. 87, appare l'unico in grado di arginare il rischio di valutazioni prettamente politiche nella concessione di un provvedimento di clemenza. Il rilievo così attribuito alla figura del Capo dello Stato, oltre consentire la compiuta attuazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. si presta a garantire altresì la funzione rieducativa ed il “senso di umanità” cui debbono essere ispirate tutte le pene ai sensi dell'art. 27 Cost. L'attenzione della Consulta ha riguardato, poi, il valore assunto dalla controfirma ministeriale nella concessione dell'atto di clemenza e l'ambito di attribuzioni da riservare al Guardasigilli nella adozione del relativo provvedimento a seguito di una iniziativa personale del Capo dello Stato o successivamente alla richiesta di avvio, da parte di quest'ultimo, di un'attività istruttoria ulteriore. Il primo aspetto, sollevato in relazione all'art. 89, comma 1, Cost., è stato risolto – in via generale – distinguendo il diverso valore assunto dall'atto da sottoporre al vaglio ministeriale che ne rappresenta il completamento o, più esattamente, un requisito di validità. Mentre, infatti, gli atti di tipo governativo da sottoporre alla firma del Capo dello Stato, in quanto espressione delle prerogative proprie dell'esecutivo, impongono inevitabilmente l'attribuzione di un carattere sostanziale alla controfirma ministeriale, quelli espressione dei poteri propri del Presidente della Repubblica non possono che riconoscerne una valenza solo formale. Ed il potere di grazia viene appunto annoverato fra questi ultimi ai sensi dell'art. 87 Cost. Il secondo aspetto mira, invece, a circoscrivere la portata del diritto di veto del Guardasigilli ove non condivida né la richiesta presidenziale di compiere una ulteriore istruttoria né la stessa scelta finale di concedere la grazia. In entrambe i casi, infatti, onde evitare una vera e propria “paralisi procedimentale” dell'iter avviato, la Consulta ha ritenuto legittima la sola indicazione delle ragioni di legittimità o di merito che, secondo il Ministro della giustizia, si opporrebbero alla concessione del provvedimento senza, tuttavia, poter inibire le prerogative presidenziali, così menomando una attribuzione espressamente conferita dalla stessa Costituzione. Da ciò discende che la controfirma ministeriale del decreto concessorio costituisce semplicemente l'atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la completezza e la regolarità dell'istruttoria e del procedimento seguito. È evidente che argomentando da una impostazione di questo tipo non può non condividersi l'idea di chi in passato abbia sostenuto la natura formalmente e sostanzialmente presidenziale cui si accennava supra. Tuttavia, in questo modo ci si è disinteressati dei gravi problemi che la soluzione prospettata pone in termini di articolazione e funzionamento dei poteri. La semplice funzione “umanitaria” che nell'ottica della Corte giustificherebbe la preminenza del Capo dello Stato nella adozione del provvedimento non appare, a detta di molti, in grado di sorreggere compiutamente l'intero apparato motivazionale della pronuncia in quanto “anche le grazie umanitarie costituiscono atti di governo incidenti sulla politica della giustizia e non già esercizio imparziale di poteri incidenti sul funzionamento dell'apparato statale”. Per questi motivi suscita riflessioni l'idea di chi intraveda nella grazia “un'estirpabile coloritura di politicità, implicata dalla sua strutturale anormalità che non consente di respingerla nel recinto degli interventi umanitari”. R. Manfrellotti, La concessione della grazia tra decisione politica e garanzie del sistema, in AA. VV., La grazia contesa, 191 M. Luciani, Sulla titolarità sostanziale del potere di grazia del Presidente della Repubblica, in Giur., Ord., Cost., n. 2, 2007, pp.190 ss. Sulla peculiare connotazione funzionale del potere di grazia, che tende a favorire l'emenda del reo e il suo reinserimento nel tessuto sociale, v. Corte cost. 26 maggio 1976, n. 134. Sul consolidato orientamento che esclude ogni coinvolgimento di esponenti del Governo nella fase dell'esecuzione delle sentenze penali di condanna, in ragione della sua giurisdizionalizzazione ed in ossequio al principio secondo il quale solo l'autorità giudiziaria può interloquire in materia di esecuzione penale, v. Corte cost. 31 maggio 1990, n. 274; Corte cost. 6 agosto 1979, n. 114; Corte cost. 22 luglio 1976, n. 192; Corte cost.4 luglio 1974, n. 204; Corte cost.23 aprile 1974, n. 110. |