Il valore probatorio del “passare del tempo” nella scelta della misura cautelare

Michele Sbezzi
19 Febbraio 2016

Il difetto del requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione della condotta criminosa, che può desumersi dal decorso di un significativo lasso di tempo dalla commissione dei fatti stessi, è idoneo ad escludere la stessa sussistenza di esigenze cautelari.
Massima

Nonostante la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai fatti oggetto di indagine, il difetto del requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione della condotta criminosa, che può desumersi dal decorso di un significativo lasso di tempo dalla commissione dei fatti stessi, è tale da escludere la stessa sussistenza di esigenze cautelari.

La valutazione dell'effettiva sussistenza di esigenze cautelari di cui all'art. 274, lett. c) del codice di procedura penale non può che precedere, temporalmente e logicamente, quella riferita alla scelta della misura concretamente adottabile. Risulta pertanto evidente che, una volta esclusa per qualsiasi ragione e quindi anche per il decorso di un significativo lasso temporale (art. 292, lett. c), c.p.p.) la sussistenza delle esigenze special-preventive, non residua alcuna necessità di ordine prima logico che giuridico di procedere a valutazioni inerenti la scelta di una misura che si è già escluso di dover applicare.

Il caso

Il 7 aprile 2015, il Gip di Napoli applicava la misura cautelare coercitiva della custodia in carcere nei confronti di T.P., accusato del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, per il quale ricordiamo essere previste pene edittali altissime, tali da connotare il fatto, ancora oggetto di indagine, di rilevante gravità; inoltre, a mente del testo dell'art.275 c.p.p. allora vigente, a quei fatti andava in quel momento, obbligatoriamente, riconnessa la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari.

Proprio la vigenza e la successione nel tempo delle disposizioni normative richiamabili in tema di misure ed esigenze cautelari assumono, nel caso in esame, importanza fondamentale.

Va qui preliminarmente ricordato, infatti, che, con la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore l'8 maggio (e quindi successivamente alla decisione del Gip ma prima che il tribunale del riesame decidesse), il legislatore ha modificato il previgente assetto delle condizioni per cui può dirsi effettivamente sussistente un'esigenza cautelare. Di ciò in seguito.

Il tribunale del riesame, pur sottolineando che il fatto oggetto di indagine non rientrava nella previsione del comma 6 dell'art. 74 d.P.R. 309/1990 e non poteva quindi esser considerato di lieve entità, preso doveroso atto della novella legislativa frattanto intervenuta con la l. 47/2015, ha annullato la misura cautelare, osservando che le condotte ipoteticamente ascritte all'indagato avevano avuto fine nell'ottobre 2012 e che, per conseguenza, non poteva dirsi integrata, nel caso in esame, l'attualità del pericolo di reiterazione del reato.

Ciò, peraltro, conformemente ad un principio già più volte espresso dalla suprema Corte, secondo cui il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione del reato (Cass. pen., Sez. VI, 16 giugno 2015, n. 27544; Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2013, n. 20122); nonché rilevando il difetto del requisito dell'attualità, già enucleabile nel testo dell'art. 292, lett. c) c.p.p. anche prima che la novella legislativa più volte sopra richiamata aggiungesse l'obbligo di una autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi […] tenuto contro anche del tempo trascorso dalla commissione del reato.

Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli ha impugnato la decisione del riesame, osservando che fosse erronea e indebita l'applicazione retroattiva della novella legislativa a fatti commessi prima della sua entrata in vigore e, soprattutto, rispetto a una valutazione di sussistenza di esigenze cautelari che il Gip aveva dovuto operare nella vigenza della normativa previgente (che non prevedeva affatto, tra i requisiti legittimanti l'adozione di misure cautelari, l'attualità del pericolo di reiterazione).

In secondo luogo, quale ulteriore motivo di impugnazione di legittimità, il ricorrente richiamava il rapporto intercorrente tra l'art. 274, lett. c) c.p.p. e l'art. 275, comma 3, stesso codice, cioè il rapporto tra i criteri di scelta della misura e le esigenze cautelari. In buona sostanza, il ricorrente sosteneva che la circostanza che non vi fosse altra misura – se non la custodia cautelare – idonea a contrastare il pericolo di reiterazione nel caso concreto avrebbe dovuto esser valutata in via preventiva rispetto alla stessa sussistenza di esigenze cautelari, sottolineando peraltro che, in ogni caso e quindi anche nel nuovo testo dell'art. 274 c.p.p. come modificato dalla recentissima novella, sussiste comunque la possibilità di apprezzare la sussistenza del pericolo di reiterazione desumendolo dalle modalità specifiche del fatto.

La suprema Corte, con la sentenza in argomento, ha ritenuto infondato il ricorso e lo ha respinto; ciò per almeno due ordini di motivi.

Si sottolinea, anzitutto, in sentenza che il criterio generale di applicazione della legge processuale al tempo della sua vigenza è assolutamente inalterato; il tribunale del riesame, secondo l'analisi che ne fa la suprema Corte, aveva sì preso atto della novella ma aveva applicato al caso l'orientamento interpretativo che già la suprema Corte, con le sentenze sopra indicate e con altre, aveva chiaramente espresso richiedendo una rigorosa e motivata valutazione del lasso di tempo trascorso – ove significativo – tra la commissione dei fatti e la eventuale adozione di una ordinanza cautelare.

Peraltro, la stessa novella legislativa va interpretata – ancora secondo l'autorevolissima opinione espressa dalla Corte – nel senso di un semplice recepimento, nel corpo del codice di rito, di tale e sopra richiamato orientamento.

Sul secondo motivo di doglianza, poi, la suprema Corte indica chiaramente come non può certo sovvertirsi il rapporto tra la sussistenza delle esigenze cautelari e la scelta della misura in concreto idonea nel singolo e specifico caso.

La scelta della misura da adottarsi non può che seguire la valutazione dell'effettiva sussistenza di un'esigenza cautelare; per conseguenza, preso atto del difetto di ogni esigenza, nessun senso può avere scegliere una misura secondo criteri di idoneità.

Da ultimo, la suprema Corte si sofferma a dire infondata anche la pretesa, non compiutamente espressa dal ricorrente ma – a parere della Corte – enucleabile in ricorso, secondo cui la novella legislativa avrebbe reso obbligatoria e cogente una fino ad allora inesistente valutazione del dato costituito dal tempo trascorso tra la commissione dei fatti e l'adozione della misura, non modificando però la possibilità di valutare la sussistenza delle esigenze alla luce delle modalità del fatto.

Queste ultime, afferma infatti la Corte, attengono solo alla gravità della condotta e nulla hanno a che fare con la concretezza ed attualità delle esigenze.

La questione

Diverse, ed interessanti, le questioni enucleabili nella vicenda processuale autorevolmente conclusa dalla suprema Corte.

Anzitutto quella della successione della leggeprocessuale in questo casonel tempo.

Laconicamente, la suprema Corte rileva come nessun dubbio possa sorgere circa il fatto che resti invariato il principio per cui la legge processuale si applica al tempo della propria vigenza. Ciò dovrebbe comportare, inevitabilmente e logicamente, l'impossibilità di applicare la riforma in senso retroattivo.

Ma cosa accade quando, come nel caso in esame, una riforma introduca una modificazione, seppur processuale, in senso favorevole all'indagato o all'imputato? Nel caso in esame il problema è stato agevolmente superato senza affrontarlo, perchè il convincimento espresso dal tribunale del Riesame in ordine alla rilevanza del tempo trascorso dai fatti di reato è stato interpretato come semplice applicazione di un orientamento interpretativo già da tempo validato dalla Corte suprema, ancor prima che il legislatore lo traducesse in un principio normativo e perciò inderogabile.

Il giudizio sarebbe stato diverso se lo stesso tribunale del riesame, giudicando nello stesso caso, avesse fatto riferimento esplicito e univoco alla novella legislativa e l'avesse ritenuta immediatamente applicabile anche al caso di quelle condotte, evidentemente adottate prima della novella?

Altra interessante questione è quella concernente la sostanza della novella legislativa introdotta con la l. 47 del 2015. Ci si limita, qui, alla riforma dell'art. 274 c.p.p. ed all'inserimento, peraltro assai rilevante, dell'aggettivo attuale a riqualificare tanto il pericolo di inquinamento probatorio, quanto quello di fuga e quello di recidiva. In buona sostanza, si tratta qui dell'introduzione della rilevata cogenza della circostanza che il periculum libertatis sia da qualificarsi come attuale.

Infine, seppur di minore importanza, sembra rilevabile una questione circa il rapporto che intercorre tra la valutazione si sussistenza di un'esigenza cautelare e la scelta di essa in relazione al concreto pericolo da contrastare.

Le soluzioni giuridiche

Quanto alla successione della legge processuale nel tempo, la questione è stata già affrontata e risolta in senso negativo dalla suprema Corte, Sezione IV penale, con la sentenza n. 28153 del 18 giugno 2015, proprio a proposito della novella qui in argomento. La massima, che qui di seguito si riporta, afferma infatti che: Il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum. (Fattispecie relativa agli effetti della modifica normativa dell'art. 274 cod. proc. pen. realizzata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, artt. 1 e 2, considerati dalla S.C. non applicabili per la valutazione della legittimità della misura cautelare impugnata, adottata in epoca antecedente la novella legislativa).

In epoca precedente, la IV Sezione penale (Cass. pen., 24861/2015), le Sezioni unite (Cass. pen., 44895/2014) e la sezione I penale (Cass. pen., 8350/2013) avevano affrontato la medesima questione, risolvendola nello stesso modo. Peraltro, l'ultima delle sentenze qui richiamate ebbe a statuire l'impossibilità di applicare la riforma dell'art. 438 c.p.p. a chi non aveva potuto accedere al giudizio abbreviato per il denegato consenso del pubblico ministero e chiedeva ora, in sede di esecuzione, la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p. e la conseguente sostituzione della pena dell'ergastolo con pena detentiva diversa. La rilevanza della questione in tal sentenza affrontata, soprattutto per la gravità delle conseguenze negative per il ricorrente, portano a ritenere insuperabile il problema allo stato dell'attuale legislazione.

La Corte Edu, con la famosa sentenza del 17 settembre 2009, sembrava essere andata di diverso avviso, benché in essa non si facesse riferimento esplicito alla normativa processuale, bensì – ed in senso forse troppo generico – alla legge penale.

La questione, dunque, appare scontatamente risolvibile solo con una risposta negativa: non può applicarsi retroattivamente una legge che, benché più favorevole, sia posteriore rispetto alla questione da decidere ed ai fatti da giudicare.

Nel caso in argomento, ove quindi il tribunale del riesame si fosse limitato a motivare l'annullamento della misura cautelare applicata sul solo dato normativo della novella posteriore ai fatti, la suprema Corte avrebbe dovuto annullare per illegittimità la decisione, impugnata dal procuratore della Repubblica.

È tuttavia possibile ritenere che, in tale ipotetico caso, la Corte di legittimità avrebbe potuto annullare con rinvio, indicando la strada di una possibile e diversa motivazione sul punto e richiamandosi alla precedente ed ormai consolidata giurisprudenza sulla rilevanza da attribuirsi comunque al decorso del tempo tra la condotta illecita e l'applicazione di una misura cautelare.

La seconda questione sopra indicata riguarda la sostanza della riforma legislativa.

Con essa il Legislatore ha attribuito valore di principio legislativo all'orientamento giurisprudenziale cui sopra si è fatto cenno.

La riforma, infatti, prende certamente le mosse da un filone interpretativo giurisprudenziale che ha radici piuttosto datate. Già nel 2005, infatti, la I sezione penale della suprema Corte (Cass. pen., 11518/2005) sostenne che l'omissione di un riferimento testuale al tempo trascorso dalla commissione del reato non determinava la nullità dell'ordinanza che disponeva una misura cautelare ove, comunque, in essa fosse stata valutata l'incidenza complessiva degli elementi di giudizio; ciò perché l'inciso relativo al decorso del tempo – di cui al testo dell'art. 292 come modificato nel 1995 – doveva interpretarsi come specificazione della dimensione indiziaria degli elementi acquisiti ai fini della configurazione delle esigenze cautelari.

Ancor di più, nel 2009 le Sezioni unite della suprema Corte (Cass. pen., 40538/2009) avevano ritenuto obbligatorio che il giudice motivasse sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra la data del commesso reato e la decisione sulla misura cautelare giacché ad una maggior distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari. Alla nascita di tali orientamenti ha certamente e grandemente contribuito la nota sentenza 299 della Corte Costituzionale, resa nel 2005, secondo cui la custodia cautelare in carcere deve essere solo un'extrema ratio e l'intero sistema cautelare deve essere informato al principio del minor sacrificio necessario della libertà personale.

Oggi, il nuovo testo dell'art. 274 c.p.p., con cui, per la prima volta, si obbliga il giudice a valutare l'attualità del pericolo da cui deve sorgere l'esigenza cautelare, contiene la specifica disposizione, inserita in chiusura del primo comma lett. b), secondo cui le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede.

Non più la sola gravità del fatto – che di per sé non può giustificare né fondare la valutazione di pericolosità della permanenza in libertà – ma la valutazione complessiva che non può prescindere dalla rigorosa valutazione del tempo trascorso tra la data di commissione del fatto e quella di possibile applicazione di una misura cautelare.

Quanto alla terza questione sopra enucleata, sembra evidente – quantomeno per logica – che non può certamente valutarsi quale sia la misura più idonea a fronteggiare le esigenze cautelari quando si sia già ritenuto che tali esigenze – fosse anche solo per effetto del tempo trascorso – non siano più sussistenti.

Ma la Corte, con la sentenza in argomento, non ha detto solo questo. Ha, infatti, affermato che, già per effetto dell'orientamento interpretativo cui sopra si è fatto cenno ed anche nella vigenza della normativa precedente, non poteva comunque farsi ricorso a criteri che fondassero la sussistenza di esigenze cautelari senza dare attenzione all'eventualmente significativo passare del tempo.

In ciò la Corte attribuisce un valore probatorio al passare del tempo, che va obbligatoriamente interpretato, oggi anche per legge, come indizio di un arresto della condotta illecita e della probabilità che essa non si ripeterà. In tal senso può infatti interpretarsi l'affermata impossibilità di ricorrere ad altri criteri, come quelli previsti all'art. 292 c.p.p. nella previgente formulazione, che non possono e non potevano – dunque – esser utilizzati da soli a fondare una valutazione di sussistenza delle esigenze.

Osservazioni

Il principio secondo cui la misura cautelare non può essere né anticipazione di pena e non può fondarsi sulla semplice prognosi di colpevolezza, sembra essere potenziato nella valutazione della suprema Corte, oltre che in quella espressa dal Legislatore con la novella che sopra si è ripetutamente richiamata.

La valutazione attenta e rigorosa del tempo trascorso, che oggi è divenuta cogente ma che da tempo era ormai ritenuta immancabile, aggiunge significato al principio fondante del sistema delle misure cautelari, che devono rappresentare risposta dell'ordinamento al (reale e non supposto o lontano) pericolo che l'indagato o l'imputato, ove lasciati in libertà, possano fuggire, inquinare le prove o ripetere condotte illecite dello stesso tipo.

Solo il concorso di un pericolo attuale – nel senso della sua imminenza – che ciò accada può legittimare una misura che limiti o escluda la libertà personale.

Certamente positiva è la conseguenza che si riconnette a tale valutazione, come all'entrata in vigore della riforma legislativa: se limitata risulta essere la discrezionalità del giudice nella valutazione delle esigenze cautelari, rafforzata risulta invece essere l'importanza della motivazione – che deve essere comunque rigorosa se non anche diffusa – espressa dal giudice nell'ordinanza cautelare circa l'effettiva sussistenza di esigenze da soddisfare.

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